Giovanni III
G., originariamente Catelino, era nato a Roma ed era figlio di un senatore romano e governatore provinciale, il cui nome, Anastasio, farebbe pensare a un'origine greca della famiglia.
Alcuni identificano questo pontefice con il suddiacono Giovanni, traduttore del libro VI delle Vitae Patrum (opera greca del V secolo, anonima); la traduzione dell'opera era stata iniziata da Pelagio I. Incerta è anche l'attribuzione allo stesso Catelino dell'Expositum in Heptateuchum.
Dopo la morte di Pelagio, suo predecessore, ci fu una vacanza di quattro mesi e diciassette giorni, in quanto Catelino, eletto papa e assunto il nome di Giovanni III, secondo la procedura imposta dall'imperatore, dovette aspettare che la sua elezione ricevesse l'approvazione di Costantinopoli; quindi, il 17 luglio del 561, fu ufficialmente ordinato.
Dei tredici anni di pontificato di G. si sa ben poco, in quanto si collocano nel confuso e oscuro periodo che va dalla fine della guerra greco-gotica alle prime invasioni longobarde. L'Italia, ritornata sotto l'Impero bizantino dopo i travagli di quella lunga guerra, sembrava godere di un periodo di relativa tranquillità, ma le testimonianze degli storici contemporanei, che riferiscono di frequenti scoppi di ribellioni, inducono a credere che la situazione fosse ancora molto tesa. La situazione interna alla Chiesa risentiva ancora delle divisioni conseguenti allo scisma dei Tre Capitoli. L'imperatore Giustiniano, nel tentativo di trovare un accordo con i monofisiti, aveva pubblicato, nel 544, un editto in cui condannava Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Ibas di Edessa (i "Tre Capitoli"), particolarmente invisi ai monofisiti per i loro rapporti con Nestorio: Teodoro era comunemente considerato l'ispiratore dell'eresiarca, mentre Teodoreto e Ibas erano stati suoi convinti sostenitori. L'allora papa Vigilio, che non approvava affatto la decisione di Giustiniano, era stato costretto con la forza a sottoscrivere la condanna, ma aveva chiesto la convocazione di un concilio ecumenico. In tale concilio, tenutosi a Costantinopoli nel 553, in assenza del papa, la condanna era stata confermata. La reazione della cristianità occidentale fu violenta e le Chiese d'Africa, Illiria e Aquileia si separarono dalla comunione con Roma.
G. si adoperò per cercare di ristabilire la comunione con le Chiese separate da Roma ed ebbe il merito di completare il recupero della Chiesa d'Africa, che in parte si era già riconciliata sotto Pelagio. Il processo di reintegrazione dell'Italia settentrionale fu più lento: alcune lettere di Gregorio Magno testimoniano però che Lorenzo, vescovo di Milano, si recò personalmente a Roma, nel 568, per ristabilire la comunione con il papa e in quest'occasione sottoscrisse la condanna dei Tre Capitoli a nome suo e di tutto il clero milanese. Nello stesso anno G. consacrò Pietro vescovo di Ravenna e gli concesse il pallio, segno della dignità dei metropoliti in comunione con Roma. Questa consacrazione mostra anche l'atteggiamento favorevole del papa nei confronti dell'Impero bizantino; l'elezione di Pietro, infatti, sancisce l'ascesa della città di Ravenna, centro del potere imperiale in Italia. La fonte più dettagliata sugli avvenimenti della vita di G. e sugli eventi più significativi accaduti in Italia durante il suo pontificato è costituita dal Liber pontificalis. Il testo afferma in primo luogo che G. si adoperò per la cura dei cimiteri dei martiri, che avevano risentito di un lungo periodo di abbandono durante la guerra greco-gotica (p. 305: "hic amavit et restauravit coemeteria sanctorum martyrum"); non sembra però che si fosse dedicato a vere e proprie opere di restauro, ma che piuttosto si sia preoccupato di stabilire che le "oblationes", ossia i pani per il sacrificio, le "amulae", i vasi in cui venivano posti acqua e vino per l'eucarestia, e i "luminaria", i ceri per gli uffici domenicali, fossero forniti dalla basilica del Laterano. Gli interventi del pontefice, in continuità con quelli promossi dal suo predecessore Vigilio, sembrano quindi essere finalizzati soprattutto alla riorganizzazione della liturgia eucaristica domenicale nelle basiliche cimiteriali. Si occupò inoltre del completamento della costruzione della chiesa dedicata agli apostoli Filippo e Giacomo sulla via Lata, oggi detta dei SS. Apostoli, iniziata dal suo predecessore Pelagio, di cui si conserva il testo di tre iscrizioni ancora visibili alla metà del Quattrocento. Le iscrizioni collocate rispettivamente sull'architrave della porta maggiore e nell'abside ricordavano l'opera iniziata da Pelagio e completata da G. (Inscriptiones Christianae urbis Romae, II, p. 139, nr. 27; p. 65, nr. 18); la terza epigrafe, di cui non si può accertare il luogo di conservazione originario, ricordava il nome di G. che "hoc opus excoluit" (ibid., p. 248, nrr. 14-15). Alcuni studiosi hanno proposto di identificare la chiesa dei SS. Apostoli con la basilica fondata da papa Giulio I "iuxta forum Traiani" (Le Liber pontificalis, p. 9; v. Lexicon Topographicum).
