CATTANEI, Giovanni Lucido
Nacque a Mantova da Giovanni nel 1462. Studiò legge e si addottorò in utroque iure, abbracciando contemporaneamente lo stato ecclesiastico. Arcidiacono e poi preposito della cattedrale mantovana, fu nominato anche protonotario apostolico, ma ai vantaggi che la carriera ecclesiastica non sembrava volergli negare preferì il servizio ai Gonzaga nel quale fu ammesso ancora in giovane età.
Trasferitosi a Roma nel 1485, vi tenne dal 1487 al 1505 con saltuarie assenze il posto di residente mantovano, con funzioni più che altro di informatore, come comportava lo scarso peso politico dello Stato gonzaghesco e l'esiguità dei suoi rapporti del momento con la Curia. Di una vera e propria trattativa diplomatica, ma di quale ben modesto rilievo, fu incaricato nel corso dei lunghi anni del suo soggiorno romano solo una volta, nel 1492, quando fu presentata la candidatura al cardinalato del protonotario Sigismondo Gonzaga, fratello del marchese Francesco. Il negoziato, al quale furono associati anche altri diplomatici mantovani inviati a Roma appositamente, non ebbe però esito felice, a dispetto dello zelo prodigatovi dal C., che, per supplire alla deplorevole mancanza di denaro contante, arrivò persino a offrire se stesso in pegno. Come scrisse al marchese Francesco il 18 sett. 1492, al cardinale Savelli che aveva lamentato il grande spreco di promesse, laddove bisognava "haver mandato tutto già più de uno mese",egli replicò che "ex nunc... me constitueria sue prezone o del pontifice in castello suo qui o altrove, intratanto che V. E. li mandasse". Ma non era offerta da allettare l'esigente papa Borgia che rinviò la questione del cardinalato del Gonzaga a data da destinarsì. Al C. non restò che raccomandare al suo signore di accattivarsi meglio le simpatie di Lucrezia Borgia, "essendo specialmente filiola de chi l'è". Nei limiti assai modesti di questo episodio si circoscrive tutta l'attività diplomatica svolta dal C. in diciotto anni di residenza romana e non si può certo dire che è molto.
Di maggiore interesse appare invece subito l'altra attività, quella di informatore politico e mondano, alla quale il C. consacrò il meglio della sua intelligenza e capacità, con uno scrupolo e una sagacia veramente encomiabili. La sicura attendibilità delle sue notizie accuratamente vagliate e controllate egli non mancò di sottolineare a più riprese nei suoi dispacci, come in quello del 3 ag. 1493 ("Questa è mo' la sincera verità e non zanza") o in quell'altro del 6 sett. 1500 (assicurava che non risparmiava fatiche "per sapere il vero e non fabule come fursi alcuni dicono"). E in effetti non si trattava di semplici vanterie: assai bene introdotto negli ambienti della Curia, egli godeva anche del favore personale di Alessandro VI, la cui elevazione al pontificato aveva salutato il 5 nov. 1492 con una dotta orazione latina. Era cioè nelle migliori condizioni per assicurare al suo signore quella ricca messe quotidiana di informazioni quanto mai precise e minuziose, che costituisce oggi una delle fonti più importanti per la storia del papato borgiano, nell'edizione, purtroppo frammentaria e in estratti, curata da Alessandro Luzio (Idispacci romani di Giovanni Lucido Cattanei, in Isabella d'Este e i Borgia, in Arch. stor. lomb., s. 5, II [1915]), che non esime tuttavia dal ricorso agli originali conservati nell'Archivio di Stato di Mantova.
Per la ricchezza dell'informazione che apporta non poche precisazioni alla storia tumultuosa del papato di Alessandro VI pur così riccamente documentata, il Luzio paragonò i dispacci del C. al diario del Burckard. E in effetti essi hanno un andamento cronachistico che tradisce un'educazione rigorosa all'obiettività del riferimento puntuale e sospinge ai margini ogni velleità di valutazione critica. Il compito dell'informatore imparziale doveva corrispondere perfettamente all'abito mentale del C., uomo di cultura chiesastica e giuridica e poco disposto all'impegno del giudizio politico per il quale occorrevano ben altra educazione intellettuale ed esperienza di negozi. Difficile dunque ricavare dalla congerie ricchissima di notizie trasmesse al suo signore un criterio personale di giudizio, uno sforzo di penetrazione politica capace di superare lo schermo precostituito dalla costante ostilità dei Gonzaga per i Borgia. Dalla maglia impenetrabile della impassibilità professionale traspare tuttavia una personale antipatia, una sorta di ripugnanza verso l'onnipotente famiglia spagnola venuta a spadroneggiare nella casa di Pietro senza mostrare il minimo riguardo per ogni sorta di leggi morali, la minima considerazione per il sentimento religioso dei fedeli. La sfrenata rapacità dei Borgia era uno dei temi più congeniali alla penna pur disincantata dell'osservatore mantovano. Il 6 ag. 1493, ad esempio, riferendo al marchese del viaggio del duca di Gandia, uno dei bastardi di Alessandro VI, a Barcellona per celebrarvi il matrimonio con Maria Enriquez, egli non mancò di sottolineare che partiva "multo richo e pieno di zoie, denari et altri beni mobili et argenti