MARCANOVA (da/de Mercatonovo), Giovanni
Nacque presumibilmente a Venezia tra il 1410 e il 1418 da Tommaso o Tomeo Verarii, "camisarius", e da Lucia Marcanova, figlia del medico Giacomo da Verona, della quale il M. adottò il cognome. Nella registrazione del dottorato il M. figura come "Iohannes de Mercatonovo venetus filius ser Thome" (Zonta - Brotto, n. 1406): è dunque probabile che anche Tommaso fosse designato con lo stesso cognome.
La questione del luogo di origine del M. non è del tutto chiara: sembra che il nucleo familiare si fosse formato a Venezia, forse legato al commercio della seta. Il M. fu patavino per Scardeone, veneziano per Zeno, che lo distinse dal suo omonimo zio, e per Frati; ancora padovano fu per Sighinolfi. È probabile che la famiglia del M. si fosse trasferita a Padova per permettergli di frequentare lo Studio.
Dai due testamenti del M., il primo dettato nel 1452 a Bologna, l'altro stilato a Padova il 6 dic. 1464 e confermato il 31 luglio 1467, si ricavano dati relativi ai luoghi di sepoltura dei suoi familiari e il nome di quattro sorelle: Graziosa, Marina, monaca benedettina, Perina e Soprana, sposata a Bartolomeo Bronza. I rapporti con i circoli intellettuali veneziani appaiono intensi fin dagli anni della formazione (il medico Guglielmo di Giacomo, zio materno del M., interagì con gli studiosi veneti vicini a F. Petrarca) e, grazie alle relazioni con gli Strozzi dello zio paterno, il mercante Giovanni, il M. partecipò anche alla vita dello Studio padovano. I rapporti con questa famiglia dovettero rimanere costanti se nel testamento del 1464 un lascito fu destinato dal M. "ali heredi de mesere Pala" (Barile - Clarke - Nordio, p. 241). Dell'amicizia per Palla Strozzi e per il giurista Giovanni Bovacchiesi sopravvive una testimonianza nella dedica al M. premessa nel 1449 dal monaco olivetano Antonio da Barga all'opuscolo Historia Tusciae; sempre al M. egli dedicò la sua opera maggiore, il Chronicon Montis Oliveti.
Due le notizie relative agli anni studenteschi: nel 1438 fu testimone al dottorato in medicina di Giovanfrancesco, figlio di ser Donato di Treviso, e nel 1439 a quello di Geremia di Ruspano insieme con lo studente in legge Iacopo Zeno, futuro umanista e vescovo di Padova. Il 9 marzo 1440 il M. chiese al Collegio dei medici e filosofi, forse per difficoltà economiche, di poter conseguire privatamente licenza e dottorato in arti e medicina.
L'esame ebbe luogo l'11 marzo nella chiesa di S. Martino a Padova; la licenza e il dottorato, il 16 o il 18 marzo, nel palazzo episcopale, promotori Bartolomeo Santasofia senior e Bartolomeo Montagnana, che conferirono le insegne, Sigismondo Polcastro e Giovanni Ludovico Radici. Tra i suoi testimoni Gaetano Thiene, con il quale il M. continuò ad avere rapporti: tra il 1438 e il 1450 fece allestire quattro codici con suoi commenti e forse tramite lui si avvicinò a Paolo Veneto; con Vincenzo di Montfort, invece, il M. condivise interessi antiquari.
Il M. iniziò la sua prestigiosa carriera entrando il 26 marzo 1440 nel Collegio artista, mentre proseguiva lo studio della medicina: conseguì la licenza il 29 luglio 1447, promotori nuovamente B. Montagnana e S. Polcastro. L'attività del M. presso lo Studio risulta variamente documentata dal 1444; si segnala tra l'altro la sua presenza il 6 sett. 1445 all'esame in teologia dell'umanista inglese William Gray; il 5 marzo 1450 al dottorato in artibus di Lodovico Donà; nel 1451 fu promotore al dottorato in arti del futuro prototipografo Panfilo Castaldi.