Il Liber pontificalis dedica poi ampio spazio alla notizia, per la quale costituisce l'unica testimonianza, relativa a un episodio intercorso tra G. e il generale Narsete. Questi, esarca di Giustiniano e valoroso stratega, si era distinto per l'abilità militare nella riconquista dell'Italia e per le sconfitte inflitte agli Ostrogoti. Aveva dovuto inoltre far fronte alla ribellione di Sindual, suo "magister militum", che aveva domato con successo, e aveva infine scongiurato le invasioni dei Franchi guidati da Amingo e Buccellino (ma qui l'autore commette un errore cronologico in quanto le invasioni cui allude sono precedenti al pontificato di G., risalendo infatti al 555, quando era papa Vigilio). Il Liber pontificalis osserva che l'Italia, sotto il governo del generale bizantino, godeva di un periodo di ritrovata prosperità ("erat tota Italia gaudens"); a questa affermazione fa eco la notizia di Prospero di Aquitania che conferma: "Il patrizio Narsete riportò l'Italia sotto l'impero romano, ricostruì le città distrutte e espulse i Goti, ricondusse alla felicità i popoli di tutta l'Italia". I Romani però si lamentarono presso l'imperatore del malgoverno di Narsete e dichiararono che, da quando erano stati posti sotto il potere di questo, rimpiangevano il dominio dei Goti che sembrava loro preferibile rispetto alla durezza di quello greco. Minacciarono quindi l'imperatore di secessione se non avesse sostituito l'esarca. Il Liber pontificalis identifica l'interlocutore dei Romani con Giustiniano; in realtà era Giustino II il destinatario delle lamentele, come indicano tutte le altre fonti. Colpito da questa accusa, Giustino richiamò Narsete in patria. Il Liber pontificalis prosegue descrivendo la reazione sdegnata del generale che non obbedendo al richiamo dell'imperatore si ritirò in Campania e incitò i Longobardi a invadere l'Italia. A questo punto intervenne nella vicenda G., che si recò a Napoli per pregare Narsete di far ritorno a Roma dove era necessaria la sua capacità strategica per la difesa della città.
Narsete quindi tornò a Roma convinto dal papa, il quale però ritenne opportuno non rientrare in città, ma si stabilì nel cimitero di Pretestato, presso la via Appia, a poche miglia dal Laterano, ma fuori le mura, continuando da lì a svolgere le sue mansioni di pontefice. La presenza di strutture residenziali nell'area subdiale del cimitero di Pretestato è solo ipotizzabile, dato che non è stato individuato alcun resto monumentale con questa funzione.
L'esarca bizantino morì a Roma molti anni dopo e fu celebrato con grandi onori. Il racconto delle sue gesta si conclude con la notizia della solenne traslazione della sua salma, posta in un sacello di bronzo, a Costantinopoli. L'episodio riportato dal Liber pontificalis rivela chiaramente i buoni rapporti tra G. e l'Impero bizantino, che probabilmente non dovevano essere graditi al popolo romano. Molto indicativa in proposito appare la decisione di G. di trattenersi nel cimitero di Pretestato: il papa trovava difficoltà nel reinsediarsi a Roma in seguito alla riconciliazione con Narsete, perché probabilmente i Romani avevano manifestato il loro disappunto verso l'atteggiamento filobizantino del pontefice.
Per quanto riguarda la vicenda di G. con Narsete, il Liber pontificalis è l'unica fonte a documentare uno stretto contatto tra i due personaggi: le altre fonti, pur testimoniando il contrasto tra Narsete e l'imperatore, non alludono affatto a un intervento del papa in suo favore. Due cronisti contemporanei confermano la destituzione di Narsete ordinata dall'imperatore, ma non forniscono particolari né sulle motivazioni né sulle conseguenze: Mario d'Avenches, infatti, afferma semplicemente che il generale "fu rimosso dall'Italia da Augusto", mentre la seconda fonte, da cui dipende il Liber pontificalis di Agnello di Ravenna, dichiara che "nel terzo anno dell'impero di Giustino II [568] il patrizio Narsete, richiamato da Ravenna, lasciò l'Italia portando con sé molte ricchezze".
