DORIA, Giovanni Gerolamo
Nacque forse a Genova, in data imprecisata, da Pier Francesco del fu Melchiorre (morto prima del 1574) e Giulia Grimaldi del fu Battista; ebbe per fratelli un Nicolò e un Giovanni Battista che, come lui, non lasciarono prole e dei quali non si conosce l'eventuale consorte; l'unica sorella attestata dagli alberi genealogici, Maria, sposò Giacomo Cattaneo del fu Isnardo. Zio del D. era Giorgio Doria del fu Melchiorre, politico e uomo d'anne anch'egli, protagonista della guerra di Corsica e abile mediatore, in qualità di governatore dell'isola, della resa di Alfonso d'Ornano nel 1569.
Al pari del congiunto, che ricoprì però anche numerosi incarichi di governo nella Repubblica di Genova, e di molti altri Doria, il D. percorse la strada delle armi, al servizio del re di Spagna nelle campagne di Fiandra e di Francia (una svista dev'essere considerata la notizia, fornita dal Valori, che egli combattesse per il re di Francia).
Nella tassa che i nobilì "vecchi", fra i quali i Doria, fuorusciti da Genova nel corso dell'uffima guerra civile cittadina, si accollarono nel 1575-76 l'eredità indivisa di Pier Francesco venne valutata di 28.750 scudi; il patrimonio dello zio Giorgio Doria era stimato di 36.250 scudi: non erano i più ricchi dei Doria, ma vantavano fortune certo superiori alla media (il patrimonio medio degli imposti "vecchi" ammontava a circa 31.000 scudi: ma gli strepitosi imponibili dei magnati facevano aggio su molte fortune mediocrissime). Nella capitazione decretata dalla Repubblica nel 1593 il D. risultò tassato sull'imponibile, non molto elevato, di 45.277 lire, a fronte delle 39.055 lire del fratello Giovanni Battista e delle 48.888 dell'altro fratello Nicolò, al quale venne però attribuito anche un capitale impiegato in Spagna di 2.035.470 "maravedise conferma, se ce ne fosse bisogno, dell'orientamento "spagnolo" della famiglia. Sono queste le sole valutazioni disponibili della fortuna del D., perché nella capitazione del 1624, che partiva da un imponibile minimo più alto (50.000 lire), né lui né i fratelli, posto che fossero vivi, furono inclusi. Questa assenza poteva dipendere anche da un loro effettivo allontanamento da Genova, per affari o per militare: in effetti né il D. né i fratelli vennero mai inclusi fra gli imbussolati nell'urna del seminario, cioè nella rosa dei candidati all'estrazione nei Collegi (il Senato e la Camera: il supremo consesso di governo) della Repubblica di Genova.
All'inizio del '600 (nel 1601 o nel 1602) il suo servizio meritò al D. una ricompensa da parte del re Cattolico. Durante la prìma guerra di successione del Monferrato tra gli Spagnoli e il duca di Savoia il D. era agli ordini del governatore spagnolo di Milano, che nel 1614 lo incaricò di occupare, alla testa di 3.000 fanti spagnoli e napoletani (con tre pezzi d'artiglieria) e di 2.000 reclute liguri, il marchesato del Maro, nell'entroterra onegliese, enclave savoina nella Liguria occidentale infeudata per ironia della sorte al ramo dei Doria gia signori di Oneglia. Le operazioni durarono tre giorni e si conclusero col successo (piuttosto scontato) della spedizione. Anche questa impresa gli valse gli elogi del sovrano.
Nel 1616, alla ripresa delle ostilità tra Sabaudi e Spagnolì attorno a Vercelli, ebbe il comando di un corpo di cavalleria spagnola "venuta di Fiandria ... gente scelta e veterana" (Capriata, p. 205), con il compito di pattugliare le vie di comunicazione e difendere le retrovie spagnole. In seguito fu incaricato di raccogliere le truppe sparse nel Monferrato (400 cavalli e 2.500 fanti) per andare a coprire Alessandria minacciata dai Sabaudi; durante la marcia di avvicinamento respinse un attacco del duca di Savoia; una volta riparato nella fortezza, sconsigliò tuttavia il governatore dall'uscire ad affrontare gli avversari in campo aperto. Con un corpo di 800-1.000 cavalieri andò poi a presidiare Valenza Po. Nell'aprile 1617 scortò Juan Gamarra, già segretario di don Pedro de Toledo, avvicinato dall'agente francese Claudio De Marini perché rivelasse il cifrario spagnolo, a denunciare il tentativo di corruzione al governatore di Milano (che era il Toledo stesso). In ricompensa dei suoi servizi nella guerra del Monferrato il D. chiese (nel 1618 o 1619) un posto nel Consiglio segreto del Ducato di Milano; in data imprecisata venne inoltre insignito dell'ordine cavalleresco di Santiago.
