LA CECILIA, Giovanni
Nacque a Napoli il 27 sett. 1801 da Francesco Paolo, usciere della Gran Corte civile, e da Marianna Vitale. Malgrado la sovrabbondanza di dati autobiografici sparsi nei suoi scritti, poco si conosce della sua giovinezza e quel poco che ne dice egli stesso va preso con le molle. Cresciuto nella Napoli della Restaurazione, in un clima spesso inquinato dalle provocazioni poliziesche, entrò giovanissimo in carboneria; quanto agli studi, dopo aver frequentato la scuola militare si laureò in giurisprudenza e intraprese la professione legale, in cui, dopo un periodo di pratica nello studio di Domenico Colletta, fratello di Pietro, esordiva nel 1823 come difensore, occasionale quanto impacciato, di uno degli accusati per i moti del 1820, il generale M. Carrascosa.
Costretto successivamente all'esilio, il L. cominciò presto a dire e a scrivere, e ripetette per tutta la vita, di aver dovuto pagare prima con il carcere e poi con l'espatrio forzato la propria partecipazione al moto costituzionale del 1820. In realtà ciò che lo aveva costretto a lasciare Napoli fu il coinvolgimento nel 1827 in una congiura organizzata da un generale inglese, per avvicendare sul trono del Regno delle Due Sicilie al legittimo sovrano Francesco I il fratello di costui, Leopoldo, principe di Salerno, noto per il suo austriacantismo.
Rifugiatosi in Toscana, il L., favorito da un carattere estroverso, strinse amicizia a Livorno con F.D. Guerrazzi e C. Bini. La prossimità agli ambienti culturali del Granducato lo motivò nella stesura di un romanzo di nessun pregio, I Sanniti, che dedicò a P. Colletta e pubblicò a Livorno nel 1828. A fianco della letteratura e con ben altra forza lo intrigava il mondo della cospirazione: qui la grande occasione gli capitò nel 1829, quando conobbe G. Mazzini, sceso a Livorno per incontrare Guerrazzi e collaborare al lancio dell'Indicatore livornese, periodico sul quale anche il L. pubblicò i suoi primi articoli. Da allora non vi fu trama nella quale egli non entrasse, in un'alternanza di congiure e di espulsioni che - dopo una mancata partecipazione attiva al tentativo di C. Menotti e una più oscura presenza in una congiura ordita a Lucca per trasformare il duca Carlo Ludovico di Borbone in sovrano costituzionale - alla fine lo portò in Corsica. Ormai era inserito a pieno nelle reti carbonare che proprio in Corsica avevano, tra gli ex seguaci di Napoleone, uno dei loro maggiori punti di forza, ravvivato per di più dai fermenti del 1830. Dopo aver contribuito al reclutamento di altri adepti, all'inizio del 1831 il L. passò in Francia per lavorare, d'intesa con F. Buonarroti, a una spedizione armata in Savoia, pensata forse non solo per soccorrere il patriottismo repubblicano italiano, ma anche per annettere la regione alla Francia: bloccato sul nascere a Lione in seguito all'applicazione del principio di non intervento, il tentativo, che aveva nel L. e in C.A. Bianco di Saint-Jorioz i suoi capi militari, fu ripreso in Corsica, dove nel frattempo il L. si era rifugiato con l'idea presto accantonata di effettuare uno sbarco nello Stato pontificio.
Nella seconda metà del 1831 era pure maturato il disegno mazziniano della Giovine Italia, alla quale il L. aderì sin dalla fondazione assumendo il nome di battaglia di Scevola. Se sperava di avere in lui un anello di collegamento con Napoli, Mazzini fu deluso, anche perché la polizia borbonica, per ritorsione verso il L., ne fece arrestare il padre e lo tenne per più mesi in carcere; quanto alla parte avuta dal L. nelle trattative per il raggiungimento dell'accordo di breve durata con Buonarroti e la setta dei Veri Italiani che a lui facevano capo, soprattutto in merito alla stesura di un progetto comune di statuto repubblicano, Mazzini non dovette essere molto soddisfatto del L., se decise di sostituirlo con L.A. Melegari.
