GIUSTINIAN, Giovanni
Nacque a Venezia il 16 nov. 1600 da Giulio di Giovanni, del ramo a S. Croce, e da Elisabetta Contarini di Girolamo di Dario, della contrada di Ss. Apostoli. Fu battezzato con il nome di Giovanni Francesco ma raramente viene così ricordato, ed egli stesso si firmò sempre Giovanni, forse in ricordo di un fratello maggiore di tale nome nato nel 1591 ed evidentemente scomparso in giovane età.
Il padre, personaggio cospicuo, fece sposare il G., appena ventitreenne (25 sett. 1623), con Lucrezia Dolfin di Daniele di Francesco, da cui ebbe Giulio, destinato a rivestire la dignità procuratoria. La Dolfin morì presto (forse di parto), il che spiega le successive nozze di un fratello del G., Antonio, con Lucrezia Surian di Nicolò di Gerolamo (1725), da cui ebbe figli che avrebbero dato origine a un nuovo ramo della ricca e numerosa famiglia.
Non appena raggiunta l'età richiesta, il G. intraprese la carriera politica con il tradizionale apprendistato nel saviato agli Ordini, dall'8 giugno al 30 sett. 1627 e nel secondo semestre dell'anno successivo. Ottenne poi il primo di una lunga serie di incarichi che lo avrebbero portato a trascorrere buona parte della propria esistenza lontano dalle lagune: il 9 sett. 1629 fu infatti eletto capitano a Vicenza, dove si recò alla fine del febbraio seguente
La situazione della provincia non poteva dirsi buona: vi era la carestia e, soprattutto, la seconda guerra del Monferrato, con i lanzichenecchi che assediavano Mantova e gli Spagnoli che avevano preso Goito. Il G. non era in prima linea, ma era chiamato a collaborare con il provveditore nel Vicentino, Marcantonio Canal, e con quello generale in Terraferma, Francesco Erizzo, che chiedevano danaro, rifornimenti per le truppe, rincalzi di guastatori. Sin dagli esordi dimostrò animo risoluto e mano forte verso i soldati che angariavano i villaggi e i troppi amministratori disonesti; il 26 marzo 1630 scriveva al Senato di avere "stimato proprio et profittevole al solievo di questi poveri sudditi dare espressi e rissoluti ordini, perché a' ministri che hanno maneggiato gran somma de danaro della contadinanza, et che con spese esorbitanti hanno manumesso questo misero contado, siano reveduti tutti li loro conti, fatto fondi di lor casse e maneggi, essercitio trascurato da molto tempo, havendo ogn'uno sin a questa ora operato quello più gli è piaciuto, in riguardo del proprio commodo, et a sodisfattione del privato interesse". Due mesi dopo venne la rotta di Valeggio, e l'intenso traffico di merci, uomini e mezzi- causato dall'addensarsi nelle retrovie di migliaia di soldati, profughi e sbandati- finì per provocare un male peggiore. Alla fine di giugno si manifestò la peste, che acquistò subito proporzioni virulente. Anche le misure più severe si rivelarono inutili, inclusa la fucilazione, ordinata dal G., di cinque disertori sospettati di essere portatori di contagio. Lasciò la carica solo nella tarda estate del '31, quando il morbo poteva dirsi superato, sicché negli ultimi dispacci poté fare un bilancio dei guasti causati alla popolazione e all'economia del distretto e, nel contempo, suggerire alcune misure per ricostituire il tessuto sociale.
Sin dal 12 marzo 1631 il G. era stato eletto podestà e capitano a Treviso, ma non dimostrò fretta di assumere la nuova carica; rimase infatti per un anno intero a Venezia, facendo il suo ingresso nella provincia affidatagli solo il 28 sett. 1632. Fu un rettorato assai più tranquillo del precedente, per la natura della sede e per la diversa congiuntura; ovviamente anche per la Marca era transitata la peste, e l'impegno principale del G. fu di rimettere ordine nelle dissestate finanze del territorio: dalle prime settimane dopo l'arrivo informò il Senato che il debito degli appaltatori dei dazi nei confronti della locale Camera fiscale superava ormai il milione di lire.