Non è noto se il M. abbia mai conseguito il dottorato in medicina: in atti del 1450 compare ancora come "Iohannes de Mercatonovo artium doctore et in medicina licentiatus" (Zonta - Brotto, n. 2418); gli stessi titoli si ripetono in due documenti padovani del 17 luglio 1452 e del 26 apr. 1454 (Barile - Clarke - Nordio, p. 193); nelle note di possesso ai suoi codici il M. presenta tuttavia sempre il titolo "artium et medicinae doctor".
Nel 1448, in rappresentanza del Collegio dei medici e filosofi, pronunciò un'orazione per l'ingresso a Padova del vescovo Fantino Dandolo: testimoniata da diversi codici (tra cui Milano, Biblioteca Ambrosiana, Mss., C.105 inf., cc. 166v-170v), rimane l'unica prova letteraria del M. finora emersa. Fu probabilmente così che il M. entrò a far parte della familia di Dandolo, come attestano diversi documenti nei quali egli compare come testimone o sostituto del vicario o del vescovo stesso, che era cancelliere dello Studio (Zonta - Brotto, nn. 2269, 2295, 2314, 2348, 2350, 2369, 2409, 2418). Ottenne in cambio numerosi benefici ecclesiastici: il 25 marzo 1448 Dandolo, infatti, gli conferì la prima tonsura e gli ordini minori al cospetto di Giulio Contarini, suo nipote, e di Michele Contarini, membro della sua cerchia; dal testamento del 1464 risulta un lascito per il nipote di Giulio, Girolamo. Dell'entourage di Dandolo faceva parte pure Francesco di Nicolò Contarini dagli Scrigni, dottore iuris utriusque e possessore a Padova di iscrizioni poi inserite dal M. nella sua silloge epigrafica; insieme figurano, il 14 marzo 1448, come testimoni in un atto del vescovo (Barile - Clarke - Nordio, p. 197).
Forse proprio presso un Contarini il M. poté consultare gli excerpta epigrafici conservati nel codice donato da Ciriaco de' Pizzicolli (Ciriaco d'Ancona) a un ignoto esponente della famiglia. Sicuramente materiali ciriacani consultò presso il vescovo Pietro Donà, destinatario di disegni e autografi di Ciriaco, a Padova nel 1442-43: il suo ms. Hamilton 254 della Deutsche Staatsbibliothek di Berlino tramanda un'iscrizione (c. 124v; Corpus inscriptionum Latinarum [=CIL], V, 1, n. 3058) rinvenuta dal M. a Padova presso la chiesa di S. Lucia e registrata nella sua silloge, dove pure figurano lapidi conservate "in domo d. episcopi apud Portellum" (CIL, V, 1, nn. 2841, 2973, 3037, 3049, 2903).
Nell'ambiente padovano intorno a Pietro Donà, amico di Palla e Nofri Strozzi, il M. dovette formare e affinare la propria sensibilità antiquaria, cominciando a raccogliere sistematicamente le iscrizioni che sarebbero confluite nel suo lavoro di maggiore respiro umanistico, l'imponente silloge epigrafica Quaedam antiquitatum fragmenta studio Iohannis Marchanovae artium et medicinae doctoris Patavini collecta: tra gli umanisti tedeschi raccolti intorno a Donà si trovava anche Iohannes Hasenbeyn, cui si deve una raccolta di epigrafi, in parte di ascendenza ciriacana, imparentata con il codice Hamilton di Donà; va rilevato che 17 tituli della silloge del M. erano già presenti in quella di Hasenbeyn (Necchi).
A Padova il M. rimase come docente di filosofia naturale fino all'ottobre 1452; a circa tre anni dalla partenza il ricordo del suo insegnamento sopravvive in un carme dell'allievo Francesco Buzzacarini, che lo appella "alter Aristoteles" (la copia del M. fu vergata dal giovane Bartolomeo Sanvito; Marcon, 1999, p. 493). Non sono ricostruibili le ragioni del trasferimento del M. nell'ateneo bolognese, avvenuto con l'approvazione del legato pontificio Bessarione, ma i rapporti con Dandolo dovevano essersi allentati se nel febbraio 1452 il M. non viveva più al vescovado, dove sembra averlo sostituito Vincenzo di Montfort.
