MANGIADORI, Giovanni
Nacque con molta probabilità intorno al 1210. Sebbene l'obituario della cattedrale di Pistoia lo dica originario di questa città, fu in realtà membro della più illustre consorteria di San Miniato al Tedesco, nel Valdarno inferiore. Un elenco delle vacanze della sede vescovile fiorentina risalente agli inizi del secolo XIV parla di "domini Iohannis de Mangiadoribus de Sancto Miniate, dudum episcopi florentini" (Lami, I, p. 81); un Tribaldo o Teibaldo Mangiadori da San Miniato, canonico di S. Lorenzo dal 1254, è definito in alcune testimonianze dell'epoca nipote del Mangiadori.
Il M. fu arcidiacono della cattedrale di Lucca, alla cui diocesi San Miniato apparteneva. Forse i rapporti esistenti fra i Mangiadori e gli Ubaldini, famiglie di tradizione filoimperiale, nonché la frequentazione personale, fecero sì che il cardinale Ottaviano, illustre esponente di quest'ultima casata, incaricato dal pontefice Innocenzo IV di far elevare al seggio vescovile di Firenze una figura gradita alla Sede apostolica, sostenesse la candidatura del M. fin dall'anno in cui morì il vescovo Ardingo (1249). Dopo i due anni di vescovato di Filippo da Pistoia, succeduto ad Ardingo, e dopo la fine del primo biennio di governo ghibellino in città (1248-50), la designazione del M. avvenne nel 1251 e la consacrazione si ebbe durante la primavera del 1252.
L'episcopato fiorentino del M. coincise con il periodo di più intensa lotta tra guelfi e ghibellini conseguente alla morte di Federico II. Come si evince da un'epistola di Innocenzo IV, la scelta era caduta sul M. perché la sua fedeltà alla causa pontificia e la provenienza da una cittadina di tradizione imperiale gli conferivano un ruolo di potenziale mediatore nell'agone politico delle fazioni fiorentine. Per di più egli era noto a Firenze, dato che, pochi anni prima, una causa sorta fra la città e il Comune di Poggibonsi era stata "conferta coram archidiacono Lucensi" (Lami, II).
Ancora negli anni Quaranta il M. aveva curato per conto del pontefice la questione connessa alla disputa fra Roma e Lucca per i castelli matildini della Garfagnana rivendicati dalla S. Sede. Per aver assolto questo e altri incarichi - come la revisione dei processi contro i chierici che avevano sollecitato nomine dagli ufficiali imperiali -, nel 1254, quando era già vescovo, egli ottenne un indulto che gli assicurava la possibilità di conferire benefici canonicali a prescindere dal numero dei membri del capitolo, nonché la protezione del Seggio apostolico per ogni scomunica o sospensione a divinis lanciata contro di lui da qualsiasi legato del medesimo.
Fra il 1255 e il 1256, su richiesta del nuovo papa Alessandro IV, il M. costituì soprattutto con propri fideles alcune milizie, che, sotto il comando del cardinale Ottaviano Ubaldini, furono impiegate in Puglia contro Manfredi re di Sicilia. La spedizione comportò spese talmente ingenti da compromettere in modo serio il patrimonio della mensa fiorentina.
Tali difficoltà si sommavano alla "libra", ossia alla contribuzione fiscale che, dal 1251, il regime di Popolo aveva imposto anche alla Chiesa fiorentina. Nel 1256, con decorrenza dall'anno successivo, nuove leggi comunali assoggettavano i chierici alla giurisdizione delle magistrature civili. Il M., perseverando nel suo ruolo di mediatore e bisognoso dell'appoggio del Comune per far fronte ai crescenti problemi finanziari, accettò queste norme. Si aprì, in tal modo, una stagione di conflitto con il capitolo della cattedrale; ma il M. preferì sfidare i suoi chierici piuttosto che compromettere le relazioni con il potere politico, durante un periodo in cui cresceva la diffidenza di quest'ultimo verso il suo protettore, il cardinale Ottaviano Ubaldini, e peggioravano i rapporti con la Curia romana, la quale, proprio per le disposizioni volte a secolarizzare l'amministrazione degli enti assistenziali e a ledere l'autonomia del foro ecclesiastico, aveva lanciato l'interdetto contro la città (1256).
