GIOLITTI, Giovanni
Nacque a Mondovì (Cuneo) il 27 ott. 1842, da Giovenale, cancelliere del tribunale di Mondovì, e da Enrichetta Plochiù.
La famiglia paterna, appartenente alla media borghesia impiegatizia - il nonno Giovanni era notaio a San Damiano di Macra - proveniva da Acceglio, un villaggio di contadini montanari non distante da Dronero. Di origine francese era il ceppo materno, i Plochu, piemontesizzato in Plochiù, famiglia dell'alta borghesia torinese. Il padre di Enrichetta, Giovanni Battista, era stato procuratore generale a Torino durante la dominazione francese; nel 1821 era stato nominato dai "costituzionali" capo politico della provincia di Pinerolo; dopo la repressione del moto fu esule in Francia; riammesso in Piemonte, si era stabilito a Cavour.
Il G. aveva un anno quando rimase orfano del padre. La madre decise di portare il piccolo "Giuvanin" - così era chiamato in famiglia - a Torino, ad abitare in un appartamento in via d'Angennes (poi via Principe Amedeo), insieme con i suoi quattro fratelli scapoli. Patriottico, liberale e borghesemente austero era l'ambiente nel quale il G. crebbe. Poiché il bambino era assai gracile, su consiglio del fratello Giuseppe, medico (il quale nel '48 era stato eletto deputato della I legislatura sabauda), Enrichetta si trasferì da sola, con il figlio di sei anni, a San Damiano.
Qui il G. iniziò l'istruzione ginnasiale - la madre aveva provveduto in casa a insegnargli a leggere e a scrivere - mostrando tuttavia poco impegno nello studio: "il meglio del tempo passato lassù sui monti lo spesi a giocare e a rinforzarmi la salute" (Memorie, I, p. 6). Tornato a Torino nel 1852, frequentò il ginnasio S. Francesco da Paola. Fu uno scolaro poco disciplinato, che provava ripugnanza per lo studio grammaticale delle lingue antiche, era poco attratto dalla matematica, preferiva la storia, e fu anche appassionato lettore dei romanzi di Walter Scott e di H. de Balzac "per le loro connessioni con la tradizione storica o con la realtà attuale" (ibid., pp. 6 s.). All'inizio studiò molto anche i filosofi celebri del momento, come A. Rosmini e V. Gioberti, ma la lettura della giobertiana Teorica del sovranaturale - disse più tardi - lo guarì da questo interesse "ad un tratto ed una volta per sempre" (ibid., p. 7).
A sedici anni si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, e si laureò tre anni più tardi, il 14 ag. 1861, con una tesi in filosofia del diritto sulla "Società coniugale".
In quegli anni, il G. fu dedito principalmente agli studi, dai quali non lo distolsero neanche gli eventi straordinari che portarono alla nascita dello Stato italiano; non si interessò di politica, anche se vide spesso C. di Cavour e ascoltò i suoi discorsi alla Camera, né si lasciò coinvolgere dall'entusiasmo patriottico del volontarismo universitario nel 1859: "ero figlio unico di madre vedova e non potevo lasciarla. Badavo ai miei studi; facevo grandi passeggiate in montagna; andavo a caccia e tiravo di scherma" (ibid., p. 8). Il G. non sentirà mai il patriottismo come un'esaltazione ideale; da uomo politico, manifestò apertamente la sua antipatia per la retorica nazionalistica, tanto da apparire alquanto arido di ideali o con scarsa devozione al sentimento della patria.
Conseguita la laurea, il G. si avviò alla carriera burocratica. Nel 1862 entrò in magistratura, dapprima senza stipendio, col grado di aspirante al volontariato al ministero di Grazia e Giustizia, e successivamente come addetto alla segreteria generale nello stesso ministero. Nel 1864 si trasferì con la madre a Firenze, temporanea capitale d'Italia, dove il governo aveva traslocato, ma due anni dopo chiese e ottenne di ricoprire l'incarico di sostituto procuratore del re al tribunale di Torino. Motivo del trasferimento furono le precarie condizioni di salute della madre, che desiderava tornare presso i fratelli: Enrichetta morì nell'agosto 1867. Nel febbraio 1869, il G. si accinse a tornare a Firenze, come segretario capo della Commissione centrale delle imposte dirette. Un mese prima aveva conosciuto la futura moglie, Rosa Sobrero, diciannovenne, nipote del chimico Ascanio Sobrero, inventore della nitroglicerina, e figlia di un magistrato che era stato procuratore generale della Cassazione di Torino: le nozze furono celebrate il 31 marzo.
Dalla loro unione nacquero sette figli; il primo, Giovenale, morto a pochi mesi, Enrichetta, Lorenzo, scomparso tragicamente per un incidente a sette anni, Luisa, Federico, Maria e Giuseppe.
Al 1869 risale l'incontro con Q. Sella, l'uomo politico che forse rappresentò il modello di statista al G. più congeniale. Sella apprezzò subito la preparazione e le capacità del giovane funzionario, lo nominò capo sezione alle Finanze, e dal 1870 al 1871 lo volle suo segretario particolare. Nel luglio 1873, M. Minghetti, divenuto presidente del Consiglio, assunse anche il governo delle Finanze, e chiamò il G. a collaborare con lui per tutta la durata del ministero fino alla "rivoluzione parlamentare" del 18 marzo 1876, che portò la Sinistra al potere. Dal nuovo presidente del Consiglio, A. Depretis, il G. fu nominato reggente della Direzione generale delle imposte e, nell'ottobre 1877, divenne segretario generale alla Corte dei conti, dove rimase fino al 1882.
Ciò gli permise di sviluppare e affinare "una educazione amministrativa efficacissima, mettendomi a conoscenza di tutto il meccanismo dello Stato; ciò che mi riuscì assai utile quando quel meccanismo dovetti muoverlo io stesso" (Memorie, I, p. 26).
Dal 1877, con il trasferimento del ministero delle Finanze nella nuova sede romana, anche la famiglia del G. traslocò a Roma, dapprima in piazza dell'Esquilino e successivamente in un appartamento in via Cavour. L'arrivo nella capitale non mutò le abitudini di casa Giolitti, improntate alla sobrietà e alla riservatezza.
Il piemontese G. non fu conquistato dal fascino della "città eterna", troppo chiassosa e in contrasto con la quiete operosa della sua Torino. Egli era alieno dalla mondanità e dai salotti intellettuali, come fu sempre indifferente a tutto ciò che fosse ostentazione del potere e del prestigio che gli derivavano dalla sua posizione.
Nel luglio 1882 fu nominato consigliere di Stato, incarico che ricoprì per pochi mesi, poiché accettò la candidatura politica per le elezioni per la XV legislatura. In passato, il G. aveva declinato un'analoga offerta nel collegio di Pinerolo, per non lasciare la carriera. Ma ora che la sua carica non era incompatibile con l'elezione alla Camera, decise di entrare nella vita politica. Fu l'amico A. Riberi, deputato uscente, ad aprirgli la via dandogli l'opportunità di presentarsi nel suo collegio di Cuneo. In una lettera-programma agli elettori, scritta in una prosa concreta e scarna, tipica del suo stile espositivo, come oratore parlamentare e come scrittore, il G. tracciò le linee di un programma ispirato a un liberalismo aperto alle correnti nuove della vita sociale e alle esigenze delle classi popolari.
Il G. invocava "la più stretta economia nelle pubbliche spese" evitando innanzi tutto di "lasciarsi trascinare nelle spese militari al di là di quel che è necessario per difendere la integrità e la dignità del Paese" (Discorsi extraparlamentari, p. 92).
Come capolista nelle prime elezioni a scrutinio di lista, che si svolsero il 29 ottobre e il 5 nov. 1882, il G. ebbe un successo personale. Alla Camera aderì alla Sinistra costituzionale. I tre anni e mezzo di durata della legislatura (22 nov. 1882 - 27 apr. 1886), furono un periodo "di affiatamento e di noviziato" (Memorie, I, p. 38). Fece parte di molte commissioni, ma lavorò soprattutto nella commissione del Bilancio, segnalandosi per la competenza in materia finanziaria, economica e giuridica. La sua azione propriamente politica iniziò soltanto nel terzo anno della legislatura, quando si unì al gruppo dei deputati "dissidenti" della Sinistra, fra i quali erano A. di Rudinì, S. Sonnino e L.G. Pelloux, per opporsi alla politica finanziaria del ministro A. Magliani, rimasto famoso come "rappresentante tipico di una finanza insinceramente ottimista e di una quasi prestidigitazione finanziaria" (ibid., p. 39). Distaccatosi da Depretis e avvicinatosi a F. Crispi, il G. si presentò alle elezioni per la XVI legislatura nel 1886 con una propria lista di "opposizione subalpina" al governo, dedicando la campagna elettorale alla denuncia della politica finanziaria e alla critica del "trasformismo" che, secondo il G., ne era l'origine e la causa.