Ebbe il suo ultimo e più importante comando nel 1625, nella guerra mossa nel marzo di quell'anno alla Repubblica di Genova dal duca di Savoia Carlo Emanuele I sostenuto dal re di Francia, che inviò un corpo di truppe comandate dal connestabile di Francia, duca di Lesdiguières (pretesto della guerra: il marchesato di Zuccarello, nel Ponente ligure, acquistato da Genova e ambito dal Savoia). Nell'imminenza dell'attacco sabaudo-francese il governo genovese cerco un condottiero sperimentato per le proprie scarse, ma soprattutto poco esperte, forze terrestri. La principale referenza del D. era appunto l'antica partecipazione alla guerra di Fiandra, banco di prova di ogni condottiero, "ove avea aparato assai bene il modo di guerreggiare" (Pallavicino, f. 39v). Alcuni oppositori della nomina avrebbero però preferito uno straniero che avesse un'esperienza recente delle campagne di Fiandra. Dovette prevalere la constatazione fatta propria da Giulio Pallavicino: "di tali huomini vi era penuria grande". Il governo sembrava intenzionato inizialmente a concentrare il comando militare di terra in una sola persona, insignita del grado di mastro di campo generale, con uno stipendio di 500 scudi d'argento al mese, allo stesso modo che il comando in mare venne affidato a Carlo Doria duca di Tursi, comandante nel contempo della squadra di galee spagnole di base a Genova (altri Doria furono in prima fila nella direzione della guerra, a prova nel contempo e della diffusa vocazione militare della casata e. della affidabilità antisabauda e filospagnola dei suoi membri).
Il seguito degli avvenimenti dimostrò che il D. non godeva la piena fiducia del governo. A possibile che "l'età già grave" del candidato non soddisfacesse del tutto i governanti genovesi; né il piano proposto dal D. era tale da convincere tutti i magnifici. Una parte dei patrizi genovesi riteneva opportuno concentrare tutte le forze nella difesa di Genova, eventualmente abbandonando le fortezze del dominio, in attesa di partire alla controffensiva una volta giunti gli attesi e invocati soccorsi spagnoli e terminata la mobilitazione delle risorse finanziarie e militari della Repubblica. Un piano del genere venne del resto previsto ancora nel 1679, nella temuta imminenza di un attacco sabaudo o francese da terra. Al contrario il D. tenendo conto delle dimensioni del treno d'artiglieria degli attaccanti e della mancanza di una cinta di fortificazione sul crinale dei monti attorno a Genova (le "nuove mura" furono costruite, visto il pericolo corso, proprio negli anni successivi alla guerra), e temendo l'esplodere del panico (o forse anche della sedizione) in città alla vista degli attaccanti, propose di prendere tempo impegnando i Franco-Sabaudi nell'Oltregiogo (i domini della Repubblica nel basso Piemonte, oltre il crinale appenninico). La difficoltà del piano d'azione da lui proposto stava nel fatto che occorreva sbarrare contemporaneamente le due direttrici d'attacco dei Franco-Sabaudi: una da Ovada verso il passo del Turchino, l'altra da Novi e Gavi verso la Bocchetta e i Giovi.
Il D. si portò a Ovada, incaricando il parente Giorgio Doria ("nipote", secondo il Capriata) di recarsi a Novi. Sembra però che l'azione del D. non fosse condivisa da Benedetto Spinola, commissario d'armi per l'Oltregiogo. Il cattivo stato delle strade impedì al D. di munire convenientemente le due piazze, che infatti si arresero subito agli attaccanti. Ripiegato su Rossiglione, il D. ritenne le linee di difesa lì erette indifendibili e propose di concentrare le forze alla difesa di Gavi. Il governo genovese non tenne conto del consiglio del D., imponendo la difesa di entrambi i settori. Il D. sistemò allora le forze per la difesa di Rossiglione, tenendosi in retroguardia a Campofreddo (oggi Campoligure); ma non poté evitare che Rossiglione fosse presa dai Sabaudi, dopo una confusa azione (27 marzo); evacuò perciò Campofreddo e anche Masone, e si portò a Genova, dove venne richiamato anche Benedetto Spinola.