Lasciando Padova nel 1452 il M. dettò al notaio Conte Dalle Valli le sue prime disposizioni testamentarie. I lasciti permettono di ricostruire le relazioni più vive: Arcoano Buzzacarini, al quale il M. aveva donato un frammento sepolcrale rinvenuto a Bovolenta (CIL, V, 1, n. 3072), e Giovanni Taverna, figliastro dello zio mercante: a lui il M. lasciava tre codici con commenti di Walter Burley e Averroè alla Fisica aristotelica e all'Ars vetus (Barile - Clarke - Nordio, p. 238).
Presso lo Studio di Bologna dal 1452 al 1457 il M. ricoprì una cattedra "ad lecturam philosophiae ordinariam", mentre dal 1459 al 1467 "ad lecturam philosophiae ordinariam de sero": l'ultimo suo corso dovette essere dedicato alla Fisica aristotelica.
Nel 1453 la sua posizione economica era equivalente a quella del giurista Andrea Barbazza, allora celebrato docente dello Studio bolognese, tuttavia negli anni 1453-57 lo stipendio del M. non fu pagato interamente, tanto che un breve di Pio II datato Mantova 10 luglio 1459 ordinava che il M. fosse retribuito. Il provvedimento non ebbe però effetto, o lo ebbe solo in parte, se nel testamento del 1464 il M. ricordava di dover "avere dala gabella de Bologna per mei sallarii passadi lire 912 soldi 17 de bolognin de arzento" (Barile - Clarke - Nordio, pp. 233 s.).
La professione medica a Bologna, poco documentata, dovette procedere per il M. parallelamente all'insegnamento di filosofia naturale. Il 13 ott. 1463 ottenne una licenza di dieci giorni per curare Marco Pio da Carpi. Medico dei canonici regolari lateranensi del convento bolognese di S. Giovanni in Monte, il M. lo fu forse anche dei confratelli del monastero padovano di S. Giovanni in Verdara.
L'Historia di Bologna di Ghirardacci narra come nel 1454 egli avesse risanato l'intera famiglia di Pietro Machiavelli, avvelenata durante un banchetto di nozze. Nei rogiti del notaio e amico A. Argelata, il M. figura come "nobilis et famosissimus artium et medicinae doctor" (Sighinolfi, p. 190). In occasione della riesumazione delle spoglie della clarissa Caterina Vigri, avvenuta nel monastero bolognese del Corpus Domini, il M. eseguì l'esame del corpo della donna.
La considerazione goduta dal M. e le relazioni di parentela con il miniatore Matteo de' Pasti, attivo presso Sigismondo Malatesta tra il 1446 e il 1467-68, possono spiegare l'invito rivoltogli nell'ottobre 1457 da Domenico Malatesta detto Malatesta Novello, del quale fu il medico curante, a recarsi a Cesena: il soggiorno, concesso dalle autorità accademiche bolognesi, non dovette prolungarsi oltre l'agosto 1458 (Fabbri, p. 33).
Cesena rappresentava anche un fervido crocevia per la cultura umanistica, e la sensibilità antiquaria trapelava da più parti. Nel 1451 era giunto a corte Giovanni di Marco da Rimini, medico del signore di Cesena e suo consulente nell'allestimento della biblioteca; copista, possedeva una vasta raccolta libraria e antiquario dal profilo intellettuale simile a quello del Marcanova.
