GUCCI, Giovanni
Nacque a Faenza il 12 nov. 1776 da Francesco e Teresa Conti, in una famiglia fregiata del titolo comitale; compì la formazione culturale di base nel locale seminario, che nel corso del secolo XVIII ebbe ottimi maestri nelle discipline umanistiche, tanto da divenire centro propulsore di quella che si suole chiamare scuola classica romagnola e vantare tra gli allievi V. Monti, D. Strocchi, C. Montalti. Il G. certamente guardò con simpatia al regime napoleonico: un biografo (Vaccolini, 1835, p. 43) ricorda la sua militanza - sia pure breve per ragioni di salute - come guardia d'onore a Milano nel 1806. A Faenza nel 1815 gli fu affidato l'ufficio temporaneo di bibliotecario del Comune, che nell'anno seguente il Consiglio comunale gli confermò definitivamente. Il compito che lo attendeva non era dei più semplici, poiché occorreva rendere fruibile una disordinata congerie di libri di varia epoca e provenienza: egli vi si accinse con grande impegno, compilandone in breve tempo il catalogo e provvedendo all'acquisto di nuove opere. Così il 25 nov. 1818 la Biblioteca comunale poté essere ufficialmente aperta al pubblico, con una cerimonia durante la quale il G. lesse un discorso che riscosse numerosi consensi e che fu poi pubblicato (Lugo 1820). Certo è che egli aveva dato prova "di un'attività veramente eccezionale, non disgiunta da una mentalità aperta alle moderne concezioni dei compiti e delle funzioni di una biblioteca pubblica" (Zama, p. 307).
Sul fondamento dell'educazione comune agli allievi del seminario di Faenza, il G. aveva acquisito anche una non superficiale conoscenza dei classici italiani e, più sensibile ai nuovi problemi della società e della cultura dei letterati dello stesso ambiente, non trascurò lo studio della filosofia. La sua produzione letteraria non supera gli schemi accademici, ma non le è estranea la meditazione sugli avvenimenti di quell'epoca travagliata: lo attesta, per esempio, il poemetto in terzine La polemastia (Forlì 1814), in cui sono deprecate le lotte intestine che funestavano la vita pubblica e privata della sua città; e resta notizia (F. Lanzoni, p. 31) di un suo Inno per l'indipendenza italiana (su foglio volante) e di un Nuovo inno patriottico (s.n.t.), composti con ogni probabilità per il tentativo indipendentista di Gioacchino Murat. Collaborò con un inno A Minerva alla silloge Agli dei consenti (Parma 1812), offerta da vari poeti in bella edizione bodoniana a Costanza Monti per le nozze con Giulio Perticari. Fra gli interessi del G. v'era anche il rinnovamento del teatro, anche in considerazione della sua funzione civile; pertanto volle dare lui stesso un esempio di poesia teatrale con il melodramma Andromaca (Forlì 1817). Nell'ampia prefazione esaminò partitamente gli elementi del melodramma in generale e, soprattutto, rivendicò la dignità del testo letterario di fronte all'elemento musicale divenuto prevalente ma che, a suo giudizio, tende a "dilettare l'orecchio non a muovere il cuore". Il G. compose, inoltre, molta poesia d'occasione, senza dubbio opera di verseggiatore più che di poeta; alcune composizioni, però, oltre al decoro della forma presentano una buona consistenza concettuale. Nel metro privilegiò la terzina e nella lingua si attenne alla tradizione classicistica, con frequenti reminiscenze dantesche. Curò due edizioni di classici italiani a uso scolastico: una scelta di novelle del Decameron, acconciate per esigenze morali e annotate, cui è premessa una lettera a D. Strocchi (Faenza 1822); il Trattato del governo della famiglia di Agnolo Pandolfini (ibid., s.d. ma 1824), rimaneggiamento del libro III del trattato Della famiglia di L.B. Alberti, all'epoca erroneamente considerato opera di Pandolfini, cui premise una sua lettera a C. Montalti sullo studio delle lettere e i metodi del loro insegnamento. Pertanto, se come letterato può essere considerato un rappresentante di secondo piano della scuola classica romagnola, il G. presenta una personalità complessiva non trascurabile per le sue idealità politiche e il suo impegno civile.