È possibile che gli ordini del D. non venissero puntualmente eseguiti: secondo uno degli storici coevi della guerra, il D. non avendo trovato le forze che aveva ordinato di schierare a Campofreddo "come attonito, e stupefatto ne divenne". In ogni caso, continuò ad opporsi al parere di chi proponeva di evacuare anche Gavi ed eventualmente persino Savona senza combattere, per ridursi alla difesa di Genova. Fu ascoltato, ma incaricato al tempo stesso di coordinare la difesa dal centro. Non fu perciò direttamente coinvolto nella controffensiva delle forze ispano-genovesi condotte da Tommaso Caracciolo, dal barone de Watteville, dal cavalier Cattaneo d'Ary, da Giacomo Spinola, Clemente Della Rovere e Leonardo Ravaschiero, e sbaragliate a Voltaggio il 9 aprile dai Franco-Sabaudi. La nuova disfatta rese "chiaro che non era possibile potere riuscire cosa veruna in bene, senza havere persona perita di ogni scienza della guerra" (Pallavicino, f. 84v): impietoso giudizio implicito sulle sue capacità. Nuovo mastro di campo generale, con stipendio di 600 scudi d'argento al mese, fu nominato il cavaliere di Malta Lelio Brancaccio, napoletano, che giunse in città il 13 giugno.
Il D., al quale non venne per altro tolta la carica, fu inviato nella Riviera di Ponente. per recuperare Sassello, che riprese facilmente, e per organizzare la difesa della Riviera dagli imminenti attacchi degli invasori. Da Savona l'11, il 13 e il 17 aprile diede disposizioni perché non venisse effettuato alcun commercio con le truppe sabaude, e perché tutte le forze si tenessero in stato di all'erta, facendo al tempo stesso leva sul patriottismo ligure (e antipiemontese) delle genti della Riviera e autorizzando ogni azione di guerriglia ai danni dei Franco-Sabaudi. In quegli stessi giorni giungevano richieste d'aiuto dalle guarnigioni e dalle Comunità dell'estremo Ponente, che in un primo tempo passarono all'offensiva e riuscirono ad occupare alcune località dell'entroterra di Oneglia, mentre Oneglia stessa venne conquistata congiuntamente da un corpo di spedizione partito da Albenga e dai miliziani di Porto Maurizio. Il D. si portò per mare proprio nell'estremo Ponente, con l'incarico di tenere Pieve di Teco, località che sbarrava la strada all'invasione piemontese. Secondo il Capriata, il D. eseguì l'ordine "con protesta che a manifesta perdita di se stesso e delle genti v'andarebbe". Scarse le sue forze: 500-600 soldati (Capriata: 1.000) e 500 miliziani (Capriata: 1-500) da aggiungere alla guarnigione di Pieve di Teco minacciata da una forte truppa franco-sabauda (7.000 fanti e 400 cavalli) al comando del principe Vittorio Amedeo di Savoia. Le richieste di rinforzi regolari rivolte dal D. al governo vennero eluse; fu invitato a radunare i miliziani di tutti i colonnellati sino a Ventimiglia. L'attacco piemontese ebbe luogo il 10 maggio; il D. divise le forze: o perché licenziasse i miliziani (il giorno stesso della cattura scrisse che le "militie che sono venute sono piuttosto di danno che di utile"), o perché inviasse un contingente di 500 uomini a coprire le spalle. Non aveva previsto che gli attaccanti potessero impiegare l'artiglieria. I difensori della Pieve si sbandarono rapidamente; il D. tentò di trattare la resa: ma per un malinteso questo non fu possibile, e gli assalitori fecero irruzione nell'abitato, che misero a sacco. Rifugiatosi nel castello, il D. si arrese a condizioni l'11 maggio.
