GHISOLFI (Grisolfi), Giovanni
Figlio di Giuseppe, architetto piacentino, nacque nel 1623 a Milano, dove studiò pittura con G. Chignoli. La prima notizia certa sulla sua attività è legata alla visita a Milano dell'arciduchessa Marianna d'Austria nel 1649. In tale occasione il G. partecipò alla realizzazione degli allestimenti per l'accoglienza in città dell'arciduchessa, in particolare degli archi trionfali e di altre decorazioni pittoriche non meglio descritte dalle fonti (Orlandi), ma che sappiamo essere state molto apprezzate da Marianna d'Austria.
Nel 1650, con l'amico pittore A. Busca, si recò a Roma, dove si dedicò allo studio dell'architettura antica e al disegno di frammenti architettonici. Tra gli scopi del viaggio a Roma c'era anche quello di imparare a dipingere le figure (Baldinucci). A Roma lavorò a stretto contatto con Salvator Rosa: sempre secondo Baldinucci, inizialmente il Rosa eseguiva le figure e il G. le prospettive architettoniche; poi quest'ultimo, appresa la tecnica, si rese autonomo. In realtà sembra più probabile che il G. realizzasse fin dall'inizio da solo le sue tele sull'esempio delle opere del Rosa e che il loro fosse un rapporto fra colleghi piuttosto che fra maestro e allievo. La notizia sottolinea comunque la stretta collaborazione fra i due pittori, confermata da alcune lettere del Rosa a G.B. Ricciardi, nelle quali si esprimeva nei confronti del G. in termini di grande stima professionale (De Rinaldis).
Fra i dipinti più importanti degli anni romani è la tela già nella collezione Rospigliosi raffigurante Rovine romane (Voss, 1924) e il dipinto della Gemäldegalerie di Dresda Le rovinedi Cartagine.
Alcuni tra i paesaggi, le vedute e le prospettive dipinti dal G. in questo periodo furono a lungo scambiati per opere di G.P. Panini; e uno dei suoi maggiori meriti è stato considerato quello di aver fornito esempi al pittore piacentino (Ozzola, 1913).
Una delle prove più palesi dell'interesse del Panini per l'opera del G. è il quadro Rovine con la parabola del pesce del Nelson-Atkins Museum di Kansas City, firmato e datato 1744. Esso cita quasi letteralmente l'opera del G. di uguale soggetto nella collezione Almagià, databile agli anni del suo primo soggiorno romano. Quest'ultima opera ha inoltre un pendant, Pitagora esce dalla caverna, conservato nella stessa collezione, nel quale il G. usò come sfondo il tempio di Saturno al foro Romano e non rovine di fantasia, come più spesso accadeva (Spear).
Sulla base del confronto con la tela già Rospigliosi è stata proposta l'attribuzione al G. del Paesaggio con rovine della Galleria Spada (Zeri), più recentemente ricondotto su base documentaria a Domenico Roberti, che lo dipinse nel 1703 (Cannatà - Vicini). Anche in questo caso, dunque, un'opera la cui datazione è molto più tarda è stata scambiata per un lavoro del G. degli anni Cinquanta. I suoi paesaggi sono infatti solo in parte influenzati da quelli del Rosa; il classicismo che emerge dai suoi dipinti, reso attraverso composizioni lineari, colori chiari e luce diffusa, e la solida impostazione architettonica, rendono il G. anticipatore del vedutismo settecentesco.
Dopo il 1654 non si hanno più notizie circa la presenza del G. a Roma, mentre sappiamo che nel 1659 si trovava a Milano. La notizia proviene ancora una volta da una lettera del Rosa a G.B. Ricciardi, nella quale il pittore scriveva di aver ricevuto una lettera dal collega milanese, che lo informava di aver subito una forte perdita di denaro a causa del fallimento di un banco di Milano (De Rinaldis).
La sua prima opera documentata in Lombardia è la decorazione ad affresco della terza cappella a destra della certosa di Pavia, eseguita nel 1661 (Rossi).
La cappella è dedicata a S. Benedetto e presenta nove scene della vita del santo. Qui il paesaggio prevale solo in alcune scene, come il Sermone di s. Benedetto; mentre molti altri episodi, come S. Benedetto e il falso Totila, S. Benedetto fa abbattere gliidoli, S. Benedetto segue i lavori di costruzione di una chiesa, si svolgono in un saldo impianto architettonico: le figure sono ammantate di ricchi drappeggi e alcuni dettagli dell'abbigliamento, come i berretti e i calzari, sembrano essere stati desunti dal repertorio del Rosa.
