GRIOLI, Giovanni
Nacque a Mantova l'8 ott. 1821 da Luigi, "bravo e onesto fabbricante di berrette sacerdotali e collarini" (Martini, p. 11), e da Livia Nardini. Educato nel seminario vescovile cittadino, vi ricevette dal più aperto dei suoi docenti, don E. Tazzoli, un'impronta assai forte sia sotto il profilo morale, sia sotto quello religioso. Gli furono infatti trasmesse l'idea e la pratica di un insegnamento che, rifuggendo dalle concessioni d'obbligo al principio d'autorità, lasciava largo spazio all'intervento della ragione, vista non come antitesi ma come completamento della rivelazione; e gli fu anche proposto un ideale di vita cristiana fortemente connotato sotto il profilo spirituale, ma anche ispirato a tolleranza e volto a venire pragmaticamente incontro alle sofferenze delle masse onde ricomporre solidaristicamente il tessuto sociale lacerato dagli eventi storici. Ordinato sacerdote il 6 maggio 1846 grazie a una rendita garantitagli dalla marchesa Teresa Valenti Gonzaga Arrivabene, ebbe come prima sede per il suo ministero ecclesiastico il paese di Levata, nel Cremonese. Intanto, con l'avvicinarsi della crisi del 1848, e in virtù dell'influsso esercitato su di lui dalla lettura delle opere politiche di V. Gioberti, anche il G. avvertiva il richiamo dell'impegno civile in favore del programma di liberazione della Lombardia dalla dominazione austriaca; e però, scoppiata la guerra, la sua domanda di essere impiegato come cappellano militare venne respinta, mentre, a decorrere dal 25 ag. 1848, fu nominato vicario della parrocchia di Cerese, nei pressi di Mantova.
Insieme con le deteriorate condizioni economiche, il fallimento della campagna piemontese in Lombardia e più ancora la tragica conclusione della breve stagione rivoluzionaria romana nella primavera del 1849 - a Roma il fratello del G. era rimasto ferito durante la difesa e molti suoi concittadini avevano perso la vita - indussero molti esponenti del liberalismo mantovano a convertirsi ai progetti mazziniani di immediato rilancio della cospirazione politica contro l'Austria, così da preparare il terreno all'insurrezione repubblicana che avrebbe dovuto porre fine alla dominazione austriaca sul Lombardo Veneto. Sulla scia di Tazzoli, che aveva preso la guida del comitato rivoluzionario impiantato a Mantova, un comitato fondamentale per il collegamento che poteva assicurare con i gruppi veneti, anche il G. entrò nell'organizzazione come "capo-circolo" collaborando molto attivamente a iniziative quali lo spaccio delle cartelle del prestito nazionale lanciato da G. Mazzini, il proselitismo popolare, la diffusione di stampe clandestine, la raccolta di informazioni militari, le pressioni sulla componente ungherese delle truppe austriache per spingerla alla diserzione. Non è da escludere che il fatto di indossare l'abito talare determinasse nel G., come in altri sacerdoti coinvolti nella trama, una specie di sensazione di impunità o, quanto meno, la certezza di potersi muovere con una libertà maggiore di quella consentita ad altri: se mai ci fu, tale calcolo si rivelò però del tutto errato, dal momento che, fermamente decisa a troncare sul nascere qualunque pratica eversiva, l'Austria infittì piuttosto che allentare la sorveglianza.
Il G. fu uno dei primi a cadere vittima della repressione. Arrestato il 28 ott. 1851 dopo essersi recato a Pietole per compilare, come era nei suoi compiti, lo stato delle anime, fu accusato di avere offerto a un soldato ungherese della compagnia disciplinare lì impegnata nei lavori di manutenzione del forte una somma di denaro per convincerlo a disertare: si difese dicendo che la sua era stata soltanto un'elemosina di entità irrisoria fatta a chi gliel'aveva espressamente richiesta, ma l'interessato lo smentì con il conforto della testimonianza di altri due militari; il successivo ritrovamento nell'abitazione del G. di una copia del Gesuita moderno di V. Gioberti e di un certo numero di volantini incitanti all'evasione fiscale aggravò la sua posizione. Non fu invece scoperto, perché rimosso per tempo da altri congiurati, il "forte deposito di stampati e di armi" (Siliprandi, p. 60) che, secondo quanto avrebbe testimoniato molti anni più tardi un altro cospiratore, il G. pure deteneva presso di sé; comunque il materiale sequestrato bastò agli Austriaci per portarlo davanti a una corte marziale che, riunitasi d'urgenza il 29 ott. 1851, dopo un brevissimo dibattimento lo condannò a morte mediante fucilazione.