de precio",aggiungendo con ironico distacco: "se dice tornarà fra termine de uno anno, ma lassarà quelle robe in Spagna e venerà a fare un'altra recolta". Con la stessa ironia commentò il 23 settembre dello stesso anno la risposta del papa a quei vecchi cardinali che riluttavano ad accogliere il Valentino nel Sacro Collegio, "disse che questi cerchava de vituperarlo e ponerlo in travalio ma che li monstraria chi era Papa Alessandro VI se perseveravano e che a questo natal ne faria altri tanti a lor dispetto e non locaciarian perhò de Roma. Verissimo è mo' chel ne farà tanti e tante volte quanto S. S.tà vorà per haver mo' rotto el giacio...". Della ben nota corruttela di Alessandro VI il C. non mancò del resto di dare i più ampi ragguagli, fornendo continuamente dati e cifre e riferimenti precisi a casi di simonia, al traffico quotidiano di bolle e indulgenze e di ogni sorta di dignità ecclesiastica. Del suo spregio più assoluto verso la santità del diritto canonico egli dette notizia con la debita insistenza, senza tralasciare ovviamente la sortita, non meno grottesca e tempestosa di quanto era stata l'entrata, del Valentino dal Sacro Collegio, che egli dipinse al marchese, in un dispaccio del 18 ag. 1498,gustosamente fare in concistoro pubblica richiesta in questo senso, "cum scritta in mane per recordarsi melio a parte per parte el tutto. Come lui mai non ebbe voluntà di esser eclesiastico e chel fu forzato a lassarse ordinar da Evangelio e diacono Cardinale, perhò li pareva non poter salvar la coscientia sua né l'anima in viver cum quest'abito". A margine osservò poi sarcasticamente "tutavia del renuntiar li soi molti beneficij non ne farà niente, sina chel non è ben certo dove ci tenga li pedi de la molie e de ogni altro suo stato e modo de viver per l'advenire". Del Valentino il C. si trovò a seguire tutta la mirabolante parabola politica, ma senza manifestare il minimo interesse per una vicenda che, se pure sconfinava troppo scopertamente nell'avventura, offriva tuttavia lo spunto a non poche considerazioni sulla fragilità dell'assetto politico italiano. All'avventura borgiana egli amava ricondurre genericamente "la ruina de Italia", non senza richiamarsi tuttavia con la consueta cautela alla communis opinio ("Tutto il mondo parla chel papa voi esser causa de la disfatione del stato di Milano e de Italia a l'ultimo..."). È questo il punto massimo al quale si poteva spingere la cautela del C., ai cui dispacci occorre ricorrere per una migliore ambientazione della storia della turbolenta famiglia Borgia ma non certo per una migliore comprensione di essa. Sul filo di una malcelata ostilità i dispacci del C. si raccolgono in effetti in una cronaca mondana di alto livello, in una ricchissima aneddotica storica non privadi squarci suggestivi e di sottili sfumature, seppure assai povera di senso politico. Del clima borgiano di Roma egli offre una testimonianza sicura e talvolta vivacissima, come nel dispaccio del 15 genn. 1500, nel quale riassume in poche efficacissime battute il quadro romanzesco e pur reale di una città e di una corte: "Ogni notte questori se amazano l'uno e l'altro: bon exemplo che se danno a la reversa, perché insegnano a Taliani quello deben fare a la morte del Papa, in la qual haveran carestia de amici et de loco da salvarsi".
Nel corso dei lunghi annì trascorsi a Roma il C. godette di una larga considerazione negli ambienti della Curia. Ma dovette aspettare la morte di Alessandro VI per ottenere un riconoscimento ufficiale. Nell'ottobre del 1503 il nuovo papa Pio III lo nominò infatti amministratore del Patrimonio di S. Pietro. carica che che gli fu confermata da Giulio II. Egli ebbe anche rapporti con vari principi tedeschi che usava servire in varie incombenze di modesto rilievo, e fu utilizzato anche dal futuro imperatore Massimiliano che in una lettera indirizzatagli da Augusta il 19 marzo 1504 gli ricordava i suoi passati servizi per patrocinare la festa dell'Immacolata Concezione e gli ordinava di riprendere la stessa pratica con Giulio II.
Il C. ebbe anche cultura e ambizioni letterarie: a Parma per i tipi dell'Ugoletto stampò nel 1493 un rarissimo volumetto nel quale raccolse alcuni suoi componimenti retorici: tre orazioni funebri per Barbara di Brandeburgo marchesa di Mantova, per il marchese Federico Gonzaga e per il cardinale Francesco Gonzaga, un'orazione per l'ascesa al trono del marchese Francesco e in apertura di volume la già ricordata Oratio habita Romae coram Alexandro VI pontifice maximo ac Sacro Apostolico Senatu die V novembris 1492.
Il C. morì a Mantova nel 1505, e fu sepolto nella chiesa di S. Andrea.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Mantova, Gonzaga, buste 847, 848, 849, 850, 852, 853, 854, 855, 856; Ibid., Fondo D'Arco, n. 216: C. D'Arco, Famiglie mantovane (ms.),III, pp. 116-117; A.Luzio, Isabella d'Este e i Borgia, in Arch. stor. lombardo, s. 5, I (1914), pp. 469-553; 673-753; II (1915), pp. 412-464; L. Mazzoldi, Da Ludovico secondo marchese a Francesco secondo duca, in Mantova. La storia, II, Mantova 1961, ad Indicem.