Per il suo orientamento laico e le idee notoriamente liberali non gli mancarono i nemici, che trassero motivo dal discorso per l'inaugurazione della biblioteca per iniziare le ostilità. In esso aveva sottolineato i meriti dei monaci amanuensi medievali nella copiatura dei codici antichi, ma altresì rilevato che talvolta essi avevano abraso pergamene contenenti classici greci e latini per trascrivervi testi sacri o liturgici. Bastò questo per un'accusa di irreligiosità, allora assai grave; si trovarono anche ulteriori pretesti, altrettanto futili. Le accuse andarono a effetto: al G. fu dimezzato lo stipendio, poi gli fu tolto un collaboratore che gli era stato assegnato; infine, nel 1821, fu rimosso dall'ufficio e l'anno successivo il Comune nominò un altro bibliotecario nella persona di un ecclesiastico. Nel 1824 per intervento del cardinale legato A. Rivarola fu reintegrato nel suo ufficio, ma solo successivamente il G. poté tornare a essere effettivo direttore della biblioteca.
Egli fu anche al centro di un episodio molto indicativo dell'atmosfera politica in Romagna negli anni della Restaurazione. Nel dicembre 1826 morì il vescovo di Faenza, Stefano Bonsignori, o Bonsignore, ben accetto agli esponenti liberali della Romagna per i suoi trascorsi in periodo napoleonico; questi decisero di onorarne la memoria con una raccolta di omaggi poetici, non solo per esaltare i meriti del defunto ma, con l'intenzione, più o meno evidente, di proporlo come esempio di vescovo ideale. L'iniziativa era partita dal G. e da D.A. Farini di Russi; il secondo, carbonaro e sospetto alla polizia, preferì non esporsi con il proprio nome, anche se si assunse il delicato compito di scrivere per la pubblicazione una circostanziata biografia del Bonsignore. Pertanto il G., indubbiamente meno compromesso, fu il solo presentatore del volume (Commentarj di S. Bonsignore. Versi ed inscrizioni in onore di lui, Faenza 1827), cui contribuirono i più noti letterati ed eruditi romagnoli, tra i quali anche qualche ecclesiastico; egli contribuì con tredici ottave. Il censore di Ravenna, padre T. Saporetti, concesse l'imprimatur (per tale decisione perdette poi il suo ufficio), ma il vero spirito dell'opera non sfuggì alla censura romana, che già nel marzo 1828 la inserì nell'Index librorum prohibitorum.
Nel 1826 la Biblioteca comunale di Faenza era stata trasferita in altro locale e il G. aveva partecipato attivamente alla gravosa operazione, prendendo anche iniziative ispirate a criteri riformatori e dirette all'interesse del pubblico. Logorato nel fisico, forse anche per la sua intensa attività, nel luglio 1828 dovette dimettersi dall'ufficio.
Il G. morì a Faenza il 22 luglio 1829.
Fonti e Bibl.: Numerosi documenti riguardanti il G. quale bibliotecario del Comune di Faenza sono conservati nell'Archivio di Stato di Ravenna, Arch. della Legazione apostolica, Atti del prot. generale, tit. XV, Magistrati pubblici, rubr. 8, Impiegati comunali, anni 1816-29; una sua lettera dell'11 apr. 1825 al cardinale legato è in Atti del prot. segreto, f. Carte riservate. Altri documenti della stessa natura, degli anni 1815-29, nella Sezione d'Archivio di Stato di Faenza, Arch. moderno del Comune. Alcune sue lettere a vari si conservano a Forlì, Biblioteca comunale, Coll. Piancastelli, Carte Romagna (v. G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, XCV, p. 122). D. Vaccolini in Giornale arcadico, XXVII (1825), pp. 332-338 (recensisce la lettera premessa al Trattato… di A. Pandolfini); Id., in Giornale arcadico, XLIII (1829), pp. 266-269 (necrologia del G.); Id., in E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri, II, Venezia 1835, pp. 43-45 (corrisponde in gran parte allo scritto precedente); F. Lanzoni, Della vita e delle opere del conte G. G. faentino, Faenza 1862 (con bibliografia degli scritti del G. a pp. 31-33), rist. in Id., Alcune prose ed iscrizioni, Faenza 1876, pp. 215-276; L. Rava, Il maestro di un dittatore. D.A. Farini (1777-1834), Roma 1899, pp. 67, 69, 79 s., 89-91, 93 s.; G. Zama, Origine e sviluppo della Biblioteca comunale di Faenza, in Studi romagnoli, VIII (1957), pp. 307-314; M. Petrucciani, Introduzione ai poeti della scuola classica romagnola, Caltanissetta-Roma 1962, pp. 71-75; R. Comandini, Mons. S. Bonsignore (1738-1826) nell'opinione dei seguaci della scuola classica romagnola, in Studi romagnoli, XVII (1966), pp. 312-314; A.R. Gentilini - G. Lanzoni - G. Moschini, La raccolta epigrafica, in La Biblioteca comunale di Faenza. La fabbrica e i fondi, a cura di A.R. Gentilini, Faenza 1999, pp. 205-207, 209.