La posizione della Chiesa fiorentina si fece sempre più difficile. Lo scontro fra il Comune guelfo e il superiore generale dei vallombrosani Tesauro di Beccaria, accusato di favorire i piani del cardinale Ubaldini, che mirava all'occupazione della città, si concluse con la decapitazione dell'abate e con un nuovo interdetto scagliato dal pontefice (1258). I contrasti tra il governo popolare e le maggiori famiglie ghibelline costrette all'esilio gettarono le basi per un nuovo sovvertimento politico. Nel 1260, dopo la sconfitta di Montaperti, i guelfi lasciarono Firenze.
Fra questi vi furono molti esponenti del clero. Il M. e Mainetto, suo collega fiesolano, rimasero al loro posto accettando il regime ghibellino. Il rispetto per la persona del M., comunque proveniente da una famiglia in larga misura di parte imperiale, ebbe la meglio sull'odio verso i ministri della Chiesa; anche perché fu affiancato al vescovo, in qualità di vicario, il nuovo rettore della prepositura del capitolo Viviano de Caza, di provata fede ghibellina. All'episcopato rimase un certo margine d'azione che consentì di limitare le violenze contro il clero e persino di ottenere l'allontanamento di un canonico del priorato di S. Lorenzo schierato con i vincitori ma giudicato indegno.
Dopo il 1266, con il ritorno dei guelfi al potere e la revoca dell'interdetto, il M. svolse un ruolo importante nell'assecondare le iniziative di conciliazione promosse dai pontefici Clemente IV e Gregorio X. Forse fu anche grazie al suo intervento che al rientro dei guelfi non si ebbe un massiccio esodo del clero ghibellino. Durante i primi anni Settanta, di fronte al profilarsi di nuove limitazioni della libertà ecclesiastica e alla crescente diffidenza del papa verso i guelfi vincitori, fu a lui che si affidò la Curia romana per la tutela delle prerogative della Chiesa fiorentina. Appare pertanto probabile che la solenne cerimonia di pacificazione svoltasi il 12 luglio 1273 alla presenza di Gregorio X, in viaggio verso Lione, sia stata in parte merito della mediazione del Mangiadori.
Ponendosi idealmente sulla scia del vescovo Ardingo, che negli anni Trenta aveva chiamato a Firenze gli umiliati e i cistercensi, il M. venne incontro ai primi, appoggiando il loro insediamento nel tessuto urbano, già autorizzato dal suo predecessore, con la cessione della cappella di S. Lucia (11 sett. 1251) adiacente alla costruzione che i frati stavano edificando lungo l'Arno. Nel 1256 riconsegnò la chiesa del borgo di San Frediano ai cistercensi di Badia a Settimo. Nel 1268 presenziò alla fondazione della chiesa dei carmelitani, sempre in San Frediano, area allora in forte sviluppo, subito al di fuori delle mura cittadine.
Del M. si conservano numerosi atti amministrativi registrati nel cosiddetto Bullettone, un'ampia raccolta in forma di regesto documentario dei diritti spettanti alla mensa vescovile, compilata nel 1322.
Dal testo risultano molte nomine di rettori per le chiese della diocesi durante il periodo 1251-53 e una riduzione delle medesime negli anni dell'interdetto. Il documento evidenzia inoltre l'impegno del presule nel riordinare, tramite non poche scomuniche, la Chiesa fiorentina, specialmente dopo che le pressioni politiche del periodo di governo ghibellino avevano determinato illegittimi insediamenti in cariche e benefici. Il M. provvide a nominare nuovi arcidiaconi, canonici di varie chiese, titolari di pievi, parrocchie e oratori minori, sia per gli istituti di collazione vescovile, sia per quelli di spettanza del capitolo, di regolari, di patroni laici, del clero locale o degli stessi parrocchiani. Questo zelo gli procurò non pochi nemici, alcuni dei quali, negli anni Settanta, ebbero l'appoggio del vicario di Carlo d'Angiò. Tuttavia il M. non esitò a sollecitare lo stesso sovrano per far sì che i provvedimenti di censura contro i chierici indegni potessero in qualche modo trovare esecuzione.
Va forse collegata al clima di riforma imposta alla diocesi dal M. e alla opposizione che esso generava la matrice del racconto contemplato nel Novellino, il cui anonimo autore, di indubbie simpatie ghibelline, vedeva il vescovo accusato di concubinaggio da un pievano oggetto delle sue stesse reprimende. Del resto nell'opera di riorganizzazione, che interessò anche il capitolo della cattedrale e gli uffici di Curia, non mancarono, da parte del M., forme di nepotismo e di protezione dei suoi conterranei, come suggeriscono il canonicato offerto al nipote Teibaldo, o la presenza alla fondazione della chiesa dei carmelitani di un giurista di San Miniato in qualità di testimone e segretario del presule.