L'estrema durezza della pena e la rapidità con cui la si applicò in un momento in cui la congiura di Mantova non era ancora emersa in tutta la sua pericolosità si spiegano da un lato con l'esigenza - particolarmente avvertita dal maresciallo J.-J.-F.-K. Radetzky, governatore generale del Lombardo Veneto - di inviare un forte segnale deterrente alla cospirazione, dall'altro e più ancora con la preoccupazione che, come il G., altri elementi del clero abbandonassero il tradizionale moderatismo per abbracciare posizioni di piena adesione alla causa nazionale.
Resistendo a tutte le sollecitazioni esercitate su di lui durante il processo, il G. non fece nomi e questo salvò temporaneamente la rete della cospirazione ma gli costò la vita: condotto a Belfiore una settimana dopo la lettura della sentenza, vi fu giustiziato il 5 nov. 1851 con una procedura poi resa famosa dalla testimonianza di mons. L. Martini, che lo assistette fino all'ultimo e che volle poi tramandare il ricordo della sua fermezza nel respingere ogni tentativo di farlo parlare in cambio della salvezza, della sua ostinazione nel non volere essere privato della tonaca e del coraggio dimostrato negli attimi che precedettero l'esecuzione: "Il giustiziere prese a legargli la benda, ma tremava tanto che non poteva fare. Il perché Giovanni prese le due estremità, si allacciò la benda e senza punto aspettare, si inginocchiò, quasi si inginocchiasse a pregare, e pregava infatti" (Martini, p. 62). Essendone stata vietata la sepoltura in terra consacrata, il corpo del G., che il suo vescovo si era rifiutato di svestire dell'abito sacerdotale, fu tumulato sul luogo della fucilazione, e negli anni seguenti, diversamente dai resti di quasi tutti i martiri di Belfiore, non fu mai trovato.
Fonti e Bibl.: L. Martini, Il confortatorio di Mantova nel 1851, '52, '53 e '55, Mantova 1867, I, pp. 11-73; P. Cipriani, Belfiore e S. Giorgio. Cenni storico-biografici delle vittime dei processi di Mantova, Mantova 1872, pp. 11 s.; M. d'Ayala, Vite degli italiani illustri, Torino-Roma-Firenze 1883, pp. 327-330; G. De Castro, I processi di Mantova e il 6 febbraio 1853, Milano 1893, pp. 190 ss.; A. Luzio, I martiri di Belfiore e il loro processo, Milano 1905, I, pp. 56-60, 76, 301, 308, 361-364; II, pp. 13, 51; F. Siliprandi, Memorie storiche politiche mantovane dal 1848 al 1866, Mantova 1953, ad ind.; N. Rodolico, Due impiccati dall'Austria nel '51: lo Sciesa e don G., in Id., Il Risorgimento vive, Palermo 1962, pp. 237-240; E. Di Nolfo - C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, VIII, Milano 1965, pp. 74, 92 s., 112; Mantova nel Risorgimento. Compromessi politici nel Mantovano (1848-1866), a cura di R. Giusti, Mantova 1966, ad ind.; V. Campagnari, Preti liberali nel Risorgimento mantovano, in Civiltà mantovana, X (1976), pp. 74 s.; R. Giusti, Il Risorgimento a Mantova, 1849-1866, Mantova 1978, ad ind.; R. Salvadori, Studi sulla città di Mantova, 1814-1960, Milano 1997, pp. 51, 61; Diz. del Risorgimento nazionale, III, s.v.; Enc. Italiana, XVII, sub voce.