"Il governo rappresentativo - scrisse nel manifesto agli elettori il 28 aprile - non può procedere regolarmente senza partiti organizzati con programmi chiari e precisi. Mancando questa condizione, il governo è costretto ad appoggiarsi successivamente a mutevoli maggioranze, le quali non si possono tenere riunite se non in nome di interessi speciali e locali" (Discorsi extraparlamentari, pp. 101 s.).
Più volte, negli anni successivi, il G. sostenne la necessità di partiti organizzati, con programmi chiari e precisi per il funzionamento di un corretto sistema parlamentare. In quel periodo egli definì gli elementi essenziali della sua visione dei problemi di politica interna e internazionale, spiegando, in un discorso tenuto dopo le elezioni, il 7 nov. 1886, gli orientamenti generali che avrebbero ispirato la sua azione futura: "Due sono i sistemi ai quali si può informare la sua condotta politica una nazione. Quella che suole chiamarsi la politica imperiale e la politica democratica. La prima nei rapporti coll'estero è intraprendente, invadente, tende ad allargare i confini dello Stato, a creare colonie non solo commerciali, ma militari; in una parola, ha di mira il predominio sulle altre nazioni. La politica interna, coordinata con quella estera, ha di mira la potenza economica del Paese come base della potenza politica. Una politica imperiale non può farsi senza destinare all'esercito e alla marina le maggiori risorse del Paese e senza una direzione politica costantemente uniforme; essa richiede quindi un forte governo che abbia l'appoggio di una potente aristocrazia la quale, a sua volta, non può esistere senza la grande proprietà. Ne sono conseguenza poca libertà all'interno e il sacrificio del privato al pubblico interesse […]. La politica democratica tende invece ad assicurare il benessere del maggior numero di cittadini; deve perciò favorire l'istruzione pubblica, l'industria, l'agricoltura, ridurre al necessario i pubblici pesi, provvedere alle classi lavoratrici, garantire la libertà. Nei rapporti con l'estero deve avere di mira il mantenimento della pace sempre quando è conciliabile con la dignità e gli interessi vitali del Paese. Esercito e Marina devono essere proporzionati a questo scopo. In un punto una illuminata e sapiente politica democratica concorda con la politica imperiale, ed è nello assicurare la potenza economica e la grandezza morale del Paese. Quale delle due politiche conviene all'Italia? Non esito ad affermare che dobbiamo fare una politica sinceramente democratica. Ce lo impongono la nostra origine, la nostra costituzione politica e sociale, i nostri interessi" (Discorsi extraparlamentari, pp. 105 s.).
Nella nuova Camera il G. votò a favore del primo governo Crispi, succeduto il 6 agosto a Depretis, ma riprese l'opposizione alla politica finanziaria del Magliani, che era stato confermato ministro delle Finanze. La battaglia dell'opposizione si concluse con le dimissioni del ministro e con la nomina dello stesso G. a ministro del Tesoro nel secondo governo Crispi, e dal 14 settembre ministro delle Finanze ad interim. La collaborazione con Crispi, nonostante la profonda diversità di caratteri, fu all'inizio assidua: "eravamo molto affiatati in tutto, ed egli mi chiamava spesso a consulto" (Memorie, I, p. 49). Il programma giolittiano fu di restringere, quanto più possibile, le spese per ridurre il disavanzo finanziario. Egli si oppose con decisione a richieste immotivate di altri ministri o dello stesso Crispi, finché si vide costretto a rassegnare le dimissioni il 9 dic. 1890. Iniziò da allora il contrasto politico (esasperato poi anche da un virulento scontro personale all'epoca dello scandalo della Banca romana) fra il G. e Crispi, che doveva aggravarsi durante i successivi governi presieduti dallo statista siciliano, fino al disastro di Adua, a causa di una totale contrapposizione delle loro vedute in materia di ordine pubblico e di politica estera.
Dopo la caduta del governo Crispi (9 marzo 1889 - 9 febbr. 1891) e un breve governo Rudinì (9 febbr. 1891 - 15 maggio 1892), il re, su consiglio di U. Rattazzi, il 16 maggio si risolse ad affidare l'incarico di formare il nuovo governo al Giolitti. Ciò provocò le ire di Crispi, che aspirava a un reincarico, e suscitò non poche proteste sia a destra che a sinistra, fra gli anziani parlamentari di formazione risorgimentale, nei confronti di un presidente incaricato relativamente giovane, ritenuto "uomo della Corte", senza alcun glorioso passato patriottico, inesperto e inadatto a reggere il governo del paese in un periodo di grave depressione economica, di crisi finanziaria, di minacciose agitazioni sociali e forti tensioni internazionali nei rapporti con la Francia. In questa difficile situazione, il G. costituì il suo primo governo, composto quasi interamente da uomini della Sinistra, mantenendo per sé il ministero dell'Interno e, ad interim, il Tesoro.
Il nuovo governo si presentò alla Camera il 25 maggio, con un programma piuttosto generico, che puntava soprattutto al risanamento delle finanze. In politica estera, il G. preannunciò un atteggiamento più distensivo nei confronti della Francia, mentre nella politica interna assicurò il mantenimento dell'ordine nella salvaguardia delle libertà.
Ma gli esordi del nuovo presidente del Consiglio non furono buoni. Il suo governo ebbe la fiducia con solo nove voti di maggioranza. Il che indusse il G. a presentare le dimissioni, che il re respinse autorizzandolo a sciogliere la Camera. Le elezioni generali si tennero il 6 e il 13 novembre, col sistema del collegio uninominale, reintrodotto dal governo Rudinì. Ciò contribuì notevolmente alla vittoria della Sinistra e alla formazione di una consistente maggioranza favorevole al governo.
Il G., infatti, non esitò ad avvalersi del suo potere, tramite i prefetti, per influenzare le elezioni in un senso favorevole ai suoi candidati, specialmente nei collegi meridionali. Inoltre, per premiare gli amici ed eliminare dalla competizione personaggi a lui ostili, fece nominare novanta senatori. Si manifestò così, fin dalla prima esperienza come presidente del Consiglio, la spregiudicata tecnica politica del G., che suscitò allora, e ancor più avrebbe provocato negli anni successivi, vigorose proteste degli oppositori e severe condanne da parte dell'opinione pubblica liberale e democratica.
Il primo governo del G. non ebbe vita facile perché fu presto investito da gravi eventi interni, come le agitazioni dei Fasci siciliani e l'esplosione dello scandalo della Banca romana. In politica estera il proposito giolittiano di riavvicinamento alla Francia naufragò dopo l'eccidio di trenta operai italiani ad Aigues-Mortes, in Provenza, il 17 ag. 1893. Questi fatti tragici provocarono in Italia accese manifestazioni antifrancesi (fu dato l'assalto all'ambasciata di Francia) e violente dimostrazioni dei socialisti, dei radicali e degli anarchici, che evocarono nei conservatori l'incubo di una rivoluzione imminente. Queste paure erano d'altra parte conseguenza della nascita, avvenuta il 15 ag. 1892, del Partito dei lavoratori italiani (denominato nel 1895 Partito socialista italiano). Il G. fu accusato di mettere in pericolo la stabilità delle istituzioni, mentre menomava il prestigio della nazione all'estero. L'esperienza del suo primo governo, quindi, nonostante avesse varato alcune importanti riforme, come il riordino degli istituti di emissione e l'istituzione della Banca d'Italia (agosto 1893), si concluse con "una serie di fallimenti" (Valeri, G., p. 133). Il 24 nov. 1893, in seguito ai risultati dell'inchiesta sullo scandalo della Banca romana, che lo aveva coinvolto personalmente, il G. rassegnò le dimissioni; gli successe Crispi (15 dic. 1893 - 10 marzo 1896), anch'egli coinvolto nello scandalo.
