Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Keplero è noto innanzitutto per i suoi innovativi studi dei moti planetari e per le tre leggi che portano il suo nome. Egli dà fondamento dinamico allo studio dei moti dei corpi celesti. Alla base delle sue ricerche vi è l’idea, di origine platonica, che l’intero cosmo e i moti planetari siano espressione di una struttura matematica e di rapporti armonici impressi dal Creatore all’universo. Keplero è fermo assertore di una concezione del cosmo che individua nel Sole l’origine di una forza motrice in virtù della quale i pianeti sono trattenuti nelle loro orbite.
A Tubinga il giovane Keplero studia astronomia sotto la guida di Michael Maestlin (1550-1631), che lo introduce allo studio dell’opera di Copernico. Intraprende quindi studi di teologia, che abbandona quando (nel 1594) è nominato professore di matematica a Graz. Come la maggior parte degli astronomi del tempo, Keplero si dedica all’astrologia, produce oroscopi e almanacchi. I suoi studi di astrologia si fondano sull’idea che Dio interviene nell’universo con segni, quali comete o nuove stelle, i quali però sono – a suo avviso – di difficile interpretazione e richiedono un attento esame delle Sacre Scritture. La prima opera di Keplero è il Mysterium cosmographicum (1596), che si apre con una lunga difesa del sistema copernicano. In quest’opera Keplero esprime la convinzione (che non abbandonerà mai) di una corrispondenza tra il Cosmo e la Trinità. Il Cosmo, al cui centro è il Sole, è sferico ed è espressione della Trinità: il centro è Dio Padre, la circonferenza o sfera delle stelle fisse è il Figlio e gli spazi intermedi, riempiti dall’aura celeste, lo Spirito Santo. Convinto che l’universo sia stato creato da Dio secondo un preciso ordine geometrico, Keplero vuole individuare la ragione del numero dei pianeti e della dimensione delle loro orbite. Quest’ultima è data, secondo Keplero, dalla relazione tra le sfere planetarie e i cinque solidi regolari. Ciascun solido regolare definisce il rapporto tra il raggio di una sfera e quella successiva, cosicché si hanno valori che sono in accordo con le distanze dal Sole, valori che Copernico aveva ottenuto con l’osservazione dei pianeti. Ma la corrispondenza stabilita da Copernico non era perfetta (soprattutto nel caso di Giove) e Keplero ritiene di ottenerne una migliore riferendo le orbite dei pianeti al centro del Sole e non, come aveva fatto Copernico, al centro dell’orbita terrestre.
Dopo che Tycho aveva abolito le sfere celesti, rimaneva aperta la questione della causa dei moti planetari: è questo uno dei motivi centrali delle ricerche di Keplero, che in un primo tempo la individua in un’anima motrice situata nel Sole. Keplero ricerca una relazione tra distanze dei pianeti dal Sole e i loro periodi. Nel sistema di Copernico (ma non in quello di Tolomeo) a distanze maggiori corrispondono periodi maggiori. Ma i tempi non sono proporzionali alle orbite. Ciò accadrebbe se le velocità orbitali dei pianeti (e le forze che li muovono) fossero uguali. Con l’allontanamento dal Sole non variano solo le distanze percorse, ma anche le velocità con cui sono percorse. Keplero ritiene che i moti planetari siano dovuti all’azione di un’anima motrice, situata nel Sole, che diminuisce con la distanza.
Nel 1600 Keplero raggiunge Tycho, che da poco si era stabilito alla corte dell’imperatore Rodolfo II a Praga, e lavora inizialmente come suo assistente; successivamente, dopo la morte dell’astronomo danese (1601), diviene matematico imperiale. Tycho assegna a Keplero tre compiti: 1. la determinazione dell’orbita di Marte; 2. l’elaborazione di nuove tavole astronomiche, le Tavole Rudolfine, che avrebbero dovuto sostituire quelle Pruteniche; 3. la stesura di un trattato contro l’astronomo e matematico imperiale Nicolaus Raimarus Ursus (1551-1600), con il quale Tycho aveva avuto un duro scontro sulla priorità nella formulazione del sistema geo-eliocentrico. Keplero scrive l’ Apologia pro Tychone contra Ursum, ma non la dà alle stampe. In quest’opera scritta in difesa del maestro Keplero critica coloro che, come Ursus, separano l’astronomia matematica – il cui scopo sarebbe solo di salvare i fenomeni – dalla filosofia naturale.
