GRITTI, Giovanni
Primogenito di Agostino, del ramo di S. Maria Zobenigo, e di Cecilia di Cristoforo Morosini, del ramo detto dalle Tresse a S. Giovanni Novo, nacque a Venezia il 2 ott. 1524.
Dal matrimonio, celebrato nel 1522, nacquero altri quattro figli: Francesco (1526-76), Giovanni (1527) morto in tenera età, Alvise (1530-82) sposato a Maria Cappello di Pietro, morto senza figli, e Polo (1535-91). A quest'ultimo, sposato a Laura di Giovanni Grimani, spettò la continuazione della famiglia attraverso i figli Marcantonio e Agostino.
Il G. - da non confondere con i figli di Alvise e di Beneto - fu abilitato al Maggior Consiglio nel 1545 ed entrò al servizio dello Stato come avvocato in tutte le corti, nel luglio 1546, e, nell'aprile del 1548, come avvocato per gli uffici di Rialto. Il vero debutto in politica avvenne il 6 dic. 1552 con l'elezione alla carica di savio agli Ordini, riconfermatagli anche per il 1554 e il 1555. Il 10 genn. 1557 il G. fu camerlengo di Comun e, rifiutato l'incarico di giudice della Curia del proprio (ottobre 1559), nel luglio 1562 accettò la nomina a provveditore sopra Camere. Passato ufficiale alle Rason vecchie (luglio 1566) e dal 26 marzo 1568 avogador di Comun, il 4 dic. 1569 fu eletto podestà-capitano a Treviso.
Caratterizzato da un territorio rinomato per bellezza, amenità e ricchezza di prodotti agricoli pregiati, il Trevigiano era la tradizionale fonte di approvvigionamento alimentare per Venezia, crocevia del commercio e area di forti investimenti fondiari del patriziato. La permanenza del G. fu segnata pertanto dalla vigilanza sui prezzi agricoli, specie dei cereali e sulle riserve di approvvigionamenti, nonché dalla cura della fortezza, tra le più importanti del Dominio veneto.
Ritornato a Venezia, il G. rientrò nel giro delle magistrature domestiche: candidato alle cariche di avogador di Comun (settembre 1571) e di podestà a Cefalonia (gennaio 1572), dal novembre 1571 all'ottobre 1572 fu provveditore sopra Ogli, magistrato sopra Atti (giugno 1572), candidato alla capitania di Bergamo (giugno 1572), avogador di Comun (gennaio 1573), dei Tre esecutori delle deliberazioni del Senato (marzo 1574) e censore (agosto 1574). Dopo esser stato in lizza come capitano a Verona (novembre 1574), il G. compì un importante progresso nella carriera con la nomina, il 29 maggio 1575, a capitano a Brescia.
Oltre che dalla consueta vigilanza sulle imponenti strutture difensive del territorio e sulla sicurezza dei depositi di munizioni nel castello della città, l'attenzione del G. si indirizzò alla produzione di armi, notoriamente fiorente. Ricevendo dai produttori di archibugi la richiesta di ottenere più licenze rispetto ai limiti di legge, mostrò di condividerne le istanze e le ragioni, tanto da sottoporle all'attenzione dei capi del Consiglio di dieci, "parendogli che la qualità de' tempi ricercasse regola" ma anche consapevolezza che "nel luogho di gardon […] si fabricano et si possono comodamente fabricar 300 archibugi al giorno, il che è di grandissimo giovamento a questi suoi fidelissimi dai quali anco mi è detto qual hora gli metta difficoltà nelle licenze, che quanto manco licentia si gli concedono" meno operai troveranno lavoro e l'arte degli armaioli deperirà.