Al G. fu addebitata la responsabilità di aver taciuto, quando era ministro del Tesoro, sui risultati di una inchiesta che aveva portato alla luce le gravi irregolarità della Banca romana - la quale aveva emesso abusivamente decine di milioni in banconote - e, pur sapendo ciò, di aver fatto nominare senatore B. Tanlongo, il governatore della banca; e, infine, di aver sottratto all'autorità giudiziaria, come ministro dell'Interno, alcuni documenti contro Crispi: il "plico" che il G. consegnò al presidente della Camera l'11 dic. 1894.
Quando la commissione parlamentare incaricata rese noto il contenuto del "plico", il G. fu querelato da Crispi per violazione del segreto epistolare e dei doveri d'ufficio, abuso di autorità, calunnia e falso. Non più protetto dall'immunità parlamentare, per eludere la minaccia di un arresto, il G. ritenne prudente allontanarsi dall'Italia. Si recò in Germania, a Charlottenburg, presso la figlia Enrichetta, mantenendo il massimo riserbo. Tornò in Italia nel febbraio 1895, avendo ricevuto un mandato di comparizione, per contestare l'incompetenza dell'autorità giudiziaria a giudicarlo, avendo la Camera avocato a sé l'esame della questione. La Corte di cassazione, alla quale il G. si era rivolto, confermò l'incompetenza. Invece, la commissione parlamentare, formata principalmente da uomini di Crispi, il 12 dicembre si pronunciò per la competenza dell'autorità giudiziaria e per l'autorizzazione a procedere contro il G.; il quale, il giorno successivo, si difese energicamente alla Camera reclamando il suo diritto a essere giudicato dal Parlamento. Alla fine, la Camera rifiutò di incriminare il G. e decise all'unanimità di archiviare gli atti.
Il G. tornò in primo piano sulla scena politica dopo il disastro di Adua e la caduta definitiva di Crispi (10 marzo 1896), durante gli anni tumultuosi di fine secolo, epilogo drammatico di un lungo periodo di tensioni e conflitti sociali, causati dalla grave crisi economica, sociale, politica e morale che aveva investito il paese dalla metà degli anni Ottanta.
A tale situazione, che pareva mettere in pericolo le fondamenta stesse dello Stato monarchico, Crispi e i suoi successori avevano reagito con una politica di forza, culminata durante i governi Rudinì (10 marzo 1896 - 29 giugno 1898) con la proclamazione dello stato d'assedio e la sanguinosa repressione militare dei tumulti del 1898. Successivamente, con i governi Pelloux (29 giugno 1898 - 24 giugno 1900), ci fu un tentativo di restaurazione autoritaria, ispirato da S. Sonnino, che però fallì per l'opposizione congiunta dell'Estrema Sinistra e della Sinistra costituzionale, di cui il G. era principale esponente. Egli si dichiarò contrario alle misure repressive perché riteneva che la situazione dell'Italia non fosse "così eccezionale da non potersi fronteggiare con l'applicazione delle leggi comuni, e perché quelle leggi eccezionali mi parevano inefficaci e perciò stesse dannose", come disse in un discorso elettorale del 7 marzo 1897 (Discorsi extraparlamentari, p. 187). Per superare la grave crisi politica e morale, secondo il G., era necessario ristabilire le prerogative del Parlamento, prestando maggior attenzione alle esigenze delle classi popolari, al fine di rafforzare l'autorità e il prestigio delle istituzioni monarchiche mantenendo fede all'origine plebiscitaria dello Stato unitario. "Le istituzioni nostre - disse alla Camera il 2 dic. 1899 - ebbero origine e fondamento nei plebisciti, cioè nella volontà popolare e perciò solamente in un largo consenso del volere popolare possono avere una forza, contro la quale si rompano tutti i partiti sovversivi" (Discorsi parlamentari, II, p. 600).
Alla vigilia della elezioni per la XXI legislatura (giugno 1900), in una lettera agli elettori del 28 maggio, il G. condensò in poche parole il suo programma: "Cancellare il ricordo di tristi lotte, iniziare un'era di pacificazione, di lavoro fecondo, di sapienti riforme, deve essere il compito della nuova legislatura, e a tale compito intenderò con tutte le mie forze" (Discorsi extraparlamentari, p. 236).
Nello stesso tempo, rispondendo a un appello di Sonnino - il quale auspicava l'unificazione dei partiti liberali per consolidare le istituzioni, proponendo un organico progetto di riforme illustrato nell'articolo Quid agendum? (Nuova Antologia, 16 sett. 1900) -, il G. enunciò un programma più circoscritto e di immediata attuazione, come la revisione del sistema tributario e l'abolizione delle imposte sui consumi di prima necessità, per andare incontro alle esigenze legittime delle classi popolari, ammonendo "le classi dirigenti che senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non v'è sicurezza né per le persone né per gli averi" (Per un programma e per l'unione dei partiti liberali, in La Stampa, 23 sett. 1900). A tale pace sociale si sarebbe giunti non con la politica della forza, ma con una nuova politica liberale, che, in concreto, per il G. voleva dire: abbandonare definitivamente ogni proposito di restaurazione autoritaria; garantire la libertà di lavoro e di sciopero; riconoscere la legittimità delle associazioni operaie; porre fine a ogni parteggiamento del governo per le classi agiate.
Di questa nuova politica liberale il G. divenne il principale artefice quando tornò al governo, come ministro dell'Interno nel governo Zanardelli (15 febbr. 1901 - 3 nov. 1903). Egli introdusse subito un sostanziale cambiamento nell'atteggiamento del governo di fronte ai conflitti sociali. Garantì la libertà di associazione e assunse una posizione di neutralità in occasione degli scioperi, che di fatto però si risolveva a favore dei lavoratori, incoraggiando la loro azione associativa e rivendicativa. Nei primi anni del secolo, ci fu infatti una rapida intensificazione dei conflitti sociali e degli scioperi, mentre si sviluppava un forte movimento sindacale, che portò alla fondazione della Confederazione generale del lavoro (29 sett. 1906). Dalla concreta azione di politica interna svolta in quel periodo, emergono chiaramente i contenuti e i metodi della nuova politica liberale del G. che caratterizzarono la sua condotta di governo fino alla vigilia della prima guerra mondiale.
Al fondo della politica giolittiana vi era una disincantata e realistica valutazione degli uomini e del governo degli uomini, dominata da uno scetticismo forse congeniale al carattere del Giolitti. "Mettiti in capo questo - scriveva alla figlia il 15 marzo 1896 - che gli uomini sono quello che sono, in tutti i tempi e in tutti i luoghi con i loro vizi, i loro difetti, le loro passioni, le loro debolezze; e il governo deve essere adatto agli uomini come sono; certo il governo deve mirare a correggere, a migliorare, ma anch'esso è composto di uomini, e l'uomo perfetto non esiste. Un governo è il portatore di secoli di storia e la peggiore di tutte le costituzioni sarebbe quella che venisse studiata in base a principi astratti e non fosse adatta in tutto e per tutto alle condizioni attuali del paese. Il sarto che ha da vestire un gobbo se non tiene conto della gobba non riesce […]. Io non sono conservatore, tutt'altro, vedo troppo chiaro quanto vi è di brutto e di spregevole nell'andamento attuale della politica italiana, ma non voglio aiutare chi ci porterebbe a cose peggiori. Pur troppo non vi è ora la scelta fra il bene e il male, ma fra mali diversi, e questo è il lato più triste della vita politica […] ricorda che per dare un giudizio bisogna considerare le cose come sono, non come dovrebbero essere" (L. Frassati, Un uomo, un giornale. A. Frassati, I, 1, Roma 1978, pp. 494 s.). La politica, dichiarò alla Camera il 21 giugno 1901, "è l'arte di governare il paese quale è e con le leggi che ci sono" (Discorsi parlamentari, II, p. 666). Da questa concezione il G. derivava la sua visione dei problemi del paese, le soluzioni che proponeva, e i metodi alquanto spregiudicati che adoperava per metterle in atto, venendo per questo criticato da molti suoi contemporanei, anche non ostili, quale artefice di una politica empirica, carente di vigorose idee, di alti ideali, di ampie prospettive, di organici progetti riformatori. A F. Turati, che gli mosse la critica di far politica empirica, il G. rispose alla Camera il 12 giugno 1902: "io confesso che la mia è proprio una politica empirica, se per empirismo si intende tener conto dei fatti, tener conto delle condizioni reali del paese e delle popolazioni in mezzo alle quali dobbiamo fare questa politica interna. Il sistema sperimentale, che consiste nel tener conto dei fatti e procedere a misura che si può, senza grave pericolo […] è il più sicuro ed anzi il solo possibile" (ibid., p. 725).