In definitiva, dove il L. ebbe un certo peso fu nella redazione della Giovine Italia, la rivista teorica mensile affidatagli verso la metà del 1832, quando cioè Mazzini era più attivamente ricercato: non limitandosi a curare l'uscita dei primi fascicoli, il L. vi pubblicò anche alcuni articoli militanti - uno su Colletta, un secondo sulle vicende di Napoli tra il 1799 e il 1821, un altro, intitolato "Ai sacerdoti", apparso nel III fascicolo, in cui si esortava il clero a coniugare religione e libertà - che Mazzini non sempre apprezzò, come non approvò una certa sua propensione a violare le regole della rigida compartimentazione, chiedendo notizie su questo o quell'affiliato. In verità, l'elemento di maggiore frizione fra i due era piuttosto l'accettazione da parte del L. di alcuni postulati teorici buonarrotiani, quali il principio della dittatura rivoluzionaria, con annesse misure intese a colpire la proprietà privata, e la fede assoluta nell'iniziativa francese che, consolidandosi con il tempo e oscillando tra legame ideale con il napoleonismo e simpatie populiste, accompagnò il L. per tutta la vita, parallelamente a una ostilità pronunciata per il sistema politico e il ruolo in Europa dell'Inghilterra.
Nella tarda primavera del 1833 scoppiò sulla stampa francese il caso dei due italiani internati nel deposito di Rhodez, uccisi qualche mese prima da un loro connazionale, perché ritenuti spie. I giornali pubblicarono allora una sentenza di morte, che si disse firmata da Mazzini e dal L. come suo segretario: i due non tardarono a replicare, ma a scrollar loro di dosso l'accusa di essere i mandanti dell'omicidio non furono tanto le lettere di smentita, quanto la sentenza con cui la magistratura francese individuava il vero colpevole. Era però già cominciata per il L. la sequela dei trasferimenti forzati da una città all'altra della Francia e delle difficoltà materiali, fronteggiate, dopo il matrimonio nel 1832 con una donna di Bastia e la nascita dei primi figli, con mezzi di fortuna quali le lezioni di italiano e i sussidi governativi.
L'altra via che tentò fu quella in cui esordì pubblicando a Tours nel 1834 un volume su La République parthénopéenne. Épisode de l'histoire de la République française, che il ministro F. Guizot fece acquistare in 200 copie e che fruttò al L. anche la nomina a ricercatore della École des chartes e altri piccoli incarichi nel campo della pubblicistica. Quanto al valore del libro, che rivelava nel suo autore non uno storico ma un polemista accanito, soprattutto nei confronti della dinastia borbonica, qui raffigurata come quattro volte spergiura tra il 1799 e il 1820, B. Croce l'avrebbe liquidato come "una compilazione priva di qualsiasi pregio, sia d'informazione sia di giudizio" (Croce, p. 423). All'opposto dei Borboni stava per il L. il modello della rivoluzione popolare, esaltato attraverso la figura di Masaniello, ou la RÉvolution de Naples en 1647 (Paris 1834; trad. it., I-III, Livorno 1848), opera capace, pur nei suoi difetti, di procurargli qualche collaborazione giornalistica e di confermargli la stima e l'amicizia di personaggi come P.-J. Béranger, H.-F.-R. de Lamennais, George Sand, A. Mickiewicz.
Staccatosi temporaneamente da Mazzini, si era intanto intrufolato negli ambienti bonapartisti, i soli che in quel momento potessero soddisfare la sua incontenibile vocazione agli intrighi e il bisogno di denaro: lo affascinava il giovane Luigi Napoleone, con le sue ambizioni di ricostruzione dell'Impero cui il L. pensava si potesse legare il futuro dell'Italia in una prospettiva confusamente repubblicana. Fu reclutato con l'idea che potesse fare insorgere l'Italia centromeridionale e favorire così i piani del Napoleonide. Dopo il fallito Putsch di Strasburgo (1835) il L. dovette tornare alla sua vita di esule, trapiantato nuovamente in Corsica alla fine del 1839 con un incarico di ispettore delle strade tra Ajaccio, Corte e Sartena. L'anno dopo, una società svizzera che aveva ottenuto lo sfruttamento dei boschi gli conferì la propria rappresentanza per l'isola. Apparentemente disinteressato alle vicende italiane, il L. aveva in realtà mantenuto contatti con quella parte della democrazia che faceva capo a N. Fabrizi e alla notizia dei moti romagnoli si era gonfiato di spiriti anticlericali; ciò non toglie che all'avvento di Pio IX anch'egli lo celebrasse come "salvatore d'Italia, rigeneratore della fede cattolica" nell'opuscolo Dell'opinione pubblica in Italia (Parigi 1846) dove, per la prima volta nel L., risuonava pure la nota della delusione verso le aspettative riposte nella Francia di Luigi Filippo, ma dove anche, più notevolmente, la tendenza di fondo era quella a conciliare in nome della nazionalità la predicazione repubblicana con l'auspicata iniziativa bellica dei sovrani.