Di maggior rilievo - quantomeno per la vita privata del G. - due avvenimenti verificatisi nel corso del mandato: l'elezione all'ambasceria di Spagna (25 ag. 1633) e le nuove nozze con Vittoria Trissino di Ludovico (19 novembre dello stesso anno), probabilmente da lui conosciuta durante la permanenza a Vicenza. Da lei ebbe Tommaso, cui sarebbero seguiti altri due maschi, Ascanio e Girolamo (quest'ultimo destinato, come il fratellastro Giulio, alla carica procuratoria). La Trissino doveva essere donna di molte qualità; secondo l'anonimo autore della Copella politica "fu tanto honorata dalla regina di Spagna, che migliorò il trattamento ordinario dell'altre ambasciatrici consimili, et non credo apportarle nota, che fu amata cavalerescamente dal re Filippo IV". Anche nella successiva legazione d'Inghilterra ella seppe dimostrare innata eleganza e prontezza di spirito.
La coppia lasciò Venezia nel settembre 1634 e giunse a Madrid due mesi dopo, via Genova. Il paese era in guerra con Francia e Olanda, e su questi conflitti sovrastava l'interminabile guerra dei Trent'anni. Con Venezia i rapporti erano tranquilli, ma la Repubblica sentiva pur sempre il peso della morsa asburgica, sicché il G. non si sottrasse ai suoi doveri istituzionali: nel 1635 riuscì a entrare in possesso della "cifra grande", il codice segreto della diplomazia spagnola, e poi anche di quello dell'ambasciatore cesareo; in un tempestoso colloquio del 17 maggio 1636 seppe poi tener testa a G. de Guzmán, conte-duca di Olivares, che ironizzava sulla debolezza costituzionale della Repubblica, dove non erano sopite le tensioni interne al patriziato sfociate nella "correzione" del 1628. Sappiamo già - ma il merito, a quanto pare, va ascritto alla moglie - che fu anche in grado di ottenere dalla corte madrilena il ristabilimento di certe prerogative del rappresentante della Repubblica, limitate "dal sopracciglio elevato del conte di Ognate defunto". Il quadro complessivo del lungo soggiorno spagnolo si ricava dalla relazione conclusiva, bella come gran parte dei consimili scritti degli ambasciatori veneziani. Dopo la rituale descrizione geografica dei domini di "questa vasta monarchia, che cinge imperio il più grande di qual si sia potentato di cristianità", il G. ne sottolinea, subito e impietosamente, la "potenza indebolita" dal peso secolare del "sostenimento di grosse armate e di potentissimi eserciti". Donde il serpeggiare di un diffuso malcontento e l'affiorare di rivolte: i popoli, "sempre più pressati dalle vessazioni delle presenti guerre […], condotti all'ultime disperazioni, si sono lasciati trasportare a pericolose sollevazioni". Sono le insurrezioni della Catalogna e del Portogallo, l'ultima destinata a sfociare, qualche anno dopo, nel distacco dalla monarchia asburgica. Per il G. la colpa era da cercare nella rapacità dei Castigliani e nell'incapacità di esercitare un valido controllo sull'apparato amministrativo, ove "non dimandandosi conto a quelli che maneggiano il denaro, non castigandosi chi lo dilapida, tutto cammina al disordine". Donde la debolezza interna e, per converso, l'aggressività di nemici esterni, vecchi e nuovi. Anzitutto gli Olandesi, che minano la potenza del re Filippo in Europa e gli contendono i domini americani, tanto che da Pernambuco minacciano Rio de Janeiro: "terminata dagli Olandesi l'impresa del Brasil, non è per riuscir loro difficile quella del Perù". Con gli ex sudditi vi è poi una situazione paradossale: i "negligentissimi" Spagnoli difettano perennemente di armi e munizioni, poiché "non hanno arsenale, né provvisioni che al tempo del bisogno. E posso affermare che se gli Olandesi […] eccitati dall'ordinario difetto dell'avarizia che travaglia questa nazione, non portassero li provvedimenti per l'armate cattoliche, non saprebbero gli Spagnoli dove ricorrere per farlo; come grandemente patirebbero li popoli di Spagna, se da quelli non fosse loro condotta gran quantità di grani, di modo che si può con franchezza dire che li nemici stessi della corona le somministra il modo alla difesa e l'alimento a' vassalli".
