GUICCIARDINI, Giovanni
Nacque a Firenze il 1° ott. 1385 da Luigi di Piero e da Costanza di Leonardo Strozzi.
La famiglia Guicciardini, aveva fatto fortuna con l'attività commerciale e bancaria; la sua presenza nel governo del Comune di Firenze è documentata dal 1302.
Alla morte del padre, all'inizio del 1403, il G. ereditò una notevole ricchezza che, in occasione del catasto del 1427, lo pose tra i cittadini più ricchi del quartiere di S. Spirito.
Uomo mite, si narra che nel 1414 il G. fosse stato aggredito da alcuni membri della famiglia Strozzi, con cui i Guicciardini avevano vecchie questioni, mentre si trovava nella chiesa di S. Gallo; il G. non cercò vendetta, ma si rimise al giudizio della Signoria e di lì a poco accettò di sottoscrivere un accordo con i suoi aggressori. Contraddittori i giudizi espressi sul G. dai contemporanei: Cosimo de' Medici, che lo conobbe bene e che più tardi fu suo avversario politico, così si esprimeva su di lui nel 1428: "uomo leggero, ma dabbene" (Kent, p. 263).
Il primo incarico politico noto del G. (che nel 1404 aveva ottenuto l'immatricolazione all'arte dei mercanti di Por S. Maria) è del 17 giugno 1409, quando fu inviato ambasciatore a Forlì. Fu poi spesso impiegato in incarichi pubblici, anche se non di primaria importanza: nel 1414 fu membro dei Dieci di Pisa, magistratura istituita dopo l'acquisto della città da parte di Firenze, con compiti di supervisione sulle fortezze del territorio pisano; nel 1415 fece parte della commissione incaricata dell'elezione del capitano del Popolo, uno dei due rettori forestieri di Firenze; dal 5 maggio 1416 per sei mesi fu degli Ufficiali delle castella, che sovrintendevano ai lavori di fortificazione; nel 1417 fu degli Ufficiali delle gabelle.
Il 12 luglio 1418 fu inviato con Pietro Beccanugi in territorio lucchese, ove il capitano di ventura Andrea Fortebracci (detto Braccio da Montone) aveva occupato vari castelli e ne aveva offerto l'acquisto al Comune di Firenze; compito degli oratori era quello di declinare cortesemente l'offerta: Firenze era oltretutto in quel momento alleata con Paolo Guinigi, signore di Lucca, e non sembrava opportuno mettersi in urto con lui; dopo aver incontrato Braccio da Montone, infatti, i due inviati avrebbero dovuto recarsi dallo stesso Guinigi e rinnovargli le espressioni di amicizia del Comune di Firenze.
Negli anni seguenti il G. rivestì il ruolo di giusdicente in alcune città del dominio fiorentino: nel 1418 fu podestà di Arezzo e nel 1422 capitano di Pisa; altri incarichi furono invece svolti all'interno della città: dal 1° apr. 1420 fece parte per sei mesi degli Ufficiali di torre e nello stesso anno fece parte per quattro mesi dei Dodici buonuomini, uno dei due Collegi che affiancavano la Signoria, in rappresentanza del quartiere di S. Spirito.
Il 23 febbr. 1422 partì per un'altra missione diplomatica, che lo portò a Forlì, in occasione della morte di Giorgio Ordelaffi, signore della città, che aveva lasciato un figlio minorenne sotto la tutela della vedova Lucrezia Alidosi e sotto la protezione di Filippo Maria Visconti, duca di Milano; il compito del G., oltre che porgere le condoglianze di circostanza, era quello di cercare di controbilanciare l'influenza milanese, offrendo l'alleanza e la protezione di Firenze. Nel settembre dell'anno successivo tornò in Romagna, inviato, con Giuliano Davanzati, presso Carlo Malatesta da Rimini, mediatore della lega che si andava trattando in quel periodo tra Firenze e il legato di Bologna.
Il 30 nov. 1424 fu eletto membro degli offertores pascalis Nativitatis, la commissione incaricata di scegliere i carcerati da liberare in occasione del Natale; nel 1424 fu capitano di Pistoia; nel 1425 vicario di San Giovanni Valdarno; nello stesso anno, dal 16 agosto, fu governatore della Gabella del vino; nel 1426 fu degli Ufficiali dell'onestà e podestà di Fucecchio; nel 1427 fece parte dei Sedici gonfalonieri, il secondo dei Collegi che coadiuvavano la Signoria.
