MACCHIA, Giovanni
Nacque a Trani il 14 nov. 1912 da Vito, presidente di corte d'assise, e Giuseppina Francavilla.
Trascorse l'infanzia in una famiglia numerosa: ai figli nati da queste nozze si erano, infatti, aggiunti altri figli nati dal precedente matrimonio di Vito, rimasto vedovo. Frequentò la scuola elementare a Trani. Nel 1923 la famiglia si trasferì a Roma, dove Vito era stato chiamato alla Corte di cassazione. Lì il M. continuò gli studi presso il ginnasio-liceo E.Q. Visconti.
In questi anni si sviluppò in lui una grandissima passione per la lettura (caratterizzata da un senso di libertà e d'avventura, al di fuori, per così dire, dei recinti scolastici) e insieme il M. era attratto dalla musica, dal canto e, in generale, dal mondo del teatro e dello spettacolo.
Nel 1930 si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia. Frequentò le lezioni di V. Rossi, P. Toesca, P.P. Trompeo. Cominciò a collaborare con alcune riviste (Il Tevere, L'Ambrosiano) scrivendo articoli dedicati alla pittura, specie contemporanea. Si laureò nel 1934 discutendo una tesi su "Baudelaire critico"; relatore fu Trompeo e, fra i correlatori, M. Praz.
Ch. Baudelaire, verso cui il M. nutrì da sempre un'affinità elettiva, si sarebbe rivelato infatti autore chiave: in particolare perché impersonava un modello affatto particolare di critico-scrittore, capace cioè, in sommo grado, di far rivivere nella scrittura l'oggetto considerato.
Negli anni 1935-36 il M. fu a Parigi, vincitore di una borsa di perfezionamento.
Gli fu compagno di studi G. Contini. Frequentò corsi alla Sorbona e al Collège de France, dove incontrò P. Hazard. Conobbe J. Paulhan, che lo introdusse al cenacolo della Nouvelle Revue française di indirizzo classicista. Tuttavia il M. era attirato dal bizzarro, dal grottesco, dalla buffa e tragica mobilità dell'essere umano. L'arte che rifiuti il disordine della vita per impartire lezioni lo interessava poco: la scelta di scrivere, ora e anche in seguito, sulla poesia di Francesco Berni può apparire, in tal senso, significativa.
Nel 1938 fu chiamato a ricoprire l'incarico d'insegnamento di lingua e letteratura francese all'Università di Pisa. Nel 1939 pubblicò Baudelaire critico (Firenze 1939), lovoro ripreso dalla sua tesi di laurea e fu insignito del premio Cesare De Lollis. Nel 1940 cominciò la sua collaborazione a Primato e iniziò a interessarsi a un tema su cui tornò più volte: quello dei moralisti fra Cinque e Seicento.
Si tratta dei grandi investigatori dell'animo umano, che vogliono dar precetti per difendersi dal mondo in cui si vive, o per insegnare a conquistarlo; ma vi sono anche quelli che si limitano a osservare ciò che li circonda per descriverlo così com'è, con particolare crudezza. Mossi da un bisogno, anche etico, di ragione, costoro odiano l'ipocrisia e cercano la spietatezza, che fa capire di più: fra essi troviamo F. de La Rochefoucauld, autore di massime, che tuttavia va ben oltre il gioco di società e lo spirito ludico del tempo, facendo delle proprie sentenze - scrisse il M. - piccoli ordigni di tremenda potenza.
Altro moralista, se s'intende il termine nell'accezione di osservatore impassibile dei costumi, entrato a far parte del mondo del M. è P. Choderlos de Laclos con le sue Relazioni pericolose, romanzo famoso e terribile, che mostra come può esser feroce l'intelligenza quando sia applicata alle passioni.
Il cortegiano francese (Firenze 1943) raccoglie gli studi del M. su Berni, La Rochefoucauld, Laclos, oltre che sulla fortuna del Cortegiano di B. Castiglione in Francia; un'antologia dei "moralisti" curata dal M. uscì alcuni anni dopo: I moralisti classici. Da Machiavelli a La Bruyère (Milano 1961).