Nel settembre del 1847 tornò in Italia e nei due anni successivi si mosse come un agitatore di professione, investito del compito di provocare sviluppi rivoluzionari nei vari punti caldi della penisola: la sua motivazione più appariscente fu quella di spingere gli Stati in cui si trovò a operare - Toscana e Regno meridionale - verso una scelta di guerra all'Austria; e però questa sua missione, per così dire mazziniana, fu aperta da un opuscolo, Francia ed Inghilterra nelle riforme italiane (Livorno 1847), che, sollecitatogli da un diplomatico francese, rilanciava il mito della grande nation rispetto all'inaffidabilità della politica inglese. Nel rapporto che ristabilì con Guerrazzi e che per qualche mese fece di Livorno il centro dei moti di piazza, ognuno dei due si servì dell'altro per i propri obiettivi, al L. premendo quello del riarmo toscano per la futura guerra nazionale, a Guerrazzi interessando invece servirsi delle agitazioni per andare al potere.
Inizialmente questa strategia li condusse entrambi alla detenzione a Portoferraio, nell'attesa di un processo per sovversione che la concessione della costituzione toscana nel marzo del 1848 avrebbe annullato restituendo loro la libertà; nella seconda fase, invece, Guerrazzi ottenne la nomina a ministro dell'Interno nel governo Montanelli del 27 ott. 1848, mentre il L., dopo averlo coadiuvato efficacemente scatenando le folle come direttore del Corriere livornese, fu da lui liquidato con un incarico, assegnatogli il 18 nov. 1848 e peraltro mai ricoperto, di segretario della legazione toscana a Roma, che aveva il solo scopo di impedirgli di continuare a fare propaganda per il progetto di Costituente italiana caro a Mazzini.
Tra queste due fasi c'era stato, nel maggio del 1848, l'intermezzo napoletano nel corso del quale, riveduta la città natale, il L. aveva usato la stessa doppiezza: come uomo delle istituzioni, da lui servite nelle vesti di ufficiale della guardia nazionale e di direttore di una divisione del ministero degli Interni, cercò di calmare gli animi; intanto, come cospiratore e come redattore del Nazionale di S. Spaventa, soffiava sul fuoco della passione popolare per spingere il re a partecipare alla guerra che il Piemonte stava conducendo contro l'Austria. Che volesse portare la monarchia borbonica alla crisi lo dimostrò anche come membro della commissione incaricata di redigere il progetto di legge elettorale: dalle larghezze di quel testo partì infatti il dissidio tra Corona e Camera che fu all'origine degli scontri del 15 maggio 1848. Quel giorno il L. aveva ai suoi ordini un battaglione di guardie nazionali con il compito di tutelare l'incolumità dei deputati: invece fu lui che, con un allarme intempestivo, fece alzare le barricate e causò l'eccidio con cui ebbe in pratica fine il regime costituzionale. Nel Cenno storico sugli avvenimenti di Napoli del 15 maggio (Civitavecchia 1848) il L. avrebbe attribuito la svolta reazionaria alle pressioni esercitate su Ferdinando II dai diplomatici inglesi, allo scopo di ottenere il richiamo delle truppe inviate al Nord.
All'inizio del 1849 il L. riprese le sue peregrinazioni, inseguito da una fama non limpidissima di provocatore, ovvero, come lo definiva il plenipotenziario francese a Firenze, di "homme taré" (Le relazioni diplomatiche fra la Francia e il Granducato di Toscana, s. 3, 1848-1860, a cura di A. Saitta, Roma 1959, I, p. 176). Dopo una breve sosta a Genova nei giorni della rivolta antipiemontese, tornò ad Ajaccio, ma vi restò pochi mesi, insofferente dopo la fine della Repubblica Romana di ogni contatto con i Francesi. Essendogli stato rifiutato per il coinvolgimento nell'insurrezione genovese il permesso di soggiorno negli Stati sardi, dovette riparare in Canton Ticino: ebbe un incarico di maestro a Cevio e riprese a narrare il passato recente con un Cenno storico sull'ultima rivoluzione toscana…, Capolago 1851, edito nella collana cattaneana dei "Documenti della Guerra santa d'Italia".