Tra i compiti del matematico imperiale vi è anche quello di fornire pronostici in relazione a particolari eventi astronomici. Ciò è richiesto a Keplero nel 1603, in occasione della congiunzione di Giove e Saturno, e nell’ottobre del 1604, quando appare un stella nuova, che Keplero interpreta come segno di straordinari cambiamenti. Nel De stella nova (1606), l’astronomo tedesco sostiene che la nuova stella ha uno speciale significato escatologico: essa preannuncerebbe la conversione degli indiani d’America, degli Ebrei e dei Turchi alla religione cristiana, e anche il ritorno di Cristo. In appendice al De stella nova Keplero pubblica un trattato di cronologia, nel quale, basandosi su dati astronomici, anticipa al 5 a.C. la nascita di Gesù Cristo.
In questi anni, i suoi studi sono dedicati ai moti di Marte, esaminati con l’ausilio delle osservazioni condotte da Tycho. A partire dalla determinazione dell’orbita di Marte, Keplero perviene a risultati destinati a mutare le basi stesse dell’astronomia: la scomparsa del moto circolare uniforme e la sua sostituzione con un moto variabile lungo un’orbita ellittica.
Nel 1607 Keplero porta a termine l’ Astronomia nova, che vedrà la luce due anni dopo. Il titolo dell’opera mostra chiaramente l’approccio di Keplero allo studio dei corpi celesti: Astronomia nuova, fondata sulle cause, ovvero fisica celeste, esposta nei commentari sui moti della stella Marte. Keplero dimostra che il punto cui devono essere rapportati gli orbi dei pianeti è il centro del corpo del Sole. È infatti convinto che i moti planetari abbiano origine in un corpo reale, fisico, non in un punto geometrico qualsiasi in prossimità del Sole. Afferma inoltre che, poiché i pianeti si muovono tanto più lentamente quanto sono più distanti dal Sole, il moto di ogni singolo pianeta nella propria orbita deve seguire la stessa regola. Ciò conduce al superamento di una nozione centrale nell’astronomia di Copernico: l’uniformità dei moti planetari.
La sostituzione delle orbite circolari con l’ellisse costituisce una fondamentale innovazione nell’astronomia del tempo, in quanto nessuno aveva messo in discussione la circolarità dei moti celesti. L’astronomo tedesco vi giunge dopo un accurato studio dell’orbita di Marte, più volte interrotto dalle ricerche sulla causa dei moti planetari. Basandosi sulle osservazioni condotte da Tycho, Keplero esamina la spinosa questione: cerca di render conto della apparente irregolarità dell’orbita supponendo che sia circolare, ma il risultato ottenuto lo spinge ad abbandonare il cerchio e a cercare nuove soluzioni. Dopo aver stabilito che anche la Terra, come gli altri pianeti, si muove di un moto non uniforme, Keplero interrompe per un certo tempo l’esame dell’orbita di Marte e si dedica allo studio delle cause de moti dei pianeti, giungendo alla cosiddetta seconda legge (o legge delle aree), che precede in realtà la cosiddetta prima legge (il moto dei pianeti descrive un’ellisse). Keplero ha stabilito che la velocità di ciascun pianeta nella sua orbita è inversamente proporzionale alla sua distanza dal Sole. Ciò si piega con una variazione della forza motrice che risiede nel Sole. La definizione di questa forza avviene in analogia con altre forze meglio note. Basandosi sull’opera di Gilbert (De magnete, 1600), interpreta la forza che ha origine nel Sole come forza magnetica o simile al magnetismo. Quanto ai pianeti, essi hanno un’inerzia, o resistenza al moto, che è proporzionale alla loro mole. Keplero può quindi affermare che i moti planetari sono determinati sia dalla forza motrice che agisce su di essi, sia dalla loro mole (grandezza e densità). La virtù motrice è tale in quanto il Sole, che ne è la sorgente, è dotato di moto di