A Cesena si colloca una fase importante della genesi della silloge epigrafica del M., la prima, dopo Ciriaco, davvero ricca e sistematicamente organizzata del Quattrocento. Intrapresa negli anni padovani ma dedicata a Domenico Malatesta, dovette ricevere alla corte cesenate nuovo impulso. Tradita in almeno due redazioni, il testimone della prima (Berna, Burgerbibliothek, Mss., B.42), in gran parte realizzato da Felice Feliciano, consegna due date utili alla sua collocazione: il 1457 ("Quaedam antiquitatum fragmenta […] collecta 1457 kal. oct."), e il 1460 (c. Vv). Cinque testimoni vicini cronologicamente l'uno all'altro tramandano la seconda più ampia redazione. Nel sontuoso codice oggi a Modena (Biblioteca Estense e universitaria, Est. lat., 992 [a.L.5.15]), realizzato da un atelier di copisti probabilmente guidati da Feliciano (la legatura costituì un prototipo rinascimentale: Fumagalli), è stata identificata la copia di dedica forse mai offerta a Malatesta, morto il 20 nov. 1465: il frontespizio reca la data 1465; oltre Feliciano, che intervenne anche in altri testimoni della silloge, vi si avvicendarono ulteriori mani. Ma grande interesse artistico riveste per la presenza, nello stile di Ciriaco, di due fascicoli di disegni a inchiostro e tinte seppia raffiguranti usi, luoghi di Roma antica e monumenti, dei quali alcuni perduti, che non sono mai stati oggetto di analisi definitive (Lawrence tentò un confronto con i 15 disegni di un altro testimone, Princeton, University Library, Garrett Collection, 158, pensato forse per Costanzo Sforza). Inutili i tentativi di attribuzione a un artista (più volte si è pensato a Feliciano stesso): la peculiarità dell'illustrazione a tutta pagina potrebbe rimandare a Marco Zoppo e alla sua cerchia. La genesi di questi fogli sfugge ancora: la mano che li eseguì sembra non avere rapporto con la grafia dei testi e i rilievi di epigrafi e piccoli monumenti a essi intramezzati, e alcuni ritengono che debbano andare svincolati dalla data di allestimento del codice; è probabile tuttavia che il M. stesso abbia fornito indicazioni per esemplare i disegni. La successiva tradizione dell'opera si dipana dal ms. estense, in parte attraverso il Fonds lat., 5853F della Bibliothèque nationale di Parigi: in esso, come in quello di Princeton, è ancora una volta Feliciano il copista principale. Dall'Estense deriverebbe un manoscritto (Genova, Biblioteca civica Berio, m.r. XI.6.32, con un solo disegno a c. 151r), copiato nel 1483 circa per Stefano Gavoto, che lo integrò con aggiunte: presenta inoltre un nutrito gruppo di epigrammi latini e un poemetto per il cardinale Pietro Riario. Infine, una copia quattrocentesca finora ignota agli studi marcanoviani si trova nella Biblioteca nazionale di Firenze, Nuove accessioni, 1174 (già nella raccolta privata del principe Ginori Conti, 0092). Il codice estense sembra essere rimasto nella biblioteca del M.: è il "liber antiquitatum italicarum designatus pictus et auratus cum signaculis auratis in membranis in quadam sacheta tele viridis" (Sighinolfi, p. 214); come anche il manoscritto bernese ("liber antiquitatum Ioh. Marcanove in membranis": Vitali, 1983, pp. 136 s.).
I codici della seconda redazione (tranne quello genovese) sono gli unici testimoni di una lettera anepigrafa di Lorenzo Valla, datata da Campana al suo soggiorno a Napoli tra il 1442 e il 1448, su un'iscrizione greca napoletana (Corpus inscriptionum Graecarum [=CIG], III, n. 5791).