Inefficiente dunque l'apparato burocratico, mediocri i consiglieri del re e gli stessi ministri, a eccezione del conte-duca di Olivares. Questi "è signore di grande, presto impegno, d'intelligenza, indefesso nelle fatiche, sollecito nel servizio del re, pronto e grato nelle udienze", che "vive senza ostentazione" e appare "integro", ma è roso dall'ambizione e "avido di accrescere glorie al suo nome, suono che più s'accorda alla sua orecchia". Dopo questo punto centrale lo scritto scorre veloce, limitandosi a qualche sobrio cenno sulla figura del sovrano e della famiglia reale. Frettolosa anche la conclusione sui rapporti fra la Spagna e gli altri Stati; in particolare, per quanto concerne Venezia, a Madrid si cerca "studiosamente" di dimenticare le "passate acerbità", addossandone la colpa a ministri "d'elati e torbidi concetti", nel tentativo di accrescere fra i due Stati la presente "buona corrispondenza".
Il G. non lesse questa relazione in Senato: la spedì dalla Spagna il 1° maggio 1638, perché sin dal 29 nov. 1636 era stato eletto ambasciatore in Inghilterra, dove si recò direttamente passando per Bayonne e Parigi. Giunse a Londra all'inizio dell'agosto 1638, accompagnato da moglie, figli e dal fratello Girolamo (1608-43), discutibile personaggio, che di lì a non molto sarebbe finito bandito.
All'arrivo del G. la situazione interna dell'Inghilterra stava rapidamente deteriorandosi; un tempo "regno felice", ora il perdurante contrasto, le incomprensioni, le reciproche rigidità fra il re e il Parlamento stavano spingendo verso la guerra civile. La Scozia era già in armi e le truppe di Carlo I Stuart avevano conosciuto i primi insuccessi, mentre le rivendicazioni economiche si intrecciavano con quelle religiose. Nonostante il precipitare degli eventi (la cui drammatica conclusione fu lucidamente prevista dal G.), la legazione del veneziano fu caratterizzata da sostanziale tranquillità, dati i buoni rapporti allora esistenti fra i due Stati; in particolare, ottenne dal ministro Th. Wentworth, conte di Strafford, misure per calmierare il contrabbando delle uve passe provenienti da Zante e Cefalonia. Questo commercio era tradizionalmente una delle voci più rilevanti dell'interscambio veneto-inglese, che non era di piccole proporzioni: all'inizio degli anni Trenta del XVII secolo quasi un quarto delle importazioni nelle isole britanniche proveniva dal Mediterraneo orientale.
Tuttavia amarezze personali e lutti familiari segnarono la permanenza londinese del G.: il 7 dic. 1640 gli moriva un figlio, e l'anno dopo dovette sostenere una lunga disputa con il collega olandese, per via di certe precedenze; nello stesso 1641 lamentava di essere spiato e di non avere il necessario controllo della corrispondenza. Lasciò la corte inglese il 21 nov. 1642, quando la crisi fra il re e il Parlamento aveva costretto il sovrano alla fuga e si era alla guerra aperta; per queste ragioni il G. non fu sostituito da un diplomatico di pari rango e la legazione fu affidata al segretario Girolamo Agostini.
Fregiato del titolo di cavaliere, già concessogli dal re di Spagna e poi confermato dal Senato, neppure dopo tanti anni di servizio poté rimpatriare, dal momento che sin dal 10 ag. 1640 era stato chiamato a sostenere un'altra ambasceria, stavolta presso l'imperatore. Si recò in Austria passando per l'Aia, Colonia e Ratisbona, accompagnato dal segretario Alvise Vincenti. La guerra dei Trent'anni era ancora in svolgimento: l'imperatore Ferdinando III, sostenuto dalla Baviera, si batteva contro la Lega protestante, che poteva contare sull'aiuto della Francia e della Svezia. Finalmente i tanto attesi negoziati di pace si aprirono a Münster, nell'aprile 1644, fra grandi speranze e con la mediazione veneziana, affidata ad Alvise Contarini. Pur mantenendo con questo un fitto carteggio, a Münster il G. non si recò mai, anche per non suscitare sospetti di possibili interferenze tra la folta rappresentanza dei delegati dei vari Stati, già ampiamente corrosa da rivalità e reciproche diffidenze.