Dal 1945, a Roma, egli cominciò a far parte di quel gruppo d'intellettuali che si riunivano la domenica a casa dei coniugi Bellonci, dove, due anni dopo, nacque il premio Strega. Era uscito intanto Baudelaire e la poetica della malinconia (Napoli 1946); nel 1947 il M. fondò, insieme con critici d'arte, pittori, musicologi e scrittori, la rivista L'Immagine, diretta da C. Brandi.
In essa pubblicò due saggi importanti: uno riguarda l'inno Ognissanti di A. Manzoni, del quale è ricostruito il piano e presentato materiale inedito. L'altro è il commento a una poesia di E. Montale, Voce giunta con le folaghe, a tal punto apprezzato dal poeta che pensò (peraltro senza che il progetto venisse realizzato) di affidare al M. la prefazione della raccolta La bufera e altro, uscita nel 1956.
Nel 1948 il M. vinse la cattedra di lingua e letteratura francese all'Università di Catania. Nel 1949 fu chiamato all'Università di Roma, presso la facoltà di magistero. Nel 1950 si sposò con Carla D'Urso, vedova del diplomatico A. Perrone Capano. Nel 1952 venne fondato l'Istituto del teatro dell'Università di Roma di cui il M. fu il direttore.
Fin dall'infanzia il palcoscenico rappresentò per il M. un luogo magico: "In quell'alta impalcatura c'era quasi aria di viaggio, come se quelle tavole fossero il ponte di una nave. Uno spettacolo è un luogo di delizie e d'incanti, è uno spazio vuoto da riempire di colori, di luci, di ritmi misteriosi, di personaggi, e anche di gesti buffi e meccanici" (Il teatro delle passioni, Milano 1983, p. 18).
Il teatro era bello agli occhi del M. anzitutto perché costituiva uno splendido gioco, uno strumento di piacere ancor prima che d'arte: quando, nel 1958, il M. venne chiamato alla facoltà di lettere dell'Università di Roma, gli fu anche conferito, a titolo gratuito e primo del genere in Italia, l'insegnamento di storia del teatro e dello spettacolo. Nel corso degli anni vennero fondate la collana "L'Archivio del teatro italiano", che pubblicò, fra l'altro, il primo trattato di regia del Cinquecento, e la Biblioteca teatrale, una rivista redatta in gran parte da allievi del Macchia.
Nel 1960 uscì Il paradiso della ragione. Studi letterari sulla Francia (Bari; nuova ed., con il sottotitolo L'ordine e l'avventura nella tradizione letteraria francese, Torino 1972).
Questa raccolta di saggi è la più compiuta visione della storia della letteratura francese elaborata fino ad allora dal M.; si è sempre pensato alla letteratura francese, nei suoi passaggi maggiormente significativi, come a "un lento cammino verso la luce; una lotta sferrata contro i sogni, gli incubi, le allucinazioni, contro i mostri, le chimere, le comete, gli oracoli" (ibid., ed. 1972, p. 5). Una letteratura che somiglia a una di quelle città di cui parla Cartesio nel suo Discorso sul metodo - osserva il M. - tanto più belle e perfette se sono opera di un solo, straordinario architetto. Ma accanto a questa città ve n'è una seconda, nella letteratura francese: "in disordine, con le strade in formazione e piene di fermenti, e senza piani regolatori" (ibid., p. 7). Il mito dell'ordine e della chiarezza può accecare e non far vedere certe zone oscure però struggentemente vitali, che invece è importante conoscere. Ciò comporta sia valutare alcuni scrittori minori, notevoli in sé (oltre che in riferimento al quadro d'insieme), sia scoprire temi che riguardano - contro il miraggio dell'ordine - l'irrazionale, l'ambiguo, l'incompiuto.