I Fragmenta del M. affondano le radici nel culto tutto padano per l'antichità, trovando solida base nella raccolta ciriacana, solo parzialmente sopravvissuta, mentre per le epigrafi di Roma attingono alle precedenti compilazioni di Poggio Bracciolini e Nicola Signorili. Ma la silloge restituisce anche la mappa dei rapporti del M. con gli antiquari del tempo, ne segnala le collezioni di marmi e i recuperi più freschi: le lapidi di Donà, dei Contarini, o l'iscrizione trovata nelle fondamenta del Castello sforzesco a Pesaro e trasportata nella dimora di Pandolfo Collenuccio (CIL, XI, 06435 =CIL, V, *00145,3); taciti i prelievi dalla silloge di Feliciano; diverse infine le lapidi recuperate dallo stesso M., che in casa sua conservava la statua bronzea di Priapo rinvenuta a Padova insieme con un'iscrizione (CIL, V, 1, 2803). Nella dedica a Malatesta, con un epigramma in limine, il M. si presentava come il primo "inquisitor vetustatis", artefice di un disegno di recupero dell'antichità attraverso la collezione di sparsi lacerti epigrafici a lungo trascurati; enigmatica resta la richiesta finale di protezione contro la perfidia di un nemico e rivale. Ribadendo programmaticamente il valore esemplare della storia e dell'eloquenza romana, il M. inseriva la propria operazione di recupero epigrafico in una visione totalizzante; significativa la presenza, in margine ai tituli, di un reticolo di rinvii agli auctores prediletti, antichi e nuovi, che nutrivano i suoi orizzonti culturali: la Naturalis historia di Plinio, l'Orthographia di Giovanni Tortelli, il De varietate fortunae di Bracciolini. Solo il testimone estense conserva quattro suoi epitafi: per Filippo Maria Visconti, Cristina di Sassoferrato, Paolo Veneto ed Erasmo da Narni detto il Gattamelata.
Che sia o meno da identificare con Giovanni Antenoreo, che insieme con il pittore Samuele da Tradate, Andrea Mantegna e Feliciano partecipò nel settembre 1464 alla mitica gita sul Garda con i vestiti "all'antica" a caccia di iscrizioni, narrata nella cosiddetta Iubilatio da Feliciano, il M. a quella data era tra i protagonisti del movimento antiquario tra l'area culturale emiliana e quella padovano-veronese (si contesta l'identificazione in Barile - Clarke - Nordio, pp. 39 s.). È ipotesi di Campana che già nel 1447 avesse commissionato al giovanissimo Feliciano l'allestimento di una silloge di iscrizioni per il vescovo Pietro Donà: certo nel 1465-66 il M. accolse Feliciano nella sua dimora a Bologna. E già presso Dandolo il M. aveva frequentato Biagio Saraceno - tra i primi a sperimentare nei codici l'uso della capitale epigrafica classica - e, per breve tempo, il copista e decoratore Andrea Contrario, interprete dei nuovi fermenti antiquari, mentre in area padana si affermava un nuovo tipo di libro il cui apparato decorativo traeva ispirazione dalle antichità e dalle suggestioni architettoniche di Roma.
In questi ambienti e accanto ai medesimi intellettuali operava Mantegna, con il quale è probabile che il M. abbia avuto contatti. Anche prima della sua partenza, il M. doveva rappresentare a Padova il principale referente per la ricerca epigrafica: alcune iscrizioni dipinte dal pittore tra 1448 e 1457 negli affreschi della cappella Ovetari per gli eremitani a Padova sono tramandate dalla sua silloge (Martindale).
Il prestigio culturale del M. si concretizzò e si accrebbe soprattutto nell'allestimento della magnifica biblioteca privata: all'epoca della sua morte constava di 521 manoscritti.