Come gli altri comandanti militari e patrizi genovesi catturati in quella fase della guerra, il D. fu condotto prigioniero a Torino. Quando nel 1628 la Repubblica, scoperta la congiura di Giulio Cesare Vachero, protetto dal duca di Savoia, condannò a morte i cospiratori, Carlo Emanuele I tentò di impedire le esecuzioni minacciando di giustiziare per rappresaglia i nobili genovesi suoi prigionieri. Il 23 apr. 1628 il D. e Pietro Maria Gentile, catturato con lui a Pieve di Teco, indirizzarono una lettera al Senato genovese riferendo le minacce del duca. Il governo genovese informò del ricatto il governatore di Milano, don Gonzalo de Cordoba, dall'autunno precedente alleato del duca di Savoia nella spartizione del Monferrato, ma non cedette alle richieste di Carlo Emanuele. Il Vachero e i suoi complici furono giustiziati il 31 maggio, senza che venisse dato corso alla rappresaglia. Il D. non doveva comunque rivedere Genova: morì in prigionia, a Torino, nel dicembre 1628; il 29 di quel mese vennero infatti decretate dal governo esequie pubbliche in suo onore.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Arch. segreto, 462; Ibid., Manoscritti, 437; Ibid., Senato, Militarium: O. Foglietta, 1116-1126 (sono gli atti della giunta di difesa della Repubblica; comprendono la corrispondenza militare, relazioni, conti ecc.; utili in particolare le filze 1116-1125); Genova, Arch. storico del Comune, Fondo Pallavicino, 341: Vero e distinto ragionamento fatto da Giulio di Agostino Pallavicino per lo quale con ogni curiosità si narra la scellerata guerra mossa l'anno 1625 dal duca di Savoia alla Repubblica di Genova, scritta da lui con ogni verità; [R. Della Torre] Commentario dell'impressione ostile fatta dall'armi francesi e piemontesi nella Liguria, l'anno 1625; Ibid., Fondo Brignole Sale, 106 A 4: Relazione dell'origine della guerra dell'anno 1625, cheebbe la Republica di Genova con duca di Savoia descritta da Gio.Batta Cicala quondam Giulio; Ibid., 109 E 9: Historia della guerra che han fatto alla Republica di Genova il re di Francia, duca di Savoia, et altri collegati l'anno 1625di Giovanni Costa nobile genovese; [A. M. Costa] Origine della libertà di Genova, suoi stati e successi della guerra tra il duca di Savoia e la Repubblica di Genova; [R. Della Torre] Historie delli avvenimenti de' suoi tempi; I, 110 bis E 35: [P.A. Schiaffino] Memorie di varie cose; Genova, Collezione privata, Albero genealogico della famiglia Doria; Parigi, Bibl. nat., Fonds Français, 16053; Archivo general de Simancas, Papeles de Estado, Génova, legg. 1431, 1437, 1934, 1935; Archivio di Stato di Torino, Sezioni riunite, Fondo Doria di Cirìè, 281; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, I, Roma 1951, p. 406; II, ibid. 1955, p. 251; P. G. Capriata, Dell'historia ... libri dodici, Genova 1650, pp. 205, 454 s., 494 ss., 679, 689, 719 ss.; F. Casoni, Annali di Genova del secolo decimosettimo, Genova 1799-1800, I, pp. 61, 65, 84; II, p. 164; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili genovesi, Genova 1828-1833, Alberi Doria, tav. 28; C. Varese, Storia della Repubblica di Genova dalla sua origine sino al 1814, VI, Genova 1837, pp. 216, 219, 221 ss., 235 ss.; L. Volpicella, I libri dei cerimoniali della Repubblica di Genova, Sampierdarena 1921, p. 228; R. Quazza, Genova, Savoia e Spagna dopo la congiura del Vachero, in Boll. storico-bibliografico subalpino, XXXI (1921), pp. 286 s.; F. Poggi, Le guerre civili di Genova in relazione con un documento economico-finanziario dell'anno 1576, in Atti della Soc. ligure di storia patria, LIV (1930), 3, p. 122; C. Bruzzo, Note sulla guerra del 1625, ibid., LXVII (1938), p. 173; A. Valori, Condottieri e generali del Seicento, Roma 1943, p. 129 (sovrappone le identità di Giovan Gerolamo di Pier Francesco e Giovan Gerolamo di Stefano, marchese di Ciriè e del Maro; tratta poi in effetti del primo); G. Guelfi Camajani, Il Liber nobilitatis Genuensis, Firenze 1965, pp. 160 s.; G. Casanova, La Liguria centro-occidentale e l'invasione franco-piemontese del 1625, Genova 1983, pp. 30-69.