Seguì l'imperatore nell'incessante peregrinare nel teatro delle operazioni militari (in uno degli ultimi dispacci il G. scriverà di aver "rimisurato il regno di Boemia"); paradossalmente, l'inizio della guerra di Candia (giugno 1645), che riproponeva la Repubblica all'attenzione della diplomazia internazionale, finì per agevolarne l'azione: facendo leva sul timore di possibili incursioni ottomane in Croazia e quindi sulla necessità di rinforzare i presidi veneziani, nel marzo '47 il G. riuscì a strappare agli Arciducali il ribasso del dazio sul sale in entrata a Trieste, il quale "scemando nell'Istria il corso dei carichi faceva patire ai sudditi di Vostre Eccellenze i danni più gravi". Ottenne anche il permesso di arruolare soldati da impiegare contro i Turchi (il 20 apr. 1647 accennò all'incontro con il "giovane conte Montecuccoli, espedito dal duca di Modena all'imperatore"), ma ovviamente fallì nel tentativo di indurre Ferdinando a scendere in campo a fianco della Serenissima. Ancora una volta l'attenzione della diplomazia si volgeva a Münster, alla tanto attesa pacificazione generale; ma il G. lasciò l'incarico prima che la defatigante trattativa giungesse all'epilogo: infatti si congedò dall'imperatore a Praga, il 19 ott. 1647, con la promessa dell'invio di un ambasciatore a Venezia da parte di quest'ultimo.
Lasciata la Boemia, il 21 nov. 1647 era a Innsbruck e il 19 dicembre a Padova; qui il 7 genn. 1648 firmò l'ultimo dispaccio come ambasciatore in Germania. Due settimane dopo, il 21 gennaio, il primo come rappresentante della Repubblica presso la Santa Sede. Il G., assente dalla sua città da ben tredici anni, poté rivederla solo per pochi giorni: doveva infatti raggiungere la nuova sede romana (la quarta consecutiva), dove era stato eletto quasi un anno prima, il 3 nov. 1646.
A Roma avrebbe trascorso quarantadue mesi, che giudicò i meno felici della sua carriera. Convinto giurisdizionalista, forse vicino alle posizioni sarpiane, il G. non era probabilmente la persona più adatta - nonostante l'indubbia esperienza - a ottenere dalla Sede apostolica gli aiuti invocati dalla Repubblica per far fronte all'invasione turca di Candia. I rapporti tra le due corti erano ancora avvelenati dall'espulsione dai domini della Serenissima dei gesuiti, al cui rientro i pontefici subordinavano la concessione di validi soccorsi.