La politica del G. voleva essere democratica e conservatrice allo stesso tempo, nel senso di mirare a rafforzare lo Stato monarchico e il regime liberale, promuovendo una più ampia partecipazione delle masse alla politica e un miglioramento delle loro condizioni attraverso una libera competizione fra le classi sociali. Alla base di questo disegno vi era la convinzione che l'ascesa del proletariato era ineluttabile e, di conseguenza, era inevitabile anche la transizione dallo Stato liberale tradizionale verso un regime più democratico.
"Noi - disse alla Camera il 4 febbr. 1901 - siamo all'inizio di un nuovo periodo storico, ognuno che non sia cieco lo vede. Nuove correnti popolari entrano nella nostra vita politica, nuovi problemi ogni giorno si affacciano, nuove forze sorgono con le quali qualsiasi governo deve fare i conti. E la stessa confusione dei partiti parlamentari dimostra che le questioni che dividono oggi non sono più quelle che dividevano una volta. Il moto ascendente delle classi popolari si accelera ogni giorno di più, ed è un moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili, e perché poggiato sul principio dell'uguaglianza tra gli uomini. Nessuno si può illudere di poter impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e di influenza politica. Gli amici delle istituzioni hanno un dovere soprattutto, quello di persuadere queste classi, e di persuaderle con i fatti, che dalle istituzioni attuali esse possono sperare assai più che dai sogni dell'avvenire; che ogni legittimo interesse trova efficace tutela negli attuali ordinamenti politici e sociali. Dipende principalmente da noi, dall'atteggiamento dei partiti costituzionali nei rapporti con le classi popolari, che l'avvento di queste classi sia una nuova forza conservatrice, un nuovo elemento di prosperità e di grandezza o sia invece un turbine che travolga la fortuna della Patria!" (ibid., p. 633).
Nel quadro di questo disegno politico, uno degli obiettivi principali che il G. si propose di conseguire, come tappa fondamentale verso l'integrazione delle classi lavoratrici nello Stato unitario, era l'inserimento della Sinistra radicale e del socialismo riformista nell'area del governo, emarginando le ali estreme repubblicana e socialista rivoluzionaria. Con lo stesso intento, il G. cercò di pervenire anche al superamento della contrapposizione fra lo Stato liberale e la Chiesa, che fin dall'unificazione aveva tenuto lontano i cattolici dalla vita politica, per coinvolgerli, come contrappeso alla Sinistra, nel suo progetto di ampliamento e consolidamento del consenso popolare alle istituzioni, emarginando l'ala estrema dei cattolici intransigenti, negatori dello Stato nazionale. Verso tale direzione sembrava muovere anche il nuovo pontefice Pio X, eletto il 4 ag. 1903, intransigente custode della ortodossia dottrinale contro innovazioni modernistiche e fermo nel rivendicare i diritti della Chiesa, ma propenso all'abolizione del non expedit per coinvolgere i cattolici in una politica d'intesa con il liberalismo conservatore nel comune intento di opporsi alla sovversione della società. Il G. valutava l'importanza politica dei cattolici, mentre considerava con molta diffidenza l'idea stessa di un partito cattolico, e non pensò mai di modificare, nei rapporti fra Stato e Chiesa, l'assetto definito dopo il 1870.
"Noi - disse alla Camera il 30 maggio 1904, rispondendo, come presidente del Consiglio, a una interpellanza sulla politica ecclesiastica del governo "dinnanzi alle rinnovate proteste del Capo della Chiesa contro la integrità territoriale dello Stato - in quanto alla politica ecclesiastica, crediamo che non vi siano cambiamenti da fare […]. Il principio nostro è questo, che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono incontrare mai. Guai alla Chiesa il giorno in cui volesse invadere i poteri dello Stato. Libertà per tutti entro i limiti della legge: questo è il nostro programma. E come lo applichiamo a tutti i partiti che sono fuori della costituzione da un estremo, l'applichiamo a quelli che sono fuori dall'altra parte […] in quanto a religione il Governo è puramente e semplicemente incompetente. Non ha nulla da fare, nulla da vedere: lascia libertà assoluta ai cittadini di fare ciò che credono finché stanno entro i limiti della legge. Ma non credo che sia nelle attribuzioni del Governo né di sostenere, né di combattere alcun principio religioso" (ibid., p. 820).
A questi concetti politici fondamentali, il G. si mantenne fedele per tutto il decennio in cui fu il dominatore della politica italiana, restando quasi ininterrottamente a capo del governo dal 1903 al 1914.
Succeduto a G. Zanardelli, che si era ritirato dal governo perché gravemente ammalato, il G. formò il suo secondo ministero (3 nov. 1903 - 16 marzo 1905) con esponenti della Destra, della Sinistra e del Centro, ma con una predominante nota conservatrice. Un tentativo per coinvolgere anche esponenti del partito radicale e del partito socialista non ebbe successo. Nel discorso di presentazione del governo, il 1° dicembre, il G. ribadì che avrebbe proseguito la politica interna "di libertà, la più ampia, nei limiti della legge", considerandola "indispensabile alla vita ed al progresso di un popolo civile", ma non come un fine a se stessa, perché era anche "necessario iniziare un periodo di riforme sociali, economiche e finanziarie" (ibid., p. 759).
Il secondo governo giolittiano ebbe il sostegno di una maggioranza larga ed eterogenea, che gli consentì di portare a compimento una proficua, per quanto ordinaria, attività legislativa di provvedimenti nel campo sociale, amministrativo, scolastico, sanitario (leggi speciali per Napoli e per la Basilicata, radicale modificazione della legge sulle opere pie, rinnovo della legislazione sulla sanità pubblica, provvedimenti a favore delle società cooperative, operaie e agricole, e altro ancora). Non ebbe invece attuazione nessuna delle grandi riforme - come, per esempio, la riforma tributaria - che per anni il G. aveva indicato come necessarie alla realizzazione di una politica democratica di risanamento politico, di rinnovamento amministrativo e di perequazione fiscale.
Fu confermato, invece, l'atteggiamento del governo di fronte ai conflitti e alle agitazioni sociali, anche estremistiche, quale, per esempio, il primo sciopero generale, promosso dai sindacalisti rivoluzionari, che nel settembre 1904 investì tutto il paese. Anche in quell'occasione il G. evitò di far intervenire la forza pubblica, lasciando che l'agitazione esaurisse da sé il suo impeto; quindi, per trarre profitto dalla reazione dell'opinione pubblica contro lo sciopero, sciolse la Camera e indisse le elezioni per il 6 e il 13 novembre, che furono un successo per il G. grazie anche a una consistente partecipazione dei cattolici.
Nella nuova Camera, la maggioranza che appoggiava il governo aveva orientamento più conservatore, ma il G. riuscì a inserirvi anche i radicali, ampliando così l'aggregazione parlamentare dei suoi sostenitori. Tuttavia, pochi mesi dopo le elezioni, nel marzo 1905, il G., adducendo a motivo una malattia nervosa, lasciò la sua carica nel mezzo di un'accesa battaglia parlamentare sul problema della statizzazione delle ferrovie, che aveva scatenato la violenta opposizione dell'Estrema Sinistra e le proteste dei ferrovieri. Dopo un breve governo interinale di T. Tittoni, ministro degli Esteri, vennero successivamente nominati alla presidenza del Consiglio il giolittiano A. Fortis (28 marzo 1905 - 8 febbr. 1906), quindi il Sonnino (8 febbraio - 29 maggio 1906), al quale anche il G., sapendo che il governo sarebbe durato poco, diede appoggio, preparandosi a tornare al potere.
In effetti, nonostante la partecipazione dei radicali e l'appoggio iniziale dei socialisti, così accadde, perché a Sonnino, uomo politico dotato di un alto senso dello Stato, di vasta dottrina e profonda conoscenza dei problemi economici e politici, mancava la duttilità necessaria a padroneggiare il gioco parlamentare, duttilità di cui era invece sommamente dotato il G., suo antagonista.