Il G. proseguì la carriera con la nomina, nell'ottobre 1576, a revisore sopra la Scansation e regolation delle spese superflue, e, a conferma del prestigio raggiunto, nel febbraio 1577 fu elevato alla carica di savio di Terraferma. In aprile fu eletto provveditore al Sal e nel settembre 1578 dei Tre provveditori sopra i confini. Riconfermato, il 31 dic. 1578, savio di Terraferma, il G. fece un ulteriore passo nella carriera con l'elezione, il 31 marzo 1579, a savio del Consiglio. Nel 1582, in occasione dell'arrivo a Venezia di una delegazione dei Grigioni "per diversi negozzii", il Senato affidò al G. e a Gianfrancesco Morosini - definiti da Nicolò Contarini senatori "molto stimati" - la trattativa di accordi politici, tuttavia non conclusi. Nel dicembre 1580 fu deliberato di inviare due procuratori alla corte cesarea, per affrontare l'annoso problema dei confini friulani. Ricevuta, il 4 nov. 1582, l'istruzione di risolvere le vertenze tra la casa d'Austria e la Serenissima "a fine che fosse levato tutto ciò che potesse far alcun pregiuditio all'amichevole corrispondenza et alla buona vicinanza", il G. e Giovanni Michiel giunsero a Vienna il 30 dicembre.
La complessità delle questioni - oltre ai confini, la navigazione in Adriatico e i dazi sulle merci - e la farraginosità delle procedure messe in piedi dagli Asburgo resero subito evidenti le difficoltà di un esito positivo. Nonostante le assicurazioni dell'imperatore, le trattative si trascinarono per due anni in defatiganti colloqui con scambi di relazioni e controrelazioni. Gli arciducali pretendevano di togliere a Venezia Monfalcone e Cividale, oltre a territori dell'Udinese, dando in cambio i territori di Aquileia. Un'offerta che fu respinta, anche perché, essendo il territorio "della Chiesa di Aquileia si conveniva per special obligo restituirle a quella", lasciando nei Veneziani "l'impressione che le proposte fossero state fatte per affondare l'accordo".
Il 15 febbr. 1584 il G. e il collega presero congedo da Rodolfo II e tornarono a Venezia. Oltre al seggio di savio del Consiglio, che gli era stato riservato, attendeva il G. l'incarico di sindaco e inquisitore in Levante, conclusosi con una circostanziata relazione letta in Senato il 16 giugno 1584. Accuratamente ispezionate le fortificazioni di Candia e di Corfù, esaminati lo stato dei borghi e le condizioni di vita delle popolazioni, valutate attentamente le "piazze" e la consistenza delle loro guarnigioni, si occupò anche delle attività economiche con sopralluoghi sulle saline - una risorsa un tempo strategica - e, valutata la scarsa convenienza economica della gestione statale, fu proposta la loro riduzione ad affitto. Non si era mancato, infine, di denunciare le condizioni di miseria delle popolazioni e di evidenziare i molti "disordini ritrovati".
Mentre ricopriva la carica di savio del Consiglio, al G. giunse un nuovo riconoscimento con la nomina, il 15 nov. 1585, ad ambasciatore ordinario a Roma, presso Sisto V. Partito da Venezia il 31 marzo 1586, il G. giunse, via Istria, ad Ancona il 4 aprile. Trascorso il periodo pasquale a Loreto, il 16 entrò a Roma e il giorno 18 fu ricevuto in udienza dal papa, "accolto con alegra ciera ma con tanta tenerezza et affetto, due volte strettamente abbracciato", segno dell'"amor grande" che portava alla Serenissima.
Il G. trasmise "la riverenza l'ossequi et la devotione" del governo di una Repubblica "vissuta per 1200 anni con continua riverenza verso questa Santa Sede, profondendo denaro e sangue dei suoi cittadini per la sua conservazione, combattendo gli infedeli e ogni altro stato nemico di lei". "Siamo benissimo informati della religione di quella repubblica, della riverenza verso il Signor Dio et osservanza verso la sede Apostolica", rispose il papa, mostrando oltre all'apprezzamento anche una vena di ironia. Lamenterà, infatti, più volte con il G. il fatto che, mentre egli voleva bene a Venezia e la trattava come Eugenio IV e Paolo II, papi veneziani, non ne fosse ricambiato; anzi, Venezia si comportava con lui peggio che con i suoi predecessori, con continue impuntature su questioni giurisdizionali. Queste, infatti, oltre a quelle di carattere internazionale, che descrisse con grande partecipazione - in primis le lotte civili in Francia - monopolizzarono le energie diplomatiche del G. durante l'intera legazione.
Il G. lasciò Roma l'8 apr. 1589 tra il consenso generale e il particolare apprezzamento del pontefice e, rientrato a Venezia, il 15 maggio 1589 lesse in Senato la relazione finale.