Il M. non crede, come Ch.-A. Sainte-Beuve, che i minuti pezzi della vita dell'artista possano spiegare lo scatto del suo genio. Tuttavia, e nel medesimo tempo, non crede nemmeno, come riteneva M. Proust, che l'io creatore di un artista non abbia nulla a che fare con l'altro suo io, biografico, invischiato nel quotidiano. Egli sembra semmai pensare a una sorta di "sovrabbondanza" dell'opera d'arte, per cui essa si espande coi suoi sensi nella vita dell'autore, rendendola più significativa e comprensibile. Il legame dell'opera con la vita rimanda ancora al rapporto baudelairiano fra ragione e passione.
Lo stile del suo pensiero, come quello della parola, è limpido, sorvegliato: persino troppo, forse; specie in giovinezza; mentre lo stile maturo accoglie anche abbandoni, talora molto suggestivi. Vero è però che la passione è l'unico orizzonte in cui il M. scelga di aggirarsi. La vita umana è appassionata ed è piena di eccessi. Questo spiega perché divengano così importanti per lui autori come Molière e L. Pirandello che, insieme con Baudelaire, sono da considerare probabilmente i suoi numi tutelari.
La scuola dei sentimenti (Caltanissetta-Roma 1963) descrive il mondo sentimentale che appare nel teatro di Luigi XIV, ossessionato, come nessun altro, dal tema del sentimento: che rende schiavo l'uomo e di cui ognuno può avvalersi per soggiogare il prossimo.
La parte più significativa del libro riguarda in particolare il mito di Don Giovanni, osservato nelle diverse elaborazioni: dal Burlador de Sevilla di Tirso de Molina fino a W.A. Mozart, E.T.A. Hoffmann, I.F. Stravinskij, passando naturalmente per il Dom Juan di Molière. Il lavoro del M. su Don Giovanni appare a sé stante in più edizioni successive e accresciute: Vita, avventure e morte di Don Giovanni (Bari 1966; Torino 1978; Milano 1991).
Sulla scena si erge un libertino che si mantiene, orgoglioso e implacabile, chiuso nella sua solitudine: non ha amici; non ascolta i consigli di nessuno. Reso ebbro dalla volontà di piacere va in cerca, nelle storie d'amore, di cambiamenti ininterrotti. Ma soprattutto ha bisogno di "trasgredire": violare le leggi sia dello Stato, sia della morale. E vuol infrangere i patti affettivi che sono emanazione di quelle leggi o risultano comunque compromessi con la legge, considerata in se stessa. Il M. pone in luce la superbia demoniaca del personaggio, ma non dimentica la raffigurazione che ne fa Baudelaire, restituendolo come eroe negativo, che anticipa la sensibilità romantica. Tuttavia, Don Giovanni è anche eroe grottesco, sempre secondo il M.: circondato da donne che è obbligato, infaticabilmente, a sedurre, acceso da una inestinguibile brama.
Nel 1962 il M. fu chiamato a far parte dell'Accademia dei Lincei e cominciò a collaborare al Corriere della sera. Nel 1965 pubblicò Il mito di Parigi (Torino).
Nella raccolta di saggi, aperti anche al Novecento (R. Roussel, A. Robbe-Grillet), il M. sviluppa la sua visione anticartesiana della letteratura francese, già esposta ne Il paradiso della ragione. Al "mito di Versailles" - vale a dire di una storia della letteratura che si svolge all'insegna d'un classicismo aristocratico, onore e vanto della Francia ufficiale - viene contrapposta l'esistenza di un "mito di Parigi": di una letteratura irregolare, fantasiosa, di avventura e di esperimenti.
Un vero e proprio profilo articolato della storia letteraria francese apparve invece nel 1970: La letteratura francese dal tramonto del Medioevo al classicismo (Firenze-Milano), che riprende una Storia della letteratura francese. Dalle origini a Montaigne, pubblicata dal M. nel 1961 (Torino). L'opera sarebbe apparsa alfine, nel suo complesso, in un "Meridiano" Mondadori: La letteratura francese - Dal Medioevo al Settecento (Milano 1987).