Il G. costituì il suo terzo ministero il 29 maggio 1906 e rimase in carica fino all'11 dic. 1909, per tornare poi ancora a guidare il governo dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914, dopo la parentesi di un secondo governo Sonnino (11 dic. 1909 - 31 marzo 1910) e di un governo presieduto da L. Luzzatti (31 marzo 1910 - 30 marzo 1911).
Furono, questi, gli anni della cosiddetta "dittatura parlamentare" del "giolittismo", cioè di un sistema di potere che lo statista piemontese basava su maggioranze parlamentari ottenute attraverso vincoli di fedeltà personale, con l'immissione frequente di nuovi senatori e con le pesanti ingerenze nelle elezioni politiche, specialmente nelle regioni meridionali, per assicurare la vittoria ai candidati governativi. In ciò risaltavano i limiti fondamentali della nuova politica liberale del G., convertita, dopo il 1906, in una politica di stabilizzazione moderata fondata su una riedizione del trasformismo. La "maggioranza giolittiana" prodotta dalle elezioni politiche del 1904 e del 1909, era molto lontana da quel tipo di maggioranza, politicamente omogenea, costituita da partiti organizzati con programmi chiari e definiti, che lo stesso G. aveva auspicato come necessaria al sano funzionamento del sistema parlamentare. Da qui le accuse che allora furono mosse al G., da destra e da sinistra, perché con la sua "dittatura parlamentare" contribuiva a degradare il ruolo dei partiti, a ostacolare la loro funzione, a impedire la formazione di un partito liberale organizzato, a perpetuare le prepotenze governative nelle elezioni, e quindi contribuiva a screditare e a indebolire, piuttosto che a rinnovare e a rafforzare, il prestigio e l'efficienza del regime parlamentare.
Durante gli anni della sua lunga permanenza al potere, il G. fu circondato da sentimenti contrastanti, che dividevano l'opinione pubblica fra giolittiani e antigiolittiani: fu esaltato dagli uni come il più valente statista italiano dopo Cavour, fu esecrato dagli altri come un corruttore della politica italiana, un "ministro della malavita", come lo definì G. Salvemini nel 1910 nel titolo di un pamphlet, in cui denunciava i metodi elettorali giolittiani. E, di fatto, l'antigiolittismo fu un ampio e composito fenomeno politico e culturale, che si estese e si intensificò nel corso della "dittatura giolittiana", coinvolgendo soprattutto le nuove generazioni, ispirate da una più alta concezione della democrazia o da una più esaltata visione della nazione e perciò deluse dall'empirismo e dal trasformismo giolittiano e dalla sua cauta politica di moderato riformismo, che sembrava ignorare mete più alte da additare alla nazione.
Incurante di queste critiche, il G. proseguì la sua politica riformatrice, pur senza elaborati progetti organici, raccogliendo spesso i frutti maturati dai governi precedenti. Durante il suo terzo governo, in cui era prevalente la destra liberale, furono varate leggi importanti, come la conversione della rendita, la legge sullo stato giuridico degli impiegati, le leggi speciali per la Calabria, la Sicilia e la Sardegna, provvedimenti per migliorare la legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli. Nel quarto governo, più orientato a sinistra, fu varato il progetto per il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita (Istituto nazionale assicurazioni, INA), fu promulgata la legge che poneva sotto il controllo dello Stato la scuola primaria e, soprattutto, fu approvata la legge elettorale, emanata il 30 giugno 1912, che estendeva il suffragio maschile, portando il numero degli aventi diritto al voto da 3.329.147 a 8.672.249. L'approvazione della riforma elettorale cadde nel periodo in cui l'Italia era impegnata nella guerra contro la Turchia, per la conquista della Libia.
La dichiarazione di guerra era stata fatta il 29 sett. 1911, senza l'approvazione né la ratifica del Parlamento, come consentiva l'art. 5 dello statuto. L'impresa coloniale, decisa dopo l'occupazione francese del Marocco, fu intrapresa dal G. non "per entusiasmo, ma unicamente per ragionamento", come precisò alla Camera il 23 febbr. 1912 (Discorsi parlamentari, III, p. 1441).
In un discorso a Torino, il 7 ott. 1911, il G., giustificò l'impresa evocando la "fatalità storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere tutte le responsabilità, poiché una esitazione […] può segnare l'inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli" (Discorsi extraparlamentari, p. 261).
Con la conquista della Libia si raccoglieva il frutto di una politica estera che, pur confermando l'alleanza con le potenze centrali, fu orientata dal G. verso il miglioramento dei rapporti con la Francia, il mantenimento della relazioni cordiali con l'Inghilterra e il riavvicinamento alla Russia (accordo di Racconigi, 24 ott. 1909). Il G. aveva ottenuto da queste potenze, oltre che dall'Austria e dalla Germania, il riconoscimento delle aspirazioni italiane sulla Tripolitania e sulla Cirenaica. Il trattato della Triplice Alleanza, già confermato automaticamente nel 1907, fu rinnovato in anticipo il 5 dic. 1912 con aggiunte riguardanti il riconoscimento della conquista italiana della Libia. La guerra, iniziata mentre l'Italia si avviava a concludere le celebrazioni del primo cinquantenario dell'Unità, fu conclusa, non senza gravi difficoltà, nell'autunno 1912 (pace di Ouchy, 18 ottobre).
L'impresa coloniale ebbe un ampio consenso da parte dell'opinione pubblica liberale e cattolica, esaltò il nascente movimento nazionalista, convertì al mito nazionale alcuni esponenti dell'Estrema Sinistra, ma suscitò anche una violenta opposizione da parte del partito socialista, facendo emergere, all'interno di questo, una nuova sinistra rivoluzionaria, capeggiata da B. Mussolini, che conquistò, nel 1912, la direzione del PSI e pose il partito, definitivamente, nella direzione della rivoluzione contro lo Stato borghese. Veniva così meno il principale punto di riferimento del disegno politico giolittiano mirante all'ampliamento del consenso popolare al regime monarchico liberale, attraverso l'inserimento del partito socialista nell'ambito costituzionale. Un altro fondamentale punto di riferimento del disegno politico giolittiano venne meno, a sua volta, con le elezioni politiche, le prime a suffragio allargato, che si tennero il 26 ottobre e il 2 nov. 1913, e che modificarono sostanzialmente il quadro politico.
Infatti, l'accordo elettorale fra oltre duecento candidati liberali e l'Unione elettorale cattolica (patto Gentiloni) per fronteggiare l'avanzata della Sinistra, benché sconfessato dal G. come accordo che non coinvolgeva il suo governo, contribuì notevolmente all'indebolimento del "giolittismo", mentre, per reazione, diede impulso, anche all'interno del movimento cattolico, all'affermazione di correnti politiche antigiolittiane, di cui fu principale interprete L. Sturzo.
Dalle elezioni del 1913, dunque, la "maggioranza giolittiana" uscì indebolita e trasformata, mentre si rafforzarono le opposizioni antigiolittiane del socialismo, del sindacalismo, del nazionalismo, del liberalismo conservatore - rappresentato da A. Salandra e da Sonnino -, tutte sintomo di un sostanziale cambiamento di orientamenti e di forze che si stava svolgendo nel mondo politico e nell'opinione pubblica, scrollando i pilastri su cui poggiava il sistema giolittiano.
La nuova situazione fu descritta efficacemente dal deputato sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola alla Camera il 9 dic. 1913: "se ne vada, onorevole Giolitti, e creda che non si può fare diversamente! La situazione giolittiana che spiegò la sua lunga permanenza al potere, ora non c'è più […] questa nuova situazione non è di quelle, onorevole Giolitti, che lei possa più dominare con i suoi criteri. Il paese le è cresciuto sotto mano, le è scappato di tutela, parla un nuovo linguaggio […]. Situazione novella, politica novella, uomini nuovi. I morti seppelliscano i loro morti. Col passato che se ne va, ella, onorevole Giolitti, deve fare la cortesia di tenergli compagnia […]. La maggioranza, l'ideale maggioranza giolittiana è già morta […]. Noi siamo all'urto democriteo di tutti gli elementi politici. Il giolittismo diviene una superfluità. Esiste un'Italia cattolica, esiste un'Italia socialista, esiste un'Italia imperialista: non esiste un'Italia giolittiana. L'Italia giolittiana è una mediocre combinazione parlamentare, nata fra i corridoi e l'aula, buona soltanto ad impedire, incapace di creare. Questa Italia deve sparire" (in G. Carocci, Il Parlamento nella storia d'Italia, Bari 1964, pp. 462-471).