L'attività di riforma e riorganizzazione investì in larga misura anche il patrimonio vescovile. Il Bullettone menziona le ricognizioni dei diritti di censo spettanti alla Curia, i giuramenti di obbedienza prestati da chiese e monasteri con l'impegno a versare gli oboli dovuti, il numero e l'entità dei canoni fondiari che i coloni corrispondevano per le terre vescovili. Sappiamo dalla stessa fonte che al tempo del M. scoppiò una disputa tra l'episcopato e il capitolo della chiesa di S. Lorenzo a motivo di alcuni tributi inevasi. Durante gli ultimi anni della sua vita il M. sembra aver guardato con maggior favore a questa canonica, confermandole il possesso dell'attiguo ospedale e cedendole alcuni beni del patrimonio episcopale.
Nel 1255-56, con l'autorizzazione del Comune, il M. vendette per 100 lire di denari una sezione consistente delle terre che la Curia possedeva nella località suburbana di Cafaggio. Il denaro era necessario per far fronte, almeno in parte, ai debiti accumulati nella guerra contro Manfredi. Tale cessione rispose, però, anche ad altre istanze. Essa si inseriva in una diversa strategia patrimoniale inaugurata dal M., il quale preferì alienare una parte dei fondi resi poco redditizi dalle locazioni consuetudinarie per investire soprattutto negli immobili urbani. Sappiamo, infatti, che egli ricavò dal piano terreno della sua residenza botteghe e laboratori che concesse in affitto e che in seguito acquistò alcuni pregiati appezzamenti entro le mura urbane, rispondendo così, per quanto possibile, alle esigenze del fiorente commercio cittadino, a tutto vantaggio delle esangui finanze vescovili.
Fin dal 1252 vari giuramenti di fedeltà da parte dei centri soggetti all'autorità episcopale, nomine di podestà, scomuniche di terre e pivieri che non corrispondevano quanto dovuto confermano che il M. non rinunciò mai ai propri diritti di giurisdizione sulle località di cui era signore, specialmente dopo la fine del periodo ghibellino.
All'interno dell'aspro confronto tra il M., vescovo di nomina pontificia, e il clero capitolare, nel 1259 il preposto della canonica Pagano Adimari avviò con lui un contenzioso dopo che i papi Innocenzo IV e Alessandro IV avevano confermato al M. il privilegio di assegnare prebende e benefici eludendo il problema del soprannumero dei canonici. L'appello rivoltogli da Pagano contro i "gravamina" imposti alla canonica e al capitolo lamentava, in particolare, che egli aveva lanciato scomuniche senza il consenso del proposto, aveva alienato beni del vescovado e confermato pievani e priori senza consultare il capitolo, aveva diffamato il proposto stesso presso il vescovo di Fiesole, il priore di Camaldoli, gli ufficiali forestieri e gli Anziani del Comune, impedendo che questi ultimi ritirassero le disposizioni emanate a danno dell'autonomia del clero. Il M. rispose alle accuse con tono accomodante, ma nel 1260 Pagano Adimari fu costretto all'esilio dal nuovo regime ghibellino.
Il M. morì a Firenze il 31 dic. 1274, come confermato dal regesto vescovile e dall'obituario di S. Reparata.
Dopo la sua scomparsa, la cattedra fiorentina rimase vacante per dodici anni a causa dei contrasti fra i membri del capitolo, dietro i quali si celavano le potenti famiglie che per tradizione tutelavano la sede vacante, come i Visdomini, i Della Tosa e gli Aliotti. Nel 1273 la città, incapace di ricomporre i suoi dissidi politici, era caduta nuovamente sotto interdetto e, in mancanza di un arbitro prestigioso e imparziale, fu destinata a rimanervi per oltre un decennio.
Il lungo episcopato del M. va collocato nel contesto di lenta espropriazione delle prerogative politiche e giurisdizionali del vescovado operato a Firenze a partire dal governo del primo Popolo. Il Comune iniziò da allora a gestire in maniera sempre più esclusiva i diritti spettanti al vescovo su vari castelli e località del contado, in apparenza tutelando gli interessi della Curia, ma di fatto sostituendosi progressivamente a essa. Il potere laico avocò a sé anche la custodia del culto patronale e i connessi momenti di spettacolarità celebrativa che animavano la tradizione religiosa cittadina.
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