Frattanto, nell'itinerario del critico, l'interesse per il romanticismo si profilava in modi sempre più consapevoli: nel volume I fantasmi dell'opera (ibid. 1971) sono accolti, fra gli altri, saggi su H. de Balzac e F.-R. de Chateaubriand. A Pirandello, osservato da una prospettiva inconsueta, è dedicato un saggio nel successivo La caduta della luna (ibid. 1974). Non c'è più in primo piano l'individuo scettico, disperato, alle prese con l'insolubile problema di quale sia, davvero, la verità. Dominerebbe invece gran parte dell'opera di Pirandello una furia di estorcere spiegazioni, e giustificazioni, da chi magari ha agito senza precisa coscienza. In seguito il M. rielaborò il saggio, facendone uno studio compiuto a sé stante, e lo intitolò Pirandello, o la stanza della tortura (ibid. 1981).
Dinanzi al lettore-spettatore si schiudono interni terribili di case (borghesi, sovente), abitate da famiglie agiate e apparentemente tranquille, dove però si svolge un cerimoniale feroce, sempre lo stesso, per cui si interroga qualcuno e si vuole spogliarlo dei suoi segreti, lo si costringe a difendersi, ad accusarsi, lo si tormenta. Si cela una rabbia in queste stanze di case perbene, e il suo esplodere non ha d'altronde sul lettore-spettatore, infine, alcun effetto liberatorio: egli si congeda dall'autore con malessere, con fastidio. Questo rito di interrogatori e di processi intentati fra mura familiari - in un virtuale scambio di ruoli fra vittime e carnefici - fa venire alla luce manie, follie degli imputati ma anche degli accusatori, che paiono intervenire per conto della società, quasi si trattasse di "pubblici ministeri". Secondo il M. queste rivelazioni del profondo non portano necessariamente alla verità. Arduo è infatti distinguere con nettezza ciò che è vero da ciò che è imposto con la violenza. Ma certo è che questi processi sono luoghi di immedicabile dolore.
Tornato a occuparsi di Molière, il M. ne predilesse gli ultimi anni, con quei personaggi intrisi di malinconia che portano in giro nel loro aspetto e nei loro discorsi, oltre la comicità dei tic, delle fissazioni, un'aria di rovina (Il silenzio di Molière, ibid. 1975).
È tuttavia alla figlia di Molière che il M. dedica la parte più importante del libro: in un colloquio immaginario - fra costei e un anonimo ammiratore dell'artista - ella confessa il motivo per cui ha trascorso la vita in silenzio, per cui è rimasta, rigorosamente, appartata. A seguito della pubblicazione di un anonimo libello infamante, è stata tormentata negli anni dal sospetto che sua madre - sposata a Molière - fosse figlia di lui, e che dunque lei potesse essere il frutto di un incesto. Nessuno poteva smentirlo, o confermarlo. Così ha scelto di tener chiusi in sé il dubbio e la vergogna. Senza poter protestare, difendersi o muovere accuse.
A questa prima prova di carattere narrativo fece seguito un secondo dialogo immaginario nel volume Il principe di Palagonia (ibid. 1978).
Il libro si distacca dagli altri del M., affrontando, fra grottesco e fantastico, il mito creatosi intorno a una celebre villa siciliana nel Settecento, arredata per volontà del proprietario, il principe di Palagonia, con incredibili mostri di pietra, in un conturbante sfoggio decorativo. Dopo aver ricostruito la figura del principe attraverso alcune testimonianze - fra cui emerge quella di J.W. Goethe, ammaliato dalla sua follia -, il M. cerca di comprendere il significato della decorazione inventando, appunto, un lungo colloquio fra il principe, siciliano dalla mente scura, affollata di spettri, e il suo esatto contrario: un patrizio veneto dall'animo limpido, solare, ingenuamente devoto alla ragione. Durante il colloquio, il principe rivela come le figure di pietra disseminate nella villa siano una proiezione del suo mondo interiore. Egli teme l'orrido di corpi mostruosi che hanno infestato il mondo, in ogni tempo, pessimi scherzi di natura, e altri mostri potrebbero nascere in futuro anche per lo zelo di scienziati intenti a nuove, feroci sperimentazioni. Beninteso: quell'orrido lo attrae, in segreto, giacché metafora di una condizione umana scrutata senza cautele.