In effetti, anche se la nuova Camera diede al G. la fiducia con un'ampia maggioranza, l'epoca della sua egemonia parlamentare era ormai finita. Ma il G., al momento, non se ne rese conto. Come era sua consuetudine, di fronte a una nuova Camera, che "è sempre irrequieta ed ha il bisogno, alle volte salutare, di provocare una crisi" (Memorie, II, p. 510), il G. pensò opportuno cedere temporaneamente il potere. Prese pretesto dalla dissociazione dei radicali dal suo governo, che metteva la sinistra giolittiana in minoranza, per presentare le dimissioni il 4 marzo 1914, indicando egli stesso al re, come successore, Salandra, il capo della Destra (21 marzo 1914 - 19 giugno 1916).
Con la fine del quarto governo del G. si concludeva quella che è stata poi definita dagli storici l'"età giolittiana", conferendo così un eccezionale significato storico alla personalità che, dal 1901 al 1914, aveva dominato la vita politica e parlamentare, imprimendo su di essa la sua concezione, il suo stile, i suoi metodi. L'"età giolittiana" fu un periodo di progresso economico, di rivoluzione industriale e di modernizzazione, di notevole rigoglio culturale e di mutamenti nella società e nel costume, che avvicinarono l'Italia al livello dei paesi più moderni e industrializzati; furono "gli anni in cui meglio si attuò l'idea di un governo liberale" (Croce, Storia d'Italia, p. 233), anche se "si viveva e si lavorava e si prosperava, in Italia come in Europa, movendosi tranquilli sopra un terreno tutto minato" (ibid., p. 257). La politica giolittiana aveva saputo assecondare questo progresso, interpretando soprattutto l'esigenza del rinnovamento democratico dello Stato e privilegiando, in particolare, le forze sociali organizzate del movimento operaio e la nuova borghesia industriale, che erano presenti soprattutto nelle regioni settentrionali. Il che contribuì certamente allo sviluppo economico dei settori industriali che maggiormente godevano dei benefici di una politica protezionista, e favorì la formazione di una più matura coscienza nelle classi popolari coinvolte nel movimento operaio organizzato. Ma gli effetti di tale politica si traducevano anche nell'approfondimento del distacco fra le regioni settentrionali e quelle meridionali, non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista del rinnovamento democratico, al quale meno partecipavano le popolazioni contadine del Mezzogiorno. Il numero crescente degli scioperi dopo il 1907 e le imponenti dimensioni del fenomeno migratorio - oltre due milioni e mezzo di emigrati dal 1908 al 1913 - erano manifestazioni di un grave malessere economico e sociale che gettava ombra sullo stesso rinnovamento politico. Inoltre, l'irrequietezza spirituale e il diffondersi di una cultura militante antigiolittiana fra le nuove generazioni, animate da ideali rivoluzionari o comunque radicali e spesso antiparlamentari, con forti aspirazioni alla creazione di uno Stato nuovo in opposizione allo Stato esistente, rilevavano la disaffezione di larghi settori dei ceti medi dal regime liberale, che assunse alla vigilia della Grande Guerra e nella mobilitazione interventista i caratteri violenti di una "rivolta antigiolittiana". All'origine di questa rivolta non vi erano sempre intenti reazionari e autoritari, ma più spesso la convinzione che il sistema giolittiano fosse inadeguato a rinnovare la nazione e a rendere più effettivo il trapasso dallo Stato liberale allo Stato democratico.
In effetti, nel mettere in pratica il suo disegno politico, il G. non si mantenne sempre coerente con la direttiva democratica di cui si era fatto assertore, vuoi per condizionamento di situazioni che egli non seppe o non volle superare, vuoi perché si lasciò forse guidare troppo dal suo scetticismo verso la natura umana oppure da una eccessiva fiducia nelle sua arti di "dittatore parlamentare", affidando la risoluzione dei problemi che travagliavano lo Stato e la società in un periodo di tumultuose trasformazioni alla efficacia quasi meccanica del suo empirismo. Da qui le critiche che liberisti, meridionalisti, liberali e democratici rivolsero al "giolittismo", imputandogli di ritardare lo sviluppo di una più autentica ed effettiva democrazia, di ostacolare una più equa redistribuzione della ricchezza. Nei primi anni della sua lunga egemonia parlamentare, il progresso economico conseguente alla rivoluzione industriale consentì al G. una politica di larga tolleranza verso il movimento di rivendicazione del proletariato, persino in situazioni che parevano ledere i principî fondamentali dello Stato liberale, ritenendolo un modo efficace per equilibrare il precedente parteggiamento dello Stato per i ceti agiati. Ma quando le crisi del 1907 e del 1913 rallentarono lo sviluppo economico e innescarono nuovi conflitti sociali, la politica giolittiana risultò sempre più inefficace, senza essere riuscita, in realtà, a ottenere un effettivo consolidamento delle istituzioni liberali attraverso l'ampliamento del consenso popolare.
Eventi imprevisti, ma anche imprevisti effetti della stessa azione politica del G., avevano messo in moto nuove forze, che operavano in senso contrario al disegno giolittiano, sfuggivano al controllo della sua "dittatura parlamentare", e alla fine insorsero contro di essa.
Alla conclusione dell'età che da lui prende il nome, nessuno degli obiettivi che il G. stesso aveva giudicato indispensabili per rafforzare le istituzioni era stato conseguito: la conquista del consenso delle classi popolari, la conversione dei cattolici e dei socialisti allo Stato liberale, il consolidamento della monarchia parlamentare. Le elezioni del 1913, i moti violenti della "settimana rossa" nel giugno 1914, la quasi guerra civile fra neutralisti e interventisti di fronte al conflitto europeo, mostravano un paese lacerato da profonde divisioni e contrapposizioni, che minavano le fondamenta dello Stato che il G. avrebbe voluto invece consolidare.
In realtà, in contrasto con i propositi dello statista piemontese, il sistema giolittiano con i suoi metodi aveva suscitato, sia a destra sia a sinistra, specialmente fra le giovani generazioni e fra i ceti medi che si sentivano esclusi dal compromesso giolittiano fra alta borghesia e proletariato organizzato, una sempre più ampia avversione per lo stesso regime parlamentare, di cui si alimentarono correnti radicali e rivoluzionarie, decise ad abbattere lo Stato esistente o a trasformarlo profondamente per dar vita a uno Stato nuovo, variamente immaginato come più democratico o più autoritario. E molti di questi videro nella partecipazione alla guerra europea anche una occasione per liberare definitivamente l'Italia dal "giolittismo".
Durante i mesi della neutralità, il G. si adoperò per mantenere il paese fuori dal conflitto, pur senza dichiararsi per una neutralità assoluta, convinto che la guerra sarebbe stata lunghissima e avrebbe potuto travolgere il paese impreparato ad affrontarla.
"Certo", scrisse in una lettera pubblicata da La Tribuna il 24 genn. 1915, "io considero la guerra non come una fortuna (come i nazionalisti), ma come una disgrazia, la quale si deve affrontare solo quando è necessaria per l'onore e per i grandi interessi del Paese. Non credo sia lecito portare il Paese alla guerra per un sentimento verso altri popoli. Per sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella del Paese. Ma, quando è necessaria, non esiterei ad affrontare la guerra e l'ho provato. Credo molto" - ma nel testo del giornale "molto" era stato mutato in "parecchio" - "nelle attuali condizioni d'Europa potersi ottenere senza guerra, ma per dir ciò chi non è al governo non ha elementi per un giudizio completo" (Discorsi extraparlamentari, p. 280).