Nel 1427 fu membro dei Dieci di balia, magistratura che sovrintendeva alla politica estera e alle operazioni militari, e in quell'ambito fu eletto dai colleghi commissario in campo per recarsi in Lombardia, a quel tempo teatro delle operazioni militari della coalizione antiviscontea, al comando di Gianfrancesco Gonzaga, marchese di Mantova. In questa veste il G. fu presente alla vittoria di Maclodio dell'11 ott. 1427 e nell'ambito delle manifestazioni di giubilo per questa vittoria fu creato cavaliere dal Gonzaga, dignità che comportava l'adozione dell'appellativo di "messer" (dominus).
Al ritorno a Firenze, il 28 dicembre, fu festeggiato dai suoi concittadini: ricevette in dono le insegne del Popolo fiorentino e fu indetta una giostra in suo onore.
Questo successo militare, cui egli aveva contribuito solo indirettamente, lo rese molto popolare, ma la sua carriera politica non sembrò risentirne concretamente, tanto che nel 1428 fu scrutinato per gonfaloniere di Giustizia ma non raggiunse il numero di voti sufficienti e continuò con la sequela di incarichi minori: nel 1429 fu vicario della Val d'Elsa per sei mesi e dal 7 genn. 1429 uno dei Maestri alle porte.
Probabilmente la delusione per l'esito sfavorevole della sua candidatura contribuì ad allontanarlo dall'orbita della famiglia de' Medici, in cui sembra che prima di allora avesse gravitato: in data 28 giugno 1427, quando ancora si trovava in Lombardia come commissario militare, egli aveva infatti inviato una lettera da Casalmaggiore ad Averardo de' Medici, chiedendo i suoi buoni uffici per ricevere un trattamento favorevole in occasione della prossima imposizione del catasto; la lettera, pur improntata alla massima confidenza e cordialità, lascia trapelare un certo risentimento del G. nei confronti dei Medici, accusati di non curarsi abbastanza degli interessi degli amici. In questo periodo si giunse infatti a una polarizzazione della lotta politica, che sfociò nella spaccatura della classe dirigente in due schieramenti: quello oligarchico, capeggiato dagli Albizzi, e quello mediceo. Il G., che attorno al 1427 sembrava più vicino ai Medici, negli anni successivi scivolò progressivamente dalla parte dei loro avversari: prova ne sia il fatto che per le sue figlie strinse legami matrimoniali con esponenti di spicco dell'oligarchia antimedicea: Filippo Guadagni per Dianora (o Eleonora), Bernardo Peruzzi per Costanza, Scipione Alberti per Maddalena (o Lena), Iacopo Bischeri per Elisabetta; i rispettivi matrimoni sono tutti collocabili tra il 1429 e il 1434. Molto legato appare il G. a un'altra famiglia leader della fazione albizzesca, i Castellani: fu infatti uno dei tre padrini di Francesco Castellani quando, il 6 sett. 1429, fu armato cavaliere a soli dodici anni, durante le solennità decretate dalla Repubblica fiorentina per i funerali del padre Matteo (morto il 3 settembre, e non il 27, come è indicato da Orvieto e Calvani).
Catalizzatore di questo processo di progressiva rottura di rapporti con i Medici e avvicinamento alla fazione oligarchica fu la guerra contro Lucca, di cui il G. fu suo malgrado uno dei protagonisti principali: questa esperienza condizionò profondamente la sua carriera politica successiva e la sua stessa vicenda esistenziale.
I prodromi di questa guerra, cominciata nel dicembre 1429 e destinata a durare fino all'aprile 1432, vanno ricercati nel grande senso di frustrazione che pervadeva parte della classe dirigente fiorentina dopo la deludente conclusione delle guerre con il Ducato milanese e la volontà di rialzare il prestigio militare della Repubblica; inoltre era diffuso in città anche un generale risentimento antilucchese, in quanto Paolo Guinigi, signore di Lucca, pur proclamandosi amico di Firenze, aveva inviato il proprio figlio, Ladislao, come capitano di ventura al servizio del Visconti.