Nel 1979 apparve L'angelo della notte (ibid.; seguito da Proust e dintorni, ibid. 1989), che raccoglie con effetti di singolare armonia, soprattutto stilistica, studi proustiani già apparsi e un nucleo importante - nuovo, invece - che affronta il tema del rapporto fra malattia e creatività.
Quanto l'arte di Alla ricerca del tempo perduto è implicata con la malattia (del corpo, e dell'anima: con la nevrosi e la follia)? Quanta creatività deriva dalla malattia? La stessa, salvifica facoltà della memoria sussiste in Proust, secondo il M., solo nell'insidia continua da parte dell'oblio. Questa memoria ha bisogno, quasi hegelianamente, della distruzione delle forme e dei nomi come principio possibile di vita.
Alla prima metà degli anni Ottanta risalgono altri due libri notevoli del M.: i Saggi italiani (ibid. 1983), in cui è importante soprattutto la sezione dedicata a Montale e alla Bufera, e Le rovine di Parigi (ibid. 1985).
Dopo il tramonto dell'Illuminismo e dopo la caduta di Napoleone si era diffuso in Francia un senso di scoramento e cupa incertezza sul destino del Paese e si era cominciato a pensare alla prossima fine di Parigi, un giorno inevitabile così come in passato la fine di Roma imperiale. Il tema aveva colpito scrittori quali Ch.-E. Nodier, Baudelaire; ora vi tornava il M. per osservarne e isolarne il valore simbolico: uno splendore di vita si dissolve a opera di barbari e dei fasti dell'ingegno nulla permane, nulla resta, se non delle macerie.
L'interesse del M. per il tema del declino (cfr. anche il titolo di una raccolta di saggi apparsa in seguito: Il naufragio della speranza, ibid. 1994) si alternava in lui all'interesse per figure fondamentali del tempo della sua formazione, come Trompeo, Praz ed E. Cecchi (vedi Gli anni dell'attesa, ibid. 1987).
Da ultimo si deve rammentare l'Elogio della luce (ibid. 1990), dedicato a scrittori, pittori (J.A. Watteau, J.-E. Liotard, G. De Chirico), musicisti (Mozart, F. Chopin, R. Wagner, C. Debussy), nel segno di un'interdipendenza delle diverse arti, compenetrate nei rispettivi significati e nelle forme.
Nel 1992 venne conferito al M. il premio Balzan per la storia e critica della letteratura. Fra le traduzioni in francese della sua opera è da ricordare Paris en ruines (Parigi 1988), che vinse il prix Médicis essais. Nel 1991 Il principe di Palagonia fu tradotto in tedesco. Dal Colloquio immaginario con la figlia di Molière furono tratte varie rappresentazioni teatrali: a Roma, al Festival dei due mondi di Spoleto, a Parigi, a Besançon, ad Atene, in Inghilterra, in Canada.
Il M. morì a Roma il 30 sett. 2001.
Tutte le opere più importanti del M. sono qui sopra elencate. Per una bibliografia completa che riguarda il periodo 1932-82, si veda: M. Colesanti, Bibliografia degli scritti di G. M., Milano 1983, II, pp. 679-728. Posteriori al 1982 e non elencati qui sopra sono: Saggi italiani, ibid. 1983; Tra Don Giovanni e Don Rodrigo, ibid. 1989; Manzoni e la via del romanzo, ibid. 1994; e, soprattutto, il "Meridiano" intitolato Ritratti, personaggi, fantasmi, a cura di M. Bongiovanni Bertini, ibid. 1997.
Fonti e Bibl.: Si veda il saggio di J. Risset, La letteratura e il suo doppio. Sul metodo critico di G. M., Milano 1991. Per il resto si rimanda alla vastissima ed esaustiva bibliografia sul M. riportata in G. Macchia, Ritratti, personaggi, fantasmi, cit., pp. 1795-1826.