La tradizione del Liber pontificalis si ritrova nei Chronica maiora di Beda e nell'Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Beda corregge il nome dell'imperatore Giustiniano con quello di Giustino II, per il resto riproduce molto sinteticamente la fonte omettendo però l'intervento di G.: afferma che la denuncia dei Romani fu causata dalla loro invidia verso Narsete e che quest'ultimo, per vendetta, chiamò i Longobardi a prendere possesso dell'Italia. Conferma infine il dato sull'edificazione della chiesa dedicata agli apostoli Filippo e Giacomo (Chronica maiora, ad a. 578). Sulla scia di Beda si colloca Paolo Diacono che sembra attingere però anche ad altre fonti. Lo storico ravvisa il movente della denuncia dei Romani nell'invidia suscitata dai brillanti successi ottenuti dal generale e dalle molte ricchezze da lui accumulate ("Narsete incorse nell'invidia dei Romani poiché aveva acquisito molto oro e argento e altre ricchezze", Historia Langobardorum II, 5). La formulazione della denuncia e la reazione di Narsete riprendono quasi alla lettera il Liber pontificalis, ma Paolo non accenna affatto al ruolo sostenuto da G. nella vicenda; corregge, come Beda, il nome di Giustiniano in quello di Giustino II. Cita inoltre un contrasto avvenuto tra Narsete e l'imperatrice Sofia che si trova documentato per la prima volta nell'Historia Francorum Epitomata di Fredegario. La tradizione di cui il Liber pontificalis costituisce l'unica testimonianza, quella cioè che narra il ritiro in Campania di Narsete e il suo rientro a Roma, ricompare negli Excerpta Sangallensia con qualche variante che consente una ben diversa interpretazione dell'episodio da quella suggerita dal Liber pontificalis: si dice infatti che Narsete, partito da Napoli, irruppe a Roma dove distrusse la statua dell'imperatore.
Questa breve nota modifica l'interpretazione, forse edulcorata, degli eventi prospettata dal Liber pontificalis. Il ritorno di Narsete a Roma appare, piuttosto che un atto di accondiscendenza nei confronti delle suppliche del papa, un'azione vendicativa contro l'imperatore e contro il popolo romano ingrato e traditore. Quanto al tradimento di Narsete che consegna l'Italia nelle mani dei Longobardi la questione è molto dibattuta.
C. Baronio, negli Annales ecclesiastici, commentando le notizie di Paolo Diacono e del Liber pontificalis, sostiene che il richiamo di Narsete a Costantinopoli da parte dell'imperatore e il suo conseguente tradimento dell'Italia sia un dato privo di fondamento storico. Il Carmen in laude Iustini minoris, scritto dal grammatico africano Corippo per l'ascesa del nuovo imperatore, allude ad un personaggio di nome Narsete che si deduce essere presente a Costantinopoli in quel frangente. In base a questa testimonianza Baronio reputa improbabile l'ipotesi che Narsete, una volta tornato a Costantinopoli e sostituito nell'esarcato da Longino, si fosse recato l'anno seguente in Italia, senza alcuna carica ufficiale, e avesse compiuto le azioni narrate dalle fonti prese in considerazione. D'altro canto A. Pagi, nella nota critica al passo di Baronio (Annales ecclesiastici), fa notare che, nel periodo in questione, sarebbero coesistiti ben tre personaggi di nome Narsete che si imposero per la loro fama. Uno di questi sarebbe appunto quello citato nel carme di Corippo, ma i pochi dati deducibili caratterizzanti la sua persona non consentono di identificarlo con l'esarca di Giustiniano. L.A. Muratori, nella sua edizione dell'Historia Langobardorum, concorda con l'opinione di Pagi.
Il nome di G. compare anche in relazione a un episodio che vede protagonisti due vescovi della Gallia, Salonio d'Embrun e Sagittario di Gap. I due prelati, formatisi sotto la guida del metropolita Niceta, ottenuta l'ordinazione vescovile avevano cominciato a comportarsi in modo violento commettendo ogni sorta di prevaricazione e delitto a danno del popolo. Una sommossa popolare aveva indotto il re Gontram a riunire, con l'appoggio di Niceta, un sinodo a Lione, nel 567, in cui i due vescovi erano stati deposti. Essi però, confidando nel fatto che il re non si era mostrato del tutto ostile nei loro confronti, gli chiesero e ottennero il permesso di appellarsi al papa affinché la loro destituzione venisse revocata. Il re acconsentì che si recassero a Roma e inviò al papa delle lettere in loro favore. G., lasciatosi persuadere dalle loro dichiarazioni di innocenza, ne ordinò la riabilitazione attraverso un'epistola ufficiale. In seguito però, poiché i due vescovi continuavano a tenere una condotta disdicevole, vennero definitivamente deposti da un nuovo sinodo convocato da Gontram nel 579 a Chalon-sur-Saône: il re ordinò che fossero rinchiusi in un monastero e che venisse loro vietato qualsiasi contatto con l'esterno. Si ricava da Gregorio di Tours che neanche questa misura fu efficace per il loro ravvedimento. G. morì il 13 luglio del 574 e fu sepolto in S. Pietro, forse nel corridoio di accesso al "secretarium" come testimonia Maffeo Vegio, anche se Pietro Mallio, nella descrizione della basilica, non ne riporta la collocazione.
fonti e bibliografia
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