Fidando d'essere seguito su questa linea anche da Salandra, il G. continuò a sostenere il suo governo per non indebolirlo mentre stava conducendo trattative con l'Austria, ma restò per lungo tempo lontano dalla capitale, a Cavour. Il governo, intanto, concludeva le trattative con Francia e Inghilterra sottoscrivendo, il 26 apr. 1915, il patto di Londra, che impegnava l'Italia a entrare in guerra entro il 26 maggio. Il 4 maggio una nota di Sonnino al governo di Vienna denunciava il trattato della Triplice Alleanza. Il G., secondo quanto sostenne dopo la guerra, fu tenuto all'oscuro della firma del patto di Londra. Tuttavia, avendo ricevuto lettere che riferivano voci su una imminente entrata in guerra a fianco dell'Intesa, rientrò a Roma il 9 maggio. Ribadì al re, in un colloquio del 10 maggio, le sue ragioni contro l'intervento, e suggerì che il ministero si disimpegnasse dalle trattative con l'Intesa mediante un voto di fiducia della Camera. Lo stesso suggerimento ripeté a Salandra. Nel frattempo, il G. ricevette i biglietti da visita di 320 deputati e di un centinaio di senatori, che condividevano la sua posizione neutralista. Resosi conto che in Parlamento i neutralisti erano in prevalenza, il 13 maggio Salandra rassegnò le dimissioni, che però il 16 furono respinte dal re, dopo che il G. aveva rifiutato di assumere l'incarico di formare il nuovo governo, ritenendo che non potesse assumere l'incarico un uomo considerato avverso all'entrata in guerra dell'Italia, mentre esplodevano nella capitale violente dimostrazioni interventiste contro il Parlamento e contro il G., che fu bersaglio di un odio feroce.
Il 13 maggio, con un infuocato comizio, G. D'Annunzio incitò la folla a far giustizia sommaria del "mestatore di Dronero", "quel vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino", che "tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano".
Il 18, convinto ormai della inevitabilità dell'intervento, il G. lasciò la capitale, ritirandosi a Cavour e appartandosi dalla politica per tutto il periodo della guerra. I suoi interventi furono limitati ai discorsi per l'apertura annuale del Consiglio provinciale di Cuneo, con generici appelli alla concordia patriottica. Ma già nell'estate del 1917, egli denunciò che la guerra aveva rivelato non solo "le eroiche virtù del nostro esercito e del nostro popolo" ma anche "insaziabile avidità di danari, disuguaglianze nei sacrifici, ingiustizie sociali […] ha concentrato grandi ricchezze in poche mani, ha accresciuto in modo senza precedenti le ingerenze dello Stato e quindi le responsabilità dei governi". Contro tutto ciò, il G. preannunciò "la necessità di profonde mutazioni nella condotta della politica estera" e di un radicale cambiamento nella politica interna per far fronte ai "problemi sociali, politici, economici e finanziari veramente formidabili" del dopoguerra (Discorsi extraparlamentari, p. 290).
Dopo la fine della guerra, il G. rientrò nella politica attiva con la candidatura alle elezioni per la XXV legislatura, che si svolsero il 16 nov. 1919 sulla base della riforma elettorale, varata dal governo Nitti il 9 ag. 1919, che introduceva il sistema proporzionale.
In un discorso pronunciato a Dronero il 12 ott. 1919, il G. difese la sua condotta durante il periodo della neutralità, condannò il modo in cui l'Italia era stata trascinata alla guerra, reclamò radicali riforme politiche e sociali miranti a costituire una "seria difesa contro lo spirito imperialista e contro le malsane ambizioni e i loschi interessi che spinsero alla guerra europea e che tenderebbero a prepararne un'altra"; invocò severe misure fiscali contro i profittatori di guerra e, soprattutto, sostenne la fine della diplomazia segreta e il trasferimento al Parlamento del potere di decidere sulla politica estera e sulla guerra: "Sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà" (ibid., pp. 294-327). Il discorso fece guadagnare al G. un altro appellativo spregiativo: il "bolscevico dell'Annunziata".
Ma nel giugno 1920, nel pieno del "biennio rosso", da più parti si invocò il ritorno al potere del vecchio statista per guidare il paese fuori dalla grave crisi che dopo la fine della guerra aveva investito l'Italia, lacerata dallo scontro violentissimo fra socialismo rivoluzionario e radicalismo nazionalista.
Il quinto governo Giolitti (16 giugno 1920 - 4 luglio 1921) fu accettato, ma con diverso spirito, dai partiti costituzionali, dai nazionalisti, dal movimento fascista (fondato da Mussolini nel marzo 1919) e dal partito popolare (fondato da L. Sturzo nel gennaio 1919). Del ministero facevano parte esponenti liberali, radicali, socialriformisti, indipendenti. Il suo programma comprendeva la definitiva soluzione dei problemi rimasti aperti in campo internazionale, il controllo del Parlamento sulla politica estera e la sua preventiva autorizzazione per la dichiarazione di guerra; severe misure finanziarie per il risanamento del bilancio, per contrastare il vertiginoso aumento del costo della vita e per avocare totalmente allo Stato i sovraprofitti di guerra; una forte tassazione progressiva sulle successioni e l'obbligo della nominatività dei titoli al portatore; l'introduzione dell'esame di Stato. Il governo riuscì a varare gran parte di questi provvedimenti.
In politica estera, il G. risolse rapidamente le questioni rimaste aperte, come il contenzioso con l'Albania (trattato di Tirana del 2 ag. 1920), ritirando le truppe italiane da Valona e da altre zone albanesi, e riuscì anche a risolvere, con il trattato di Rapallo (12 nov. 1920), i problemi di confine con la Jugoslavia, e quindi a liquidare la questione di Fiume, inasprita dopo l'occupazione della città da parte di D'Annunzio il 12 sett. 1919: il G. fece sgombrare a cannonate il poeta dalla città, dichiarata dal trattato Stato indipendente.
In questa circostanza, il G. poté avvalersi della neutralità di Mussolini e del movimento fascista, che, a parte le proteste verbali, si astenne dal prendere concretamente le difese del poeta, fino ad allora acclamato dai fascisti quale duce e simbolo del radicalismo nazionale degli ex interventisti e della lotta contro la "vittoria mutilata".
Nello stesso periodo, il G. dovette fronteggiare anche la fase più acuta del biennio rosso, culminata nel settembre 1920 con l'occupazione delle fabbriche, percepita dalla borghesia come il preludio alla rivoluzione socialista e alla conquista violenta del potere per instaurare la dittatura del proletariato, come era preannunciato dal nuovo statuto del partito socialista approvato nell'ottobre 1919. Il G. applicò ancora una volta, come nel settembre 1904, la tattica del non intervento, rifiutando di far sgomberare con la forza le fabbriche occupate, per far rispettare la legge e impedire la violazione del diritto privato.
Il G. era convinto che, come nel 1904, l'esperimento rivoluzionario, lasciato a se stesso, sarebbe fallito; nel contempo esercitava direttamente pressioni sugli industriali per indurli ad accettare un accordo, che includeva il principio del controllo operaio sulle fabbriche, rimasto poi inattuato.
Ma la situazione generale della politica interna era radicalmente mutata rispetto agli anni dell'egemonia giolittiana: le elezioni del '19, con il sistema proporzionale, avevano detronizzato la classe dirigente liberale, favorendo l'affermazione dei partiti di massa nel paese e nel Parlamento, come il partito socialista e il partito popolare, i quali rendevano ormai impossibile la riedizione del "giolittismo". Inoltre, dopo l'occupazione delle fabbriche, esplose nelle campagne dell'Italia settentrionale e centrale la reazione armata dello squadrismo contro le organizzazioni operaie, che portò all'affermazione del fascismo come movimento di massa. Nei confronti di questa realtà il G. tentò di rinnovare la sua tecnica politica, cercando di attrarre il fascismo nell'ambito parlamentare, per far da contrappeso alla sinistra rivoluzionaria e al partito popolare, patrocinando l'inclusione di candidati fascisti nelle liste dei "blocchi nazionali" di liberali e democratici, in vista delle elezioni politiche per la XXVI legislatura, che si svolsero il 15 maggio 1921.
La campagna elettorale, dominata dalla violenza squadrista, registrò un pesante bilancio di decine di morti e di feriti fra i fascisti, i socialisti e agenti della forza pubblica.