Il 15 giugno 1430 il G. fu eletto fra i Dieci di balia e dai colleghi fu nominato commissario in campo contro Lucca, con Dino Gucci, che poco dopo morì. Il G., che nelle pratiche riunite in precedenza si era mostrato moderatamente contrario, soprattutto per motivi di prudenza, alla guerra, una volta divenutone responsabile svolse lealmente il suo compito, rispettando scrupolosamente gli ordini, spesso vaghi e contraddittori, ricevuti da Firenze.
Almeno all'inizio il suo operato fu apprezzato, tanto che Giovanni Canigiani, anch'egli membro dell'oligarchia, ebbe a scrivere al comune amico Matteo Strozzi: "si tiene per tutti gli intendenti che [il G.] governi quel champo con tanta prudenza quanta ne fusse mai ghovernato niuno e veramente non potrà avere, se non grande onore" (Kent, p. 258), affermazione che, alla luce degli avvenimenti posteriori, suona inevitabilmente beffarda.
Intanto il Visconti pensò di profittare delle difficoltà di Firenze per assestarle un duro colpo: poiché il trattato di Ferrara non gli consentiva iniziative militari contro Firenze, egli inviò in Toscana il condottiero Francesco Sforza con un forte esercito, fingendo di averlo licenziato dai suoi servizi e con l'apparente scopo di recarsi nel Regno di Napoli; questi ebbe presto ragione dell'esercito dei Fiorentini che assediava Lucca; a quel punto Firenze si offrì di pagare 50.000 fiorini affinché il condottiero si allontanasse dalla Toscana, accordo che fu presto raggiunto, ma senza alcun vantaggio per Firenze in quanto a sostituirlo fu inviato dal Visconti Niccolò Piccinino, anch'egli opportunamente licenziato dai servizi del Visconti. Il G. divenne allora bersaglio di chi a Firenze avversava l'impresa (ed era ormai la maggioranza, dato che le difficoltà, il blocco del Porto Pisano da parte dei Genovesi, le avvisaglie di ribellione delle città soggette a Firenze, come Pisa e Volterra, ma soprattutto la pressione fiscale, avevano indotto molti a cambiare idea).
Si giunse così alla rotta dei Fiorentini sul Serchio il 2 dic. 1430; la città ne fu sconvolta e, non sapendo a chi imputare la sconfitta, trovò bersaglio facile in coloro che l'avevano amministrata. In particolare al G. fu rimproverato di non aver chiuso celermente la guerra al momento della partenza dello Sforza; qualcuno lo accusò perfino di aver intascato una parte del donativo destinato al condottiero e di aver venduto generi alimentari ai nemici. Furono tanto insistenti queste voci, insieme con le denunce anonime, che fu istruito un processo contro il Guicciardini.
A detta di Francesco Guicciardini fu invece il G. che, esasperato dalle accuse, per lo più anonime, pregò la Signoria di far istruire un regolare processo. La battaglia andò avanti per qualche mese: si fece ricorso perfino alla falsa testimonianza (probabilmente comprata) di un certo Migliore di Giunta doganiere, che affermò di aver visto passare un mulo carico di fiorini d'oro di proprietà del G., diretti a Firenze, mentre poi si scoprì che erano soldi dell'ufficiale pagatore dei Dieci di balia. Nonostante l'accanimento dei suoi nemici, prove della sua colpevolezza non furono trovate e il procedimento, che si svolse dall'8 gennaio al 10 febbr. 1431, fu interrotto.
Il G. non fu quindi condannato, ma non ebbe nemmeno il pieno riconoscimento pubblico della sua innocenza. Per salvaguardarsi almeno nei confronti dei familiari e dei posteri egli scrisse un memoriale in sua difesa dove, non prendendo nemmeno in considerazione le accuse di peculato, si difese dalle accuse di natura politica (presunti errori e inettitudine nella conduzione della guerra), citando minuziosamente, come movente del suo modo di agire, lettere e ordini ricevuti da Firenze, documentazione che, come gli atti del processo, è da considerare perduta. L'autoapologia del G. invece è giunta fino a noi, sia pure in forma di frammento, conservata nell'Archivio Guicciardini a Firenze (Accessioni, 1) ed è stata edita, da ultimo, in Antonelli Moriani, pp. 89-129.