rotazione, che inizialmente Keplero suppone che sia di circa tre giorni, ma dopo la scoperta galileiana delle macchie solari lo porterà a 25 giorni. Nell’ Astronomia nova la virtù motrice non è attrattiva ma trascina i pianeti, mentre nelle opere successive Keplero sostiene che il Sole li attrae e li respinge. Le indagini sulla forza motrice sono strettamente legate a quelle geometriche relative alle orbite dei pianeti, questione su cui Keplero non ha ancora raggiunto i risultati sperati. Riprende quindi l’esame dell’orbita di Marte e perviene a una nuova conclusione: la traiettoria di Marte non è circolare, ma è un ovale. Keplero stabilisce rapporti tra le aree, che sono grandezze finite e i tempi impiegati per descriverle. Poiché l’area descritta dalla linea che connette il pianeta al Sole è proporzionale al tempo richiesto dal pianeta per portarsi da un punto all’altro dell’orbita, ad aree uguali corrispondono tempi uguali e viceversa. Questa proprietà del moto dei pianeti sarà poi nota come la seconda legge di Keplero, o legge delle aree, che però nell’ Astronomia nova non ha il ruolo di particolare rilievo che invece assumerà nell’ Epitome astronomiae copernicanae (1618-21). Keplero prosegue quindi lo studio dell’orbita di Marte, ma è insoddisfatto della soluzione trovata – l’ovale – in quanto da un lato è una curva difficile da trattare matematicamente, dall’altro i moti calcolati sulla base di questa ipotesi non si accordano con i dati osservativi. Per Marte il migliore accordo si ha invece applicando la legge delle aree a un’orbita ellittica. Dopo aver considerato per qualche tempo l’ellisse una semplice ipotesi di lavoro, un mero strumento di calcolo, Keplero comprende che solo l’ellisse con il Sole in uno dei fuochi rende conto dei dati di osservazione e della legge delle aree.
Dopo la morte dell’imperatore Rodolfo II (1612), Keplero si trasferisce a Linz, dove risiede fino al 1626. Qui pubblica nel 1619 l’Harmonice mundi, in cui sviluppa i temi del Mysterium cosmographicum, e l’Epitome astronomiae Copernicanae, una sintesi del suo pensiero astronomico, esposta in forma di domande e risposte. Nell’Harmonice mundi Keplero cerca di comporre un’immagine unitaria del cosmo, basata su rapporti geometrici e armonici. Stabilendo una corrispondenza tra suoni e movimenti, associa a ogni pianeta un tono. È inoltre convinto che, per comprendere l’armonia del cosmo, sia necessario conoscere i rapporti tra distanze e velocità (o periodi) dei pianeti. Dopo molti tentativi di stabilire una relazione tra periodi e distanze dei pianeti dal Sole, Keplero trova che la relazione è espressa da quella che poi divenne la terza legge, che, in termini moderni, stabilisce che i quadrati dei periodi dei pianeti stanno tra loro come i cubi delle loro distanze medie dal Sole (T2/R3=K). Questa legge ha un ruolo secondario in un’opera il cui intento principale è confrontare i rapporti astronomici, geometrici e armonici al fine di rendere manifesta l’armonia del cosmo. La terza legge, così come altri aspetti dell’astronomia e cosmologia kepleriana, riceve una trattazione sistematica nell’ Epitome. In quest’opera Keplero definisce con maggior precisione le caratteristiche della forza che ha origine nel Sole e che fa ruotare i pianeti intorno a esso. Il moto del Sole intorno al suo asse, così come quello dei pianeti intorno ai propri assi, è a suo avviso causato da un’anima. Keplero non dubita che anche la Terra sia dotata di un’anima, come è provato dal calore sotterraneo, nonché dalla continua produzione di minerali e di animali inferiori (generazione spontanea di mosche insetti ecc.). Dunque è il Sole che con il suo moto di rotazione irradia la virtù motrice e produce i moti orbitali dei pianeti.