Anche se aveva patrocinato la partecipazione dei fascisti alle elezioni, il G. non fu tollerante verso le loro violenze, e inviò ordini chiari e tassativi ai prefetti per una "repressione immediata esemplare" delle azioni squadriste. Ma spesso, nelle situazioni locali, questi ordini rimanevano inefficaci per la tolleranza o l'impotenza delle autorità di fronte alle violenze dei fascisti. Del resto, fedele ai suoi convincimenti, egli riteneva che il problema del fascismo, anche se si trattava di un movimento armato, fosse in essenza un problema politico che andava affrontato politicamente, favorendo l'inserimento dei fascisti nel Parlamento. Come altri esponenti dei partiti costituzionali e degli stessi partiti antifascisti, il G. si illudeva sul carattere contingente e transitorio del fascismo, sottovalutando la sua carica eversiva di "partito milizia" che aspirava a compiere una propria rivoluzione per conquistare il potere e trasformare lo Stato liberale.
I risultati delle elezioni furono apparentemente un successo per il G.: ci fu una forte ripresa dei partiti costituzionali che ottennero il 48,5% dei voti rispetto al 36,9% del 1919, anche se non ci fu un consistente ridimensionamento dei socialisti e dei popolari, mentre due nuove forze politiche, il movimento fascista e il partito comunista (costituito nel gennaio 1921), entrarono in Parlamento. Nella nuova Camera, il G. ottenne la fiducia con solo una trentina di voti di maggioranza, mentre ampio e combattivo era il fronte delle opposizioni, dai socialisti ai popolari, dai radicali ai fascisti. Di fronte a questo risultato, come era suo costume, preferì rassegnare le dimissioni, il 27 giugno, rifiutando un nuovo incarico.
La candidatura del G. alla guida di un nuovo governo emerse nel febbraio 1922, dopo la caduta del governo Bonomi (4 luglio 1921 - 26 febbr. 1922), ma il suo ritorno al potere fu bloccato da un veto del segretario del partito popolare. Si dovette così ripiegare su un giolittiano di modesta levatura, L. Facta (26 febbraio - 31 ott. 1922). Ancora nei giorni convulsi che precedettero la marcia su Roma, si pensò al G. come all'unico politico in grado di far fronte alla grave situazione creata dal dilagare del fascismo in gran parte dell'Italia settentrionale e centrale.
Ma l'abilità di Mussolini - che trattava simultaneamente e separatamente con il G., con Nitti, con Orlando, con Salandra, con Facta, per ottenere l'ingresso del fascismo (divenuto partito nel novembre 1921) in un governo di coalizione - riuscì a impedire il ritorno al potere dell'unico esponente politico che egli veramente temeva.
"Bisogna impedire a Giolitti di andare al governo. Come ha fatto sparare su D'Annunzio farebbe sparare sui fascisti", aveva detto Mussolini ai suoi collaboratori il 16 ottobre, accelerando la preparazione della marcia su Roma. Ma a ostacolare un ritorno del G. al governo, da molti auspicato, vi era ancora anche il veto di Sturzo, antigiolittiano da prima della guerra, verso il quale, del resto, il G., il teorico delle "due parallele", nutriva una profonda diffidenza, non riuscendo a concepire che un sacerdote fosse capo di un partito politico. Sturzo, decisamente antifascista, si oppose all'ipotesi, fatta alla vigilia della marcia su Roma, di un governo Giolitti comprendente popolari e fascisti.
Giunto il fascismo al potere, il G. si illuse ancora, come gran parte dei partiti costituzionali e dello stesso partito popolare, che fosse possibile "costituzionalizzare" il fascismo, riportando il paese alla normalità sotto l'impero della legge e nel rispetto dello statuto. In questo senso, il G., avversario della proporzionale, fu favorevole alla legge Acerbo, che introduceva il sistema maggioritario. Fu presidente della commissione incaricata di esaminare il progetto della riforma, approvata con dieci voti contro otto, ma rifiutò di presentarsi candidato alle elezioni indette per il 6 apr. 1924, nel "listone nazionale" egemonizzato dal partito fascista, come fecero autorevoli esponenti liberali, e preferì presentare una lista propria.
Il suo discorso elettorale, tenuto a Dronero il 16 marzo 1924, fu una sobria apologia di tutta la sua esperienza politica e una orgogliosa rivendicazione dei meriti storici del partito liberale che aveva governato il paese dopo l'Unità, nelle "sue varie gradazioni, più o meno informate ai principi di democrazia, nelle alternazioni della destra e della sinistra, che avevano però in comune i principi fondamentali", attuando, nel lungo periodo della sua storia, un programma "di illuminato patriottismo, di dignità nazionale […], di tutela dei diritti di tutte le classi sociali". Dalla nuova Camera auspicò un governo deciso a mantenere "ferma l'autorità dello Stato e assoluto l'impero della legge" per assicurare una "tranquillità interna" fondata "non solamente sulla forza, ma sullo spontaneo consenso di tutte le classi sociali, e specialmente delle più numerose, quelle dei lavoratori, consenso che si ottiene con istituzioni, leggi e azioni di governo ispirate a vere giustizie sociali" (Discorsi extraparlamentari, pp. 340-352).
Dopo il delitto Matteotti, il G. non aderì alla secessione dell'Aventino; passò ufficialmente all'opposizione soltanto il 15 nov. 1924 e, in vista di nuove elezioni - che non vi furono -, firmò il 16 genn. 1925, con Orlando e Salandra, un ordine del giorno di condanna "dell'attuale metodo di governo" che impediva l'espressione della volontà popolare "in condizioni di libertà, in ognuna delle sue forme, individuale, di domicilio, di stampa, di riunione e di associazione". Quindi si ritirò a vivere a Cavour, facendo ritorno a Roma "unicamente" - scrisse in una lettera l'11 maggio 1925 - "affinché non si creda che anch'io mi sia andato ad appollaiare sull'Aventino […]. Tra il governo che ha soppresso la libertà della stampa, e l'opposizione che ha soppresso la tribuna parlamentare, un povero diavolo, che abbia la disgrazia di aver conservato un po' di buon senso, non ha altra risorsa che starsene in campagna, limitandosi alla parte di osservatore" (De Rosa, G. e il fascismo, p. 26).
Il 21 dic. 1925 si dimise da presidente e da membro del Consiglio provinciale di Cuneo "per elementare senso di dignità", avendo la maggioranza dei consiglieri affermato che i suoi componenti dovevano appartenere al partito fascista.
"Io rispetto il governo del mio paese ma mi sentirei indegno di rappresentare i fieri montanari dei mandamenti di San Damiano e Prazzo se, per opportunismo, avessi, sotto qualsiasi forma, rinnegata la fede liberale che professai in tutta la mia vita, e che fu quella di tutti i nostri rappresentanti dal 1848 in poi" (Discorsi extraparlamentari, p. 353).
Così, a ottantatré anni, il G. si congedò definitivamente dalla politica. "La vita politica è una gran brutta vita", scrisse in una lettera il 30 apr. 1927. "Io vi entrai senza volerlo: ma dovessi nascere un'altra volta piuttosto mi farei frate" (De Rosa, G. e il fascismo, p. 32). Il G. visse gli ultimi anni solitario e isolato a Cavour: "Io", scriveva ancora l'11 nov. 1927, "che sono stato sempre un mezzo selvaggio, e che invecchiando lo divento quasi per intero, mi ci trovo bene" (ibid., p. 35). Si recò alla Camera l'ultima volta il 16 marzo 1928, per esprimere il suo voto contrario alla nuova legge elettorale: "Questa legge, la quale, affidando la scelta dei deputati al Gran Consiglio fascista, esclude dalla Camera qualsiasi opposizione di carattere politico, segna il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto" (Discorsi extraparlamentari, p. 354).
Tre mesi dopo, a Cavour, le sue condizioni di salute si aggravarono. Lo raggiunsero i figli da Roma. Volle un sacerdote al quale disse: "Sono nato cattolico e intendo morire da cattolico"; poi aggiunse: "Caro padre; sono vecchio, molto vecchio. Ho fatto cinque ministeri. Non potevo, capirà, mettermi a cantare Giovinezza" (cfr. Ansaldo, Il ministro della buonavita, p. 581).
Il G. morì a Cavour il 17 luglio 1928.
Si vedano del G., come utili fonti dell'attività politica e testimonianza della sua vita: Memorie della mia vita, I-II, Milano 1922; Discorsi extraparlamentari, a cura di N. Valeri, Torino 1952; Discorsi parlamentari, I-IV, a cura di S. Furlani, Roma 1953-56; Dalle carte di Giovanni Giolitti.Quarant'anni di vita politica, I-III, a cura di P. D'Angiolini - G. Carocci - C. Pavone, Milano 1962.
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