Il processo contro il G. era stato di carattere eminentemente politico e non sfociò in alcuna condanna, ma la sua immagine rimase per qualche tempo appannata e la sua carriera politica ne trasse conseguenze negative: poche e di scarsa importanza le cariche da lui rivestite negli anni successivi: dal 28 febbr. 1431 per sei mesi fu membro dei Cinque conservatori; nel 1432 degli Ufficiali delle gabelle; nel marzo 1432 era stato estratto castellano di Buggiano, ma non accettò l'incarico. In seguito si accostò sempre di più alla fazione degli Albizzi e, pur non rivestendo cariche istituzionali, veniva spesso convocato come "richiesto" nei consigli segreti a dare pareri sulle principali questioni. Era membro della pratica che nel settembre 1433 offrì motivo a Rinaldo degli Albizzi di far convocare al palazzo della Signoria Cosimo de' Medici, facendolo poi arrestare e rinchiudere in una stanza dello stesso palazzo.
Il regime messo in atto dopo la condanna all'esilio dei Medici fu dominato dalla personalità di Rinaldo degli Albizzi e il G., che pure ne fu uno dei principali sostenitori, si adoperò per correggerne gli aspetti più arbitrari e per pacificare gli animi e ricucire per quanto possibile lo strappo operato nella classe dirigente dai provvedimenti del settembre 1433. Per esempio, nell'ambito di una pratica riunita il 21 maggio 1434, con Palla Strozzi e Angelo Guicciardini propose di alzare il quorum necessario ad approvare i provvedimenti di esilio.
Come elemento di spicco del regime egli si trovò a rappresentarlo in diverse occasioni: nel giugno 1434 fece parte del comitato di onore inviato a Livorno a ricevere papa Eugenio IV, messo in fuga da Roma dall'inimicizia dei Colonna e diretto a Firenze, ove era destinato a rimanere per un lungo periodo.
Il 1° sett. 1434 entrò in carica una Signoria a maggioranza filomedicea che cominciò a progettare tentativi di rovesciamento del regime albizzesco. Si pensò innanzitutto di convocare il Parlamento per il 29 settembre, ma prima di tale data ci si proponeva di far affluire a Firenze truppe dal contado, per prevenire colpi di mano da parte della fazione antimedicea; ma una fuga di notizie indusse gli albizzeschi ad agire di anticipo e ad assaltare in forze il palazzo della Signoria.
Il giorno stabilito per l'attacco, il 26 settembre, Rinaldo degli Albizzi fece radunare in piazza i suoi sostenitori con i loro armati: anche il G. fu tra coloro che ricevettero l'invito, ma rifiutò di conformarvisi sostenendo di avere un compito più importante da svolgere a casa: trattenere il fratello Piero, alleato dei Medici, dal presentarsi a sua volta in piazza a sostegno dello schieramento opposto.
Il ritorno dei Medici al potere dopo il settembre 1434 non comportò conseguenze negative sul piano personale per il G., salvato da possibili rappresaglie dalla mediazione del fratello Piero, che era anche imparentato con la famiglia dominante; d'altra parte il G. aveva svolto lo stesso ruolo nei confronti di Piero quando nel 1433 era toccato ai Medici andare in esilio.
Con l'avvento dei Medici, tuttavia, la carriera politica del G. giunse definitivamente al tramonto ed egli dopo il settembre 1434 non ricoprì più alcuna carica.
Il G. morì presumibilmente a Firenze verso la fine di aprile del 1435.
Aveva fatto testamento in data 19 apr. 1435 lasciando eredi in parti uguali i quattro figli maschi: Michele, Francesco, Gabriele e Luigi, nati dalla seconda moglie, Lena Albizzi, sposata nel 1414 e premortagli (in precedenza il G. si era sposato nel 1407 con Elisabetta Soderini, da cui aveva avuto almeno un figlio, di nome Niccolò, deceduto a venti anni nel 1430). Per testamento, di cui uno degli esecutori fu il fratello Piero, aveva destinato un lascito alla costruzione di una cappella, intitolata a S. Luigi, nella chiesa del monastero di S. Felicita, contigua alla sua abitazione.
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