I suoi unici, esigui successi riguardarono la soluzione di talune vertenze confinarie nel Polesine, un contributo di 100.000 scudi da parte del clero veneto (luglio 1649) e l'invio di qualche galera a fianco della squadra veneziana: ma quest'ultima deliberazione non sortì effetti concreti. Il bilancio dei tre anni e mezzo trascorsi a Roma è offerto a chiare lettere dalla relazione conclusiva del G.: sarcastica nelle prime righe ("Ebbi sempre concetto più che grande del politico intendimento degli ecclesiastici, molto ben consapevole quanto gran scuola fosse la città di Roma nell'arte del regnare"), poi dura nel delineare la figura di Innocenzo X Pamphili, succubo della vedova di suo fratello, Olimpia Maidalchini, sin da prima dell'elezione al soglio papale, per cui molti pronosticavano, in caso di riuscita, "che il Pontificato sarebbe stato soggetto ad una impotenza donnesca, per l'affetto sviscerato che il cardinale dimostrava alla cognata, arbitra assoluta di tutti gli affari più gravi che concernevano gli interessi della sua casa, non senza opinione che il detto affetto avesse fatte altissime radici con più che platonica simpatia". Modeste, invero, "alcune qualità buone" ravvisabili nel pontefice, che "mitigano in parte il mal odore delle meno lodevoli"; "prevale nondimeno il peggio, perché quello che nel Papa è di buono riguarda per lo più il comodo della città di Roma ed il sommo bene dello Stato ecclesiastico, ma quello che vi è di male risulta in diservizio di tutta la Repubblica Cristiana; e di qui è che, interrogato un cardinale d'invecchiata prudenza, che giudizio si potesse fare del cardinal Pamfilio quando arrivasse ad esser Papa, senza molto pensarvi rispondesse che sarebbe stato un ottimo pontefice da Ponte molle in qua". Arduo compito quindi, per i diplomatici, negoziare con un soggetto che dimostra indifferenza per gli affari politici e che non fa mistero di non trovare "giornata più tediosa che quella nella quale per necessità deve dare udienza agli ambasciatori". Impensabile allora - questa l'amara conclusione del G. - sperare di ottenere l'atteso soccorso: "Di Vostra Serenità dirò con dolore", scrive, "ma con la solita fedele sincerità, che l'estimazione del Pontefice verso di lei sopravanza di molto all'affetto, e noiose sempre mostra riuscirgli l'istanze di Vostre Eccellenze".
Con questi sentimenti il G. rimpatriò nel dicembre 1651; ma va detto che neppure la sua condotta romana fu immune da censure: da più parti fu accusato infatti di doppiezza a proposito dei gesuiti e di aver sollecitato raccomandazioni e benefici per taluni suoi favoriti. In pratica si concluse così la sua esistenza; a Venezia fu eletto consigliere ducale, ma non portò a termine il mandato: morì quattro mesi dopo aver assunto la carica, il 16 nov. 1652, nel suo palazzo a S. Croce.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc.codd., I, Storia ven., 23: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti, p. 472 (ma taluni dati sono erronei); Avogaria di Comun, Indice deimatrimoni con figli, sub Giulio Giustinian e G. G.; Segretario alle voci, Elezioni in Maggior Consiglio, regg. 15, cc. 129, 160; reg. 20, c. 1; Ibid., Elezioni in Pregadi, 12, cc. 20-21; 13, c. 69; 14, cc. 68, 131; 16, c. 67; Senato, Dispaccirettori, Vicenza e Visentino, filze 18-19 passim; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere di rettori, b. 139 (Treviso), nn. 54-95; b. 228 (Vicenza), nn. 150-153, 156-178, 180; Senato, Dispacci Spagna, filze 70, 71/1, 71/2, 72/1, 72/2, 73 (l'ultima inconsultabile perché deperita); Senato, DispacciInghilterra, filze 41-44; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere di ambasciatori, b. 14, n. 137 (Inghilterra, 1641); Senato, Dispacci Germania, filze 88-93; Senato, DispacciRoma, filze 126-132; Capi del Consiglio deidieci, Lettere di ambasciatori, b. 27, n. 378 (Roma, 1651); Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod.Cicogna, 1511, La Copella politica…, c. 28r; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. it., cl. VII, 1194 (= 8354), cc. 5, 12; 1208 (= 8853), cc. 115, 117-120, 350, 372, 374-375, 380-381, 472; 1209 (= 8854), cc. 4, 491 (lettere del G. ad Alvise Contarini, bailo a Costantinopoli); 2386 (= 9758), cc. 446-513 (altre lettere al Contarini, plenipotenziario a Münster); A.B. Hinds, Calendar of State papers… ofVenice, XXIV-XXVI, London 1923-25, sub voce (sull'ambasceria inglese); Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolodecimosettimo, s. III, 2, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, Venezia 1878, pp. 83-161 (relazione di Roma: in realtà da p. 141 inizia una Seconda relazioneGiustinian, così intitolata, posteriore di un anno alla precedente, come si ricava dal contesto, che fornisce notizie sull'intera attività diplomatica del G. per poi passare a riassumere quanto scritto nella prima parte, o prima relazione, che occupa le pp. 83-140); Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, X, Spagna (1635-1738), a cura di L. Firpo, Torino 1979, pp. 61-77.
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