Giovanni IV
Sappiamo che era originario della Dalmazia. Suo padre Venanzio aveva fatto parte dell'amministrazione bizantina; il biografo di G. infatti lo definisce "scholasticus", ossia un funzionario che aiutava l'esarca soprattutto in materia di diritto. Questo particolare fa ipotizzare che l'esarca Isacio avesse influenzato l'elezione pontificia dell'arcidiacono G., avvenuta nell'agosto 640 (fu poi consacrato il 24 dicembre successivo) auspicando che il figlio di un funzionario bizantino si dimostrasse malleabile di fronte alla spinosa questione riguardante il monotelismo. G. però non si dimostrò compiacente nei confronti della corte imperiale; infatti, nel gennaio 641, organizzò un sinodo nel quale si stabilì che il monotelismo era un'eresia. L'assenza di una esplicita condanna contro i fautori di questa dottrina tuttavia fece sì che non si giungesse alla rottura aperta con Costantinopoli.
G. fu indotto a rimanere fermo nel suo atteggiamento dal fatto che, poco prima di morire (11 febbraio 641), l'imperatore Eraclio, il quale aveva promulgato l'Ecthèsis più per motivi politici che per sue convinzioni religiose, gli scrisse una lettera - di essa disponiamo solamente di un frammento citato negli atti del processo di s. Massimo il Confessore (teologo e mistico bizantino: ca. 580-662) - nella quale il sovrano affermava: "L'Ecthèsis non è mia. Io non l'ho pubblicata e non ho mai ordinato che lo fosse. Ma Sergio [patriarca di Costantinopoli: 610-638], il quale l'aveva scritta cinque anni prima del mio ritorno dall'Anatolia, mi pregò, fin dal mio arrivo in questa città santa in tutto, di firmarla e io acconsentii alla sua richiesta. Ora, avendo constatato che essa è stata oggetto di dispute per alcuni, faccio sapere a tutti che non è mia". Al brano Massimo il Confessore aggiunse: "Ecco l'editto che egli inviò al santo papa Giovanni per condannare l'Ecthèsis".
Non abbiamo il testo dell'editto e non si è sicuri che l'imperatore Eraclio l'avesse realmente inviato, però recentemente è stato trovato in un manoscritto del IX-X secolo un frammento nel quale si afferma che è una copia dell'editto di Eraclio inviato a papa Giovanni IV. In esso l'imperatore, per sottolineare la sua ortodossia, fa riferimento ad un'iscrizione che alcuni anni prima aveva posto sotto un'icona di Cristo. Il tono del frammento indica chiaramente che il sovrano si era pentito del suo provvedimento; solo la sua morte impedì che si giungesse ad una completa soluzione del problema. La grave crisi che stava attraversando l'Impero, scosso dalla lotta tra gli eredi di Eraclio e dalla definitiva perdita ad opera dei musulmani di gran parte delle province orientali dell'Impero, spinse G. a non retrocedere dalle sue convinzioni. In occasione della presa di posizione del nuovo patriarca di Costantinopoli Pirro (638-641), il quale, per fare approvare l'editto in Occidente, sostenne che papa Onorio l'aveva accettato, G. scrisse una lunga lettera all'imperatore Costantino III (febbraio-marzo 641), nella quale sottolineò che tutto l'Occidente era rimasto scandalizzato e turbato a causa dell'interpretazione che Pirro aveva dato degli scritti di Onorio, che non aveva sostenuto tesi che potessero giustificare il monotelismo. G., rimarcando la sua disapprovazione per il fatto che un suo predecessore fosse stato accostato a simili posizioni, affermò che, se Onorio aveva menzionato l'esistenza di un'unica volontà presente in Cristo, l'aveva fatto riferendosi solamente alla sua volontà umana, che credeva non fosse preda dei conflitti di solito presenti negli uomini a causa del peccato originale. Il papa inoltre chiese che l'Ecthèsis fosse tolta da tutti i luoghi nei quali era stata esposta e che fosse distrutta. La risposta conciliante che ricevette, in linea con le posizioni del patriarca Paolo II (641-653), che aveva sostituito l'intransigente Pirro, costretto ad abbandonare la sua carica e a fuggire nell'Africa settentrionale, rileva che, ormai, alla corte imperiale si era orientati verso il dialogo.
L'intransigenza di G. di fronte alle questioni dottrinali è rilevata pure da una lettera inviata al clero irlandese durante il periodo precedente la sua consacrazione e successivo alla sua elezione, nella quale si rispondeva a quesiti indirizzati a papa Severino, morto nel frattempo. Gli ecclesiastici di quell'isola erano severamente ammoniti - nella lettera il vocabolo "eresia" è utilizzato numerose volte - a non celebrare più la Pasqua nel medesimo giorno di quella ebraica e quindi ad attenersi all'uso romano. Il clero irlandese era inoltre invitato ad abbandonare alcune posizioni vicine al pelagianesimo, dottrina condannata dalla Chiesa da oltre duecento anni; in particolar modo si faceva loro osservare che era "blasfemo" e "stolto" sostenere che gli uomini erano nati senza il peccato originale (da notare che la lettera agli Irlandesi risulta inviata, nell'ordine, dall'arciprete Ilario "servans locum sanctae sedis apostolicae", dal nostro G. "in Dei nomine electus", da un secondo Giovanni primicerio, anch'egli "servans locum sanctae sedis apostolicae", e da un terzo Giovanni "consiliarius" della medesima sede).
G. non dimenticò mai la sua terra d'origine, dove inviò l'abate Martino con una ingente somma di denaro destinata alla liberazione dei suoi compatrioti fatti prigionieri dagli Slavi e dagli Avari. Lo stesso Martino portò dalla Dalmazia e dall'Istria le reliquie dei santi Venanzio, Anastasio, Mauro e di molti altri, che G. fece porre in una cappella fatta erigere nell'angolo fra il vestibolo del battistero costantiniano e l'oratorio di S. Giovanni Evangelista, e dedicata a s. Venanzio - probabilmente a lui caro anche perché aveva lo stesso nome di suo padre -, e che fece decorare con un mosaico e arricchire con molti oggetti preziosi. Durante il suo pontificato G. ordinò diciotto vescovi, diciotto presbiteri e cinque diaconi. Morì il 12 ottobre 642 e fu sepolto in S. Pietro.
fonti e bibliografia
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