Se fino al 1452 il M. non aveva concepito alcun progetto sul suo cospicuo patrimonio librario, nel testamento del 1467 esso divenne il centro delle sue preoccupazioni: ai canonici lateranensi di S. Giovanni in Verdara, come già altri professori dell'ateneo padovano, il M. affidava il superbo lascito, assicurando il denaro necessario a trasportare i libri e a sistemarli negli scaffali; i canonici avrebbero potuto vendere i codici di medicina e utilizzare il ricavato per fornire gli altri di catene o per acquistarne di nuovi: nel 1468 108 volumi furono ceduti dai priori Celso da Verona e Lanfranco da Milano al medico padovano Girolamo, figlio del notaio Conte Dalle Valli. I canonici ebbero facoltà di scegliere quali libri inserire nella loro biblioteca e vendere gli altri "ad doctori e scholari padoani, et deli presii loro guardino sopra el mio inventario" (Barile - Clarke - Nordio, p. 243). Ma i libri acquisiti dal monastero non dovevano essere mai più rimossi né prestati; altrimenti sarebbero confluiti nella biblioteca dei deputati della Veneranda Arca di S. Antonio. Nel 1639 Tomasini elencò circa 120 codici; una ulteriore dispersione avvenne nel 1717, quando l'erudito sir T. Coke acquistò dal priore Ascanio Varese sei manoscritti appartenuti al M.; soppresso S. Giovanni in Verdara per ordine del Senato veneto, i codici del M. furono divisi nel 1784 tra l'Università di Padova e la Biblioteca di S. Marco a Venezia, ma gran parte della collezione era già stata venduta o dispersa.
Il testamento menziona due registri di prestito, per i propri libri e per quelli altrui; e anche due elenchi di libri, "inquadernadi" e "non quadernati messi in coperte" (ibid., p. 242). Non di tutti i codici è nota l'origine, tuttavia le note di possesso conservano tracce preziose per ricostruire il formarsi della raccolta: le circostanze dell'acquisto oppure la committenza diretta; si tende a credere che esse siano state apposte da un segretario in fase di riordinamento, non ab origine.
La biblioteca, tra le più ricche del tempo, riflette interessi filosofici, medici e letterari: i circa 130 codici rintracciati configurano i testi ritenuti utili in età umanistica alla formazione in ogni ramo del sapere. Constava interamente di manoscritti latini (al ritorno del greco il M. dovette rimanere sostanzialmente estraneo: possedeva solo due codici di Erotemata) acquisiti per l'uso personale e non con obiettivi collezionistici: per lo più manoscritti quattrocenteschi "universitari" di tipo goticheggiante, spesso arricchiti dalle postille del possessore e dove anche nella decorazione le forme tardogotiche convivono con il nuovo aspetto del manoscritto umanistico. La biblioteca, molto aggiornata sul versante del rinnovamento del pensiero filosofico, accoglieva le opere più cospicue della filosofia scolastica, da Aristotele e i suoi commentatori e traduttori arabi e medievali ai contemporanei; oltre ad Avicenna e Averroè, i commenti aristotelici di Biagio Pelacani, Paolo Veneto, Iacopo da Forlì, Pietro da Mantova, Gaetano Thiene, Nicoletto Vernia. Più numerosi naturalmente gli auctores registrati nell'inventario, anche se indicazioni troppo generiche e corruttele rendono talvolta ardue le attribuzioni: gli inglesi, da Walter Burley (almeno sei le copie del commento alla Fisica) a Thomas Bradwardine, Richard Swineshead, William Heytesbury, Ralph Strode; i francesi, in gran parte riconducibili allo Studio parigino, da Alberto di Sassonia a Marsilio di Inghen e Buridano; gli italiani, assai più di quelli superstiti, da Paolo della Pergola ad Apollinare Offredi, Gaetano Thiene e Paolo Veneto.
Sfocati ancora risultano ruolo e incidenza del M. nella storia dell'aristotelismo padovano: la sua biblioteca accoglieva però ben 62 codici aristotelici, 47 dei quali conservati presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia. Partecipe del rinnovamento culturale, il M. si accostava al filosofo attraverso i commenti scolastici, ma anche leggendo direttamente l'Aristoteles Latinus, scevro dalle incrostazioni medievali. L'ingente presenza di Averroè rispecchia l'impostazione scientifica e razionalista della scuola padovana: apporto filologico significativo del M. al commento al De interpretatione aristotelico è rappresentato dalle correzioni al codice Mss. lat., cl. IV, 53 (=3264) della Biblioteca nazionale Marciana. Infine, secondo Nardi, il M. potrebbe aver fatto allestire a Bologna un esemplare con le opere complete di Sigieri di Brabante che tuttavia nel 1639 non si trovava più nel monastero viridariano.