Le sue ricostruzioni, e le varie biografie che compilò per il Panteon dei martiri della libertà italiana, I-II, Torino 1852, erano tutte scritte nella chiave di un'inalterabile adesione all'ideale democratico-repubblicano e dell'odio per i Borboni (si veda l'opuscolo Giustificazioni. Ferdinando II il migliore dei re, Napoli 1851) rinfocolati dalla condanna a morte in contumacia inflittagli il 20 ag. 1853. Anche quando nel 1852 ottenne l'autorizzazione a risiedere in Piemonte, tra la collaborazione alla Voce della libertà, diretta da A. Brofferio, e ciò che scrisse sugli insorti milanesi del 6 febbr. 1853 (Gli ultimi fatti di Milano del 6 febbr. 1853, Torino 1853) si mantenne su quella linea: e però proprio la rievocazione del 6 febbraio gli costò l'espulsione dal Piemonte e un soggiorno clandestino a Torino, dal quale uscì impegnandosi con Cavour a fare un giornalismo e una pubblicistica meno antiministeriali.
Primo frutto di questo mutato atteggiamento furono i due grossi volumi su La Russia e l'Europa occidentale nella questione d'Oriente. Storia contemporanea, militare, aneddotica e geografica della guerra attuale… (Genova-Firenze 1854-55, ma il secondo volume contiene una cronaca del congresso di Parigi del 1856), dove largo spazio era dedicato alla spedizione piemontese in Crimea e tuttavia non mancavano considerazioni pessimistiche sulla politica cavouriana; anche fondando il foglio torinese L'Indipendente (7 dic. 1856) il L. gli dava come punto programmatico prioritario quello dell'"Italia una e indipendente con la casa di Savoia", salvo poi criticare il ministero per la sua debole politica nazionale. L'impressione è che con le sue campagne di stampa il L. avviasse una trattativa per portare sé e la famiglia fuori da quella miseria che gli faceva stilare periodiche domande di sussidio o di impiego al governo e alle organizzazioni degli esuli. Basti dire che nel 1855 la sua firma alla dichiarazione pubblica antimurattiana dei fuorusciti napoletani era stata preceduta dal tentativo di ottenere quattrini dalla legazione napoletana a Torino.
Un momentaneo sollievo economico gli arrivò da una fortunata impresa editoriale: la pubblicazione, a fascicoli a partire dal 1857 e poi in 4 grossi volumi (Palermo 1860-62), della Storia segreta delle famiglie reali, o Misteri della vita intima dei Borboni di Francia, di Spagna, di Napoli e Sicilia e della famiglia Absburg-Lorena d'Austria, che raccolse molti abbonati per il coacervo di pettegolezzi sapientemente offerti al lettore (nuova ed. ridotta, Palermo 1981). L'ispirazione antimonarchica dell'opera gli procurò qualche consenso tra i democratici (Mazzini aveva rotto ogni rapporto con lui, mentre Garibaldi lo trattava con riguardo), ma i doppi e tripli giochi del 1860, quando operò contemporaneamente per i Borboni, per Cavour (che il 16 dic. 1860 lo definirà "un esoso birbante" da impiegare al massimo come spia) e per i Mille (da cui fu arrestato durante una missione in Calabria), ne compromisero definitivamente la fama. Da allora il L. fu sostanzialmente un emarginato, costretto ad arrangiarsi con la versione di opere storiche straniere, con le collaborazioni a fogli napoletani di area autonomista (La Discussione, Il Lampo, La Campana del popolo) e pubblicando libri su temi di attualità (Storia degli ultimi rivolgimenti siciliani, della caduta dei Borboni e delle gloriose gesta di G. Garibaldi, I-II, Milano 1860-61; nuova ed., 1862). Lo riportarono alla ribalta e alla considerazione della sinistra democratica i 5 volumi delle Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876, editi a Roma tra il 1876 e il 1878. Ricchissime di materiale autobiografico, spesso accozzato con qualche confusione cronologica e qualche sovrapposizione, le Memorie, a dispetto del titolo, si fermano al 1853 e, oltre a evidenziare i meriti patriottici e il disinteresse del loro autore, si rivelano fonte preziosissima per la storia del primo periodo della democrazia italiana.