Nella biblioteca della certosa si conserva un'altra opera del G.: si tratta di una tela a contorno mistilineo raffigurante S. Bruno in meditazione sul crocifisso, immerso in un paesaggio e con due angioletti in alto, ai lati. L'opera fa parte di una serie di quattro tele dedicate ai fondatori di ordini monastici (quella con S. Domenico è opera di A. Busca) ed è considerata una delle più tarde del G., forse addirittura degli anni Ottanta (Pesenti). A essa può essere avvicinato un disegno del G. conservato alla Biblioteca Ambrosiana con uno studio di figura panneggiata e due studi di bambini (Rossi).
Nel 1662 il G. fu impegnato nella decorazione ad affresco della quarta cappella del Sacro Monte di Varese, dedicata alla Presentazione al tempio. La data è indicata in un'iscrizione sulla facciata che ricorda anche i nomi dei committenti: Emilio Omodei e suo nipote il cardinale Luigi. Quest'ultimo fu sempre un grande estimatore del G. e gli commissionò importanti opere, come testimoniano alcune sue lettere del 1669 (Roma, Archivio di S. Carlo al Corso) scritte a un amico che si trovava a Venezia affinché sollecitasse il G., all'epoca nella città lagunare, a tornare al più presto (Salerno). Inoltre, l'inventario dei beni del cardinale, redatto nel 1685, riporta la presenza nella sua collezione di ben sedici tele del G., fra cui un "paesetto" eseguito in collaborazione con P.F. Mola (Spezzaferro, p. 57).
La decorazione pittorica del G. al Sacro Monte comprende sia la cupola (con L'Eterno fra angeli e fregi a chiaroscuro), sia le pareti, dove affrescò una finta architettura a colonne e balconate con personaggi affacciati a osservare la scena principale; sulla parete dietro l'altare, alle spalle della statua raffigurante il sacerdote, il dipinto finge un'apertura verso un vasto presbiterio coperto da cupola e con nicchia absidale. Gli affreschi del Sacro Monte avvicinano il G. alla grande tradizione decorativa barocca, di cui certamente aveva potuto osservare a Roma i più alti esempi: in primo luogo gli affreschi di Pietro da Cortona e inoltre le opere dei grandi quadraturisti come A. Tassi. Anche in Lombardia operavano alcuni importanti quadraturisti, fra i quali il bresciano O. Viviani; presso di lui il G. avrebbe forse compiuto parte del suo alunnato prima del viaggio a Roma (Ozzola, 1913).
A. Spiriti ha proposto (1994) una diversa cronologia delle opere lombarde del G. dopo il primo soggiorno romano. Secondo questa ipotesi la prima opera dopo il ritorno in patria fu la decorazione di palazzo Omodei a Cusano Milanino. Nel palazzo, oggi in condizioni di quasi totale abbandono, il G. avrebbe eseguito le quadrature del salone e della sala adiacente; mentre J.C. Storer dipingeva le figure allegoriche. Questo ciclo è leggibile solo in parte a causa del suo precario stato di conservazione. L'attribuzione al G. è sostenuta dalla committenza del cardinal Luigi Omodei e dal fatto che si tratta di un quadraturismo aggiornato sulle novità romane; la datazione proposta è il 1654-55, periodo in cui il pittore non è più documentato a Roma. Pochi anni dopo, nel 1658-59, il G. avrebbe lavorato al Sacro Monte di Varese, ancora per Luigi Omodei, che voleva concludere i lavori della cappella come ringraziamento per la sua nomina a cardinale, avvenuta nel 1652. Poiché Omodei fu assente dalla Lombardia dal 1655 al 1658, è stato ipotizzato che fece intervenire il G. nella cappella di Varese subito dopo il suo ritorno e non nel 1662, data indicata nell'iscrizione della facciata, che rappresenterebbe la conclusione definitiva dei lavori.
Il 1663 è forse l'anno dell'intervento del G. in palazzo Borromeo-Arese a Cesano Maderno (Bossaglia). Le notizie delle fonti, piuttosto confuse, parlano della costruzione all'interno del palazzo di una chiesa e di un convento di domenicani, dove avrebbero lavorato il G., A. Busca e lo scultore D. Bussola (Torre). In realtà l'intervento dei due pittori è forse ravvisabile nella galleria del piano nobile, dove il G. avrebbe dipinto gli sfondi di paesaggio delle grandi figure allegoriche monocrome eseguite dal Busca. L'esatta ubicazione di questo intervento è di difficile definizione a causa delle cattive condizioni di conservazione degli affreschi, che hanno subito innumerevoli ridipinture. Ormai illeggibili risultano anche gli affreschi di villa Litta-Modignani nei pressi di Varese, eseguiti dal G. con la collaborazione di F. Bianchi e G.B. Grandi, per i quali è stata ipotizzata una datazione più tarda, intorno al 1680 (Rossi).