"Lo stato di S. Santità si può considerare e come spirituale e come temporale": quello temporale si può dividere in due parti, "l'una comprende quella giurisdizione che tiene il Pontefice del dispensare a chi più gli piace vescovati, abbazie priorati commende e tant'altre sorte di benefici. Autorità e preminenza veramente singolare poiché viene per questa maniera non solamente ad esser padrone del suo stato, ma ancora di gran parte di quello che sono posseduti dagli altri principi cristiani". Il papa vuole "accomodar i Principi di qualche parte di questi beni" concedendo loro anche le decime del clero; è dunque "così grande ed innumerabile la copia dei benefici de' quali può a suo piacere disponer, che può abbondantissimamente soddisfare ogni sorta di persona". Lo Stato "temporale" ha al centro Roma, "che sendo stata altre volte capo del mondo merita che in essa mantenga la sua abitazione il Vicario di Cristo il quale per rispetto alla Religione estende il suo assoluto dominio per tutte le provincie dell'universo". Molti sono i feudi e molte e varie le "entrate" dello Stato, che l'attuale pontefice ha potuto incrementare, anzitutto per "aver scemato gran parte delle spese ordinarie e straordinarie, così della guardia della sua persona come della Corte", poi perché "nel suo stato, compresi gli appalti, ha posto di nuovo diciotto dazi, ha ordinato molti nuovi offici, i quali tutti si sono venduti insieme con molti altri vecchi per la morte di diversi cardinali e prelati e per la elezione d'altri al cardinalato". Ha istituito "molti monti a dieci per cento i quali gli han reso molta somma di denaro", tanto che i banchieri genovesi "fra poco diveranno più interessati a Roma che a Spagna". Tuttavia accumulare denaro con i Monti "non vien molto lodato dalla Corte e diversamente si discorre in Roma se il Pontefice potrà continuare a riscuotere così grossa entrata". Secondo il G. non solo continuerà a farlo ma "accrescerà l'entrate sue e il tesoro, perché oltre l'elezione annua di cardinali richissimi d'importanti benefici, questa invenzione d'eriger monti gli apporterà sempre incredibil utile". La sollecitudine del papa ad accumulare "viene universalmente biasimata parendo cosa empia il gravare ed espilare così acerbamente il popolo che piuttosto dovrebbe essere sollevato ed aiutato dalla clemenza e liberalità de' papi i quali per questo rispetto sono stati amati e riveriti da loro sudditi. Oltreché non si conviene al Papa l'accumulare danaro e in esso aver più speranza che nella divina bontà, che ha sempre in tante discordie mantenuto quella Santa Sede mediante la bontà e religione de' principi cristiani i quali ancora per l'avvenire la difenderebbero contro chiunque cercasse d'offenderla". Chi "sottilmente discorre" sopra questa materia ritiene che accumulare denari possa più nuocere che giovare alla libertà e all'autorità pontificia; replica il papa che "un principe povero, e specialmente un pontefice, sia sprezzabile appresso ognuno, secondoché in questi tempi il denaro si fa strada a qualunque se ben difficile azione; onde aggiunta all'autorità così temporale come spirituale dei papi la ricchezza, più facilmente possano esser temuti et obbediti da' principi cristiani, e similmente meglio aiutati nelle loro occorrenze ed avversità". Biasima i predecessori che non hanno fatto come lui, "parendo a Sua Santità che il principe debba imitare la formica, che pone da parte l'estate il grano per mangiarselo l'inverno".
Centrale nella sua relazione la descrizione di Sisto V - al secolo Felice Peretti da Montalto - "nato così bassamente che appena si ha memoria quali fossero i suoi progenitori […]. Di carne bruna, di statura mediocre con barba castagna e la vita (come affermano) tutta coperta di pelo, ha guardatura sicura e discerne così bene senza occhiali, che subito giunto in Concistoro, con una sola fissata d'occhi s'accorge chì vi è e chi manca". Con la dovuta ampiezza sono inoltre descritti i rapporti tra Sisto V e i principi europei.
Venezia è amata e stimata dal papa in modo tale "che più non si saprebbe desiderare". Appena eletto favorì la Serenissima nell'affare di Aquileia, concesse la posta ai corrieri veneziani e stabilì che vi fosse a Roma un auditore di Rota suddito della Repubblica, opponendosi sempre alle richieste arciducali di creare un vescovato a Gorizia che avrebbe danneggiato la giurisdizione di Venezia; per non parlare di altri "favori e parzialità", perfino scusando i Veneziani "della pace che contrassero con i Turchi".