Non mancano commenti a Ippocrate e Galeno, Avicenna, Averroè, Albuchasis, Serapione; e poi a Giovannicio, i Consilia di Taddeo Alderotti, le opere di Marsilio Santasofia. La raccolta annoverava anche un certo numero di classici latini, dalla poesia alla retorica alla storia; per nulla rappresentate le opere volgari, moderatamente la letteratura umanistica coeva: oltre alle traduzioni, l'Orthographia di Tortelli (almeno due copie nell'inventario; il 14 febbr. 1467 una ne veniva commissionata a Francesco da Fano: Sighinolfi, p. 190), l'Orthographia e i commenti di Gasperino Barzizza, l'invettiva di Benedetto Morandi contro Valla, l'epistola di Timoteo Maffei Ad principes Italiae, i Commentarii di Leonardo Bruni, Gian Mario Filelfo e Tommaso Seneca, il De ortu Gothorum e De ritu, situ, moribus et cond. Germanorum di Pio II; il M. possedeva inoltre tutta l'opera di Biondo Flavio (una copia della Roma triumphans dall'esemplare di Lianoro Lianori) e altri materiali di interesse antiquario come il De varietate fortunae di Poggio Bracciolini e il De amplitudine, de vastatione et de instauratione urbis Ravennae di Desiderio Spreti, ricco di iscrizioni locali; rilevante la presenza di Giovanni Boccaccio e del Petrarca latino.
Nell'ultimo decennio della vita del M., Antonio Zupone e Feliciano allestirono per lui libri più aderenti alle forme umanistiche: oltre che nella silloge epigrafica collaborarono in molti altri manoscritti. Zupone visse in casa del M. dal 30 ag. 1461 al 18 maggio 1463 e svolse un ruolo peculiare anche nella gestione della biblioteca, dove nel 1460 trascrisse parte di un inventario. Gli sono stati di recente attribuiti cartolazioni, indici, rubricazioni, nonché note di possesso precedentemente rivendicati al M. stesso. Non è escluso tuttavia che il M. avesse ideato un modello per questi personali ex libris e per l'organizzazione interna dei libri. Anche Feliciano operò a vari livelli nella biblioteca: i suoi interventi, talvolta solo brevi giunte policrome, dovrebbero essersi concentrati tra il 1464 e il 1466 (nei codici compare solo una volta l'anno 1466); l'allestimento del codice estense rappresentò il suo lavoro maggiore per il M., e le copie della silloge potrebbero testimoniare l'esistenza di un piccolo scriptorium da lui diretto (Marcon, 1988, pp. 542-553).
È singolare, a fronte di un così ingente patrimonio librario, la quasi totale assenza di una autonoma produzione letteraria riconducibile al Marcanova. Quasi inesistenti gli scambi epistolari con altri umanisti, segno di una dimensione in fondo ristretta ai pochi centri culturali nei quali svolse il suo ruolo professionale; e neppure è emersa finora traccia delle sue lezioni universitarie, tenute per un ventennio. Probabilmente non si curò mai di raccogliere in un corpus le expositiones preparate per la didattica, e forse i suoi quaderni di appunti, magari non rilegati, furono subito alienati dai monaci. Al M. si devono con certezza solo l'orazione per la nomina vescovile di Dandolo e la silloge epigrafica, con dedica e componimenti poetici. Una prima radiografia della silloge con spoglio sistematico dei tituli si trova nel CIL, III, 1, pp. XXIX, 272; V, 1, pp. 319 s., 426 ss.; VI, 1, p. XLII e in Inscriptiones Christianae urbis Romae, II, 1, pp. 392 s.