Nel 1664 la presenza del G. è documentata sia a Roma (Hoogewerff), sia a Vicenza, dove ricevette un pagamento per gli affreschi realizzati nel salone del palazzo Trissino-Baston (Barbieri).
Gran parte del ciclo è andata perduta nel 1945 a causa di un bombardamento; rimangono alcuni dipinti secondari del soffitto, le due scene del fregio sulle pareti lunghe, la documentazione fotografica completa e un gruppo di disegni preparatori (Meijer). Sul soffitto, distrutto e in seguito rifatto, il G. aveva affrescato La caduta dei giganti e alcuni tondi minori, fra stucchi di G.B. Barbarini. Il fregio delle pareti comprende quattro scene, identificate grazie alle didascalie dei disegni preparatori, che hanno come tema comune, così come quelle del soffitto, l'intervento miracoloso di un'aquila in vicende mitologiche o della storia antica; ciò è dovuto al fatto che il simbolo araldico dell'aquila compare nello stemma della famiglia Trissino. In vari episodi del ciclo sono presenti sfondi con rovine antiche e scorci di paesaggio, ma naturalmente prevalgono le figure e il fine narrativo.
A Vicenza il G. lavorò anche in palazzo Giustiniani-Baggio, probabilmente nel 1665 (Barbieri). La decorazione comprende i fregi di quattro sale, di carattere e misure più modeste rispetto a palazzo Trissino e con iconografie di difficile identificazione, a parte un Ratto d'Europa.
Le scene sono di classica compostezza; i personaggi sono ammantati con abiti ad ampie pieghe e compiono pochi gesti misurati, tutti caratteri che avvicinano questi affreschi a quelli di Pavia. Anche per questo ciclo esistono alcuni disegni preparatori (Meijer) che, insieme con quelli relativi a palazzo Trissino, sono conservati in parte nel Teylers Museum di Haarlem e in parte a Windsor Castle, dove significativamente le attribuzioni tradizionali erano rispettivamente a Pietro da Cortona e a P.F. Cittadini.
Nel 1674 la tela con La liberazione di s. Pietro dal carcere era già sull'altare sinistro della chiesa di S. Maria della Vittoria a Milano (Torre). Si può ipotizzare che il G. la dipingesse dopo il soggiorno a Venezia del 1669, da dove il cardinale Luigi Omodei lo aveva sollecitato a rientrare a Roma; secondo Bossi, la tela fu in effetti realizzata a Roma. Di certo il committente fu ancora una volta il cardinale, che aveva reso la chiesa una sorta di mausoleo di famiglia e che aveva affrontato forti spese per adornarla di opere d'arte.
Il quadro del G., affiancato da angeli dello scultore A. Raggi, è di grande semplicità compositiva: il santo, l'angelo e il soldato addormentato sono quasi su uno stesso piano, lo sfondo è appena accennato e non ha alcuna apertura verso il paesaggio, la profondità spaziale è suggerita solo dalle chiavi poste di scorcio in primo piano.
L'impresa decorativa più impegnativa di questa tarda fase dell'attività del G. è la decorazione ad affresco della volta del presbiterio e del coro di S. Vittore a Varese, eseguita nel 1675 con la collaborazione del nipote B. Racchetti, autore delle quadrature architettoniche (Cattaneo - Colombo).
Al centro della volta del presbiterio è raffigurata La gloria di s. Vittore, ai lati e nel catino absidale sono dipinti angeli in volo. L'impianto decorativo rimanda ancora una volta alla decorazione barocca romana e in particolare alle opere di Pietro da Cortona sia per lo sfondato illusionistico delle quadrature architettoniche, sia perché le nubi del cielo vanno in parte a coprire le finte architetture, espedienti che il G. aveva già utilizzato nella cappella del Sacro Monte.
Le notizie più attendibili sugli ultimi anni di vita del G. provengono dall'Orlandi, il quale, oltre a informarci sull'aspetto fisico del pittore ("Fu uomo quasi gigantesco") e sul fatto che non si sposò mai, parla di una malattia che lo colpì dopo l'impresa di Varese e che lo rese quasi cieco. Il G. morì a Milano nel 1683 e fu sepolto nella chiesa di S. Giovanni in Conca.
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