Ovviamente non è mancato chi, tra le tante cose raccontate dal L., abbia trovato incongruenze e contraddizioni, ma su questo il giudizio ormai consolidato è quello espresso da R. Moscati nell'introduzione a una nuova edizione in volume unico delle Memorie (s.l. 1946): "In realtà, a parte i fronzoli di cui l'accesa fantasia dell'autore riveste alcuni episodi e i cattivi servigi resigli dalla memoria […] anche le pagine delle Memorie che sembrano inverosimili contengono pur sempre un nucleo notevole di verità" (pp. XVIII s.).
Il L. morì a Napoli l'8 genn. 1880.
Un figlio del L., Napoleone, nato a Tours il 13 sett. 1835 e morto al Cairo il 25 nov. 1878, professore di matematica, ebbe una vita avventurosa quanto il padre e, dopo aver preso parte alla liberazione del Mezzogiorno, nel 1871 accorse alla difesa della Comune di Parigi raggiungendo il grado di generale.
Fonti e Bibl.: Uno spezzone di Carte La Cecilia, comprendente parte della corrispondenza indirizzatagli da vari personaggi, si può consultare presso l'Arch. del Museo del Risorgimento di Roma (cfr. E. Morelli, I fondi archivistici del Museo centr. del Risorgimento, Roma 1993, p. 102) dove sono conservate anche circa trenta lettere sue a vari. Tra le fonti edite, a parte quelle menzionate da R. Moscati nella nuova ed. delle Memorie, cit., si vedano in particolare l'Edizione naz. degli scritti di G. Mazzini (cfr. Indici, II, ad nomen), i Carteggi di C. Cavour (per la consultazione cfr. Indice generale dei primi 15 voll., Bologna 1961, p. 101), le Carte di G. Lanza, a cura di C.M. De Vecchi di Val Cismon, VIII, Torino 1939, p. 96; le Relazioni diplomatiche fra la Francia, il Granducato di Toscana e il Ducato di Lucca, s. 2, II, a cura di A. Saitta, Roma 1960, ad ind.; le Relazioni diplomatiche fra la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna, s. 3, VIII, a cura di G. Giarrizzo, Roma 1962, ad ind.; le Relazioni diplomatiche fra l'Austria e il Regno di Sardegna, s. 3, IV, a cura di F. Valsecchi, Roma 1963, ad ind.; Edizione naz. degli scritti di G. Garibaldi, Epistolario, III, a cura di G. Giordano; IV, a cura di M. De Leonardis; VI, a cura di S. La Salvia, Roma 1981-83, ad ind.; e G. Asproni, Diario politico 1855-1876, IV, Milano 1980, ad ind. Per alcuni momenti della sua vita, ai lavori segnalati nella Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, I, Firenze 1971, pp. 290 s., si aggiungano: G. Romano Catania, Filippo Buonarroti, Palermo 1902, ad ind.; M. Mazziotti, La reazione borbonica nel Regno di Napoli, Milano-Roma-Napoli 1912, ad ind.; G. Paladino, Il quindici maggio del 1848 a Napoli, Milano-Roma-Napoli 1920, ad ind.; A. Zazo, G. L.C. in alcuni documenti inediti, in Samnium, VI (1933), pp. 106-112; B. Croce, Vite di avventure di fede e di passione, Bari 1936, pp. 423-426; L. Castelfranchi, Il "Corriere Livornese" (1847-1849), in Boll. stor. livornese, II (1938), pp. 59-68; E. Michel, Esuli italiani in Corsica (1815-1861), Bologna 1938, ad ind.; A. Romano, Storia del movimento socialista in Italia, I-III, Bari 1966-67, ad ind. (ivi anche notizie sul figlio Napoleone); F. Della Peruta, Mazzini e i rivoluzionari italiani, Milano 1974, ad ind.; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, III, Milano 1975, pp. 103 s., 239, 297, 299; A. Galante Garrone - F. Della Peruta, La stampa italiana del Risorgimento, Roma-Bari 1979, ad indicem. Utilizzano ampiamente le Memorie del L. giudicandole più o meno attendibili: A. Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell'Ottocento (1828-1837), Torino 1951, ad ind.; S. Mastellone, Mazzini e la "Giovine Italia" (1831-1834), I-II, Pisa 1960, ad ind.; A. Saitta, Filippo Buonarroti. Contributo alla storia della sua vita e del suo pensiero, Roma 1972, I, pp. 219, 221 s., 228, 231 ss., 249 s., 259 s., 263 s., 272, 285, 306 s.