Un'epistola di Matteo Bosso restituisce l'unico efficace ritratto umanistico del M.: attraverso il dono di due antiche monete d'argento appena ricevute, Bosso evidenziava la passione antiquaria del M., attribuendogli anche un peculiare interesse per le effigi degli uomini illustri, traccia evidente di quanto ancora a Padova fosse viva l'esemplaristica pittorica ispirata al De viris illustribus di Petrarca. Bosso sarà l'ideatore del piano pittorico dell'antica sala della biblioteca viridariana, dipinto da un artista della bottega dei Canozi-Degli Abati e raffigurante otto personaggi: in essi Tosetti Grandi ha proposto di identificare quanti donarono al monastero i loro nuclei librari: il M. sarebbe raffigurato nel terzo ritratto della parete sinistra della biblioteca.
Poco significative invece le due lettere di raccomandazione inviategli dal domenicano Gioacchino Castiglioni, menzionate dall'erudito settecentesco T. Verani da un codice perduto nell'ultima guerra: educato a Venezia presso il mercante Giovanni, egli a sua volta volle affidare un giovane parente di nome Tommaso al M., allora a Bologna, che però poco dopo rinviò il ragazzo a Milano.
Ancora da identificare la ben precisa compilazione citata dal M. stesso nella silloge epigrafica, il liber noster "quem de dignitatibus Romanorum, triumpho et rebus bellicis composuimus" (si cita dal manoscritto estense, c. Vv), probabilmente materiali esegetici di supporto alla raccolta di iscrizioni (secondo Sighinolfi il libello, inizialmente congiunto dall'autore alla silloge, ne fu successivamente disgiunto): genericamente indicato, nell'inventario, un "Opusculum Iohannis Marchanovae cum armis d. Iohannis" (Sighinolfi, p. 209). A un corpus di orazioni composte dal M. ha fatto pensare, nello stesso elenco, un "Liber diversarum orationum in papirro", che anche Tomasini segnalava nel 1639 nella Biblioteca di Padova. Solo un equivoco scaturito da più tarde note sulla carta di guardia del codice ha generato l'errata attribuizione al M. dell'Expositio commentariorum Averrois in libros VIII Physicorum Aristotelis, adespota nei suoi codici (Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. lat., cl. VI, 103-104 [=2814-2815]), e invece da rivendicare a Urbano Averroista, come è stato chiarito da Nardi.
Dell'inventario dei codici e delle suppellettili del M., stilato il 2 ag. 1467 dai commissari testamentari, esistono due copie: una pubblicata da Sighinolfi (conservata presso l'Archivio di Stato di Bologna), l'altra redatta dal notaio Gregorio Rovorbella e probabile copia della prima, donata alla Biblioteca Estense nel 1906 da F. Jacoli (Est. lat., 1234 [=αK4.31], cc. 1-8). Questo secondo elenco è privo del numero romano che nell'altro spesso affianca la descrizione dei singoli codici e potrebbe corrispondere alla loro collocazione nella libreria del Marcanova. I preziosi furono inventariati quando giunsero in S. Giovanni in Verdara, ma sono oggi di difficile identificazione.
Le carte del notaio Argelata tramandano la narrazione degli ultimi istanti di vita del M., che morì il 31 luglio 1467 a Bologna.
Scardeone segnalò la tomba della famiglia nella chiesa di S. Agostino in Padova, ma del M. si ignora il luogo di sepoltura. Egli aveva trascritto le ultime volontà in un libro che conservava gelosamente; lette le disposizioni ai presenti, le confermò e Argelata trattenne il libro. Il testamento, in volgare ("non se meravigli persona se el scrivo per vulgare, perché io el fazo per più intelligentia e bono rispecto"; Barile - Clarke - Nordio, p. 241), dispone, come nel 1452, un funerale riservato e una sepoltura senza lusso né memoria. Parte dei libri andava venduta per soddisfare il cugino Alvise di 140 ducati. Nell'atto il M. ricordava l'inventario bolognese; vi avevano collaborato un "Zohannefrancesco" e Zupone. Infine lasciava alcuni effetti personali ai frati di S. Michele in Bosco, "el mio breviario" alle monache del Corpus Domini; al cugino Alvise l'anello da bolla con l'arma di famiglia (Barile - Clarke - Nordio, pp. 241 s.).
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