Ripresa l'attività politica domestica, il G. ricoprì per due volte le cariche di consigliere ducale (dicembre 1587 e marzo 1589) e di savio del Consiglio (dicembre 1586) entrambe riservategli quando si trovava a Roma. Eletto il 12 maggio soprintendente alle Decime del clero, il G. morì a Venezia l'8 ott. 1589.
Il testamento olografo datato 11 ag. 1589, con il quale, adempiuti gli obblighi di legge beneficando enti e istituzioni caritative e religiose e lasciati diversi legati in favore di parenti e amici, lasciò erede universale il fratello Polo e la sua discendenza maschile, contiene due clausole particolari. Nella prima si afferma che "se in niun tempo occorrerà che s'attrovi nella famiglia de cha Gritti un senator il qual s'habbi affaticato per la sua patria trentasette anni in rezimenti offici in ambascerie voglio che il resto del tempo oltre i 37 possa usufruire della casa" lasciatagli da un amico con la stessa motivazione, altrimenti vada come gli altri beni al fratello. La seconda stabilisce che "tutti i marmi" che aveva portato da Roma siano collocati nella casa di S. Geremia, "disposti in quel modo che parerà a misser Piero Pellegrini", un noto antiquario, suo amico. Curiosa la scelta della sepoltura: lasciata dapprima ai commissari l'alternativa tra S. Chiara, S. Giorgio e la cattedrale di S. Pietro, tre giorni dopo modificò la disposizione optando per la chiesa di S. Giobbe.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, c. 185; Avogaria di Comun, Matrimoni, reg. I, c. 155; Segretario alle Voci, Elezioni in Pregadi, regg. 1, cc. 31, 33; 2, c. 12; 4, cc. 12, 22, 48, 85, 101; 5, cc. 3-4, 8-9, 73, 106; 6, c. 86; Elezioni in Maggior Consiglio, regg. 2, cc. 55, 97; 3, cc. 14-15, 43; 4, cc. 4, 15-16, 104; 5, cc. 7, 10-11, 14, 16, 154; 6, c. 1; 7, c. 1; Senato, Deliberazioni, Secreta, regg. 82, c. 103; 83, c. 113; Archivio proprio dell'ambasciata in Germania, filze 9-11; Senato, Dispacci degli ambasciatori, Roma, filze 20-23; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere degli ambasciatori, Roma, b. 27; Lettere dei rettori, Brescia, b. 23; Treviso, b. 135; Collegio, Relazioni Sindaci e Inquisitori in Levante, b. 74; Roma, b. 20; Notarile, Testamenti, bb. 210/460, 65/219, 1172/610; Dieci savi alle decime di Rialto, b. 161, n. 1070; Provveditori e sopraprovveditori alla Sanità, Necrologi, reg. 821; Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. VI, 156 (=6005); cl. VII, 874 (=8179); 1190 (=8880); 1279 (=8886): Avvisi, cc. 67-94; A. Morosini, Istorie veneziane, in Degl'istorici…, II, Venezia 1719, p. 660; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, p. 416; V, ibid. 1842, p. 249; Le relazioni degli ambasciatori veneti…, s. 2, X, t. IV, a cura di E. Alberi, Firenze 1857, pp. 331-348; Calendar of State papers… Venice, a cura di R. Brown, VIII, London 1894, ad ind.; Dispacci degli ambasciatori al Senato, Indice, Roma 1959, pp. 99, 221; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, II, Germania, a cura di L. Firpo, Torino 1970, pp. XXXIII s.; Relazioni dei rettori veneti…, III, Podestaria e capitaniato di Treviso, a cura di A. Tagliaferri, Milano 1973; L. von Pastor, Storia dei papi, X, Roma 1928, ad ind.; F. Seneca, Il doge Leonardo Donà, Padova 1959, p. 110; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, Venezia 1974, p. 268; Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni - T. Zanato, Milano-Napoli 1982, p. 228; G. Cozzi, Stato e Chiesa. Un confronto secolare, in Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 249, 255 s.