Nell’ Epitome, Keplero precisa la nozione di massa o quantità di materia dei pianeti, definendola come il prodotto della loro densità per il loro volume. Ritiene inoltre che le masse dei pianeti possano essere determinate in rapporto alle loro distanze dal Sole e che i pianeti più vicini siano anche più densi. Keplero, la cui concezione geometrica e armonica dell’universo lo porta a rifiutare l’universo infinito di Bruno, sostiene che le stelle fisse sono tutte situate alla stessa distanza dal Sole, ma il suo cosmo, benché finito e racchiuso dalla sfera delle fisse, è molto più ampio di quello di Tycho; la distanza delle stelle dal Sole è infatti pari a circa 60 milioni di semidiametri terrestri. L’interno della sfera è pieno di etere, nel quale si muovono i pianeti; a volte l’etere si condensa, così da formare le comete.
I seguaci di Keplero sono pochi e quasi sempre la loro adesione è limitata ad aspetti parziali, non a tutta l’opera kepleriana. Tuttavia, le Tavole Rudolfine, pubblicate da Keplero nel 1627, che predicono con successo il transito di Mercurio davanti al disco del Sole nel 1631 conferiscono prestigio all’opera di Keplero.
Nel 1634 esce postumo il Somnium, un’opera che Keplero aveva cominciato a scrivere nel 1609 e alla quale aveva lavorato negli anni successivi senza però decidersi a pubblicarla. È un immaginario viaggio sulla Luna, uno dei primi scritti sull’argomento, che di lì a poco sarebbe diventato un vero e proprio genere letterario. Il Somnium è innanzitutto un’opera di divulgazione, in cui si offre al lettore la possibilità di una diversa visione dei fenomeni celesti osservati da un punto di vista differente rispetto alla Terra.
Le indagini kepleriane sulla luce muovono da considerazioni di carattere metafisico (la luce costituisce il principio vitale diffuso in tutto il cosmo) e si sviluppano lungo due linee: ottica geometrica e teoria della visione. In Ad Vitellionem paralipomena (1604) Keplero afferma che la luce si diffonde con velocità infinita in sfere concentriche alla sorgente e conclude che, poiché la sfera cresce con il quadrato del raggio, l’intensità della luce diminuisce col quadrato della distanza. Keplero giunge alla conclusione che nella rifrazione il rapporto tra angolo di incidenza (i) e di rifrazione (r) è una costante i /r=k (la legge è valida per angoli non superiori a 30°); spiega inoltre il meccanismo della visione coniugando indagini di ottica geometrica e fisiologia della visione. I corpi esterni consistono in aggregati di punti, ciascuno dei quali emette in tutte le direzioni raggi di estensione indefinita che formano un cono con un punto dell’oggetto come vertice e la pupilla come base. Rifratti dalla cornea e dalla parte interna dell’occhio, i raggi formano un nuovo cono, la cui base è la pupilla (che funge da diaframma) e il cui vertice è un punto sulla retina. Keplero stabilisce un’analogia tra la camera oscura e l’occhio e sostiene che la retina e non il cristallino è l’organo della vista.
Nella Dioptrice (1611) – scritta dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius di Galileo – Keplero si ripropone di definire una teoria in grado di render conto del modo di operare del telescopio ed è tra i primi a trattare in termini matematici delle proprietà ottiche delle lenti. Studia i diversi tipi di lenti: quelle che concentrano i fasci luminosi, ovvero le lenti convesse, usate dai presbiti, e quelle che li fanno divergere, le lenti concave, usate dai miopi.