FALCONETTO (Falconeto), Giovanni Maria
Figlio del pittore Iacopo (I), nacque a Verona nel 1468 c.: è il più famoso rappresentante di una vera e propria dinastia di artisti (cfr. la voce in questo Dizionario); come per questi, almeno per quanto riguarda la documentazione veronese, soccorrono soprattutto le ricerche d'archivio del Gerola (in particolare 1909) e del Brenzoni (1953-1954).
Il F. è segnalato col padre nelle anagrafi del 1472, 1481 e 1491. A Verona visse quasi sempre alla Beverara, cioè nei pressi della chiesa di S. Zeno da cui derivò il soprannome di "Rosso di S. Zeno" (Vasari, 1568). Nel 1490 un tal "Zuan Maria pitor", facilmente identificabile col F. (Simeoni, 1909), lavorava alla decorazione pittorica dell'organo di S. Zeno, mentre negli anni 1497-1499, come attestano documenti e firme, il F. attendeva, con altri colleghi, alla decorazione pittorica della cappella di S. Biagio nella chiesa veronese di S. Nazaro. Del 1498 è l'atto dotale per le sue nozze con Elena, figlia del tessitore Provalo della Beverara: dal matrimonio nacquero una diecina di figli (cfr. la voce Falconetto in questo Dizionario). Sono datati 1500, come è emerso nei recenti restauri (Cova, 1988), gli affreschi all'altare dei Maffei nel duomo di Verona raffiguranti la Deposizione e la Resurrezione di Cristo. Nel 1501 il F. è documentato, come teste, in un atto notarile; nel 1502 presentò una supplica al Comune per poter restaurare la propria casa alla Beverara ed aprirvi uno studio per la sua attività (Simeoni, 1912); nello stesso anno fu estimato in proprio. Nel 1503 firmò e datò gli affreschi attorno all'altare dei Calcasoli nel duomo di Verona; appare inoltre come teste in un documento steso nella fattoria del monastero di S. Maria in Organo.
Nel 1507-1508 è invece, per la prima volta, documentato fuori Verona: a Trento per il cui duomo dipinse, con l'aiuto del fratello Tommaso, le ante d'organo oggi conservate nella chiesa di S. Maria Maggiore (Rognini, 1972-1973). A Trento compare nuovamente nel 1514 per il restauro della pala di S. Vigilio nella cattedrale (Zanolini, 1889); nello stesso anno è segnalato nelle anagrafi veronesi. Tra il 1509 e il 1516, forse proprio nel 1514 (Gerola, 1912), lavorava come frescante, su commissione di due consiglieri tedeschi dell'imperatore Massimiliano, nella chiesa di S. Giorgetto, o S. Pietro Martire, dei domenicani di S. Anastasia. Alla Beverara compare ancora nell'estimo del 1515, nell'anagrafe del 1517, infine nell'estimo del 1518; nel 1521, secondo un documento citato dal Gerola (1915), è ancora documentato a Verona. Ma ormai era imminente il trasferimento a Padova.
A questo punto si innesta la prima parte della biografia contenuta nelle Vite del Vasari: secondo lo storico aretino, il F. "imparò i principi della pittura dal padre" (Michiel, 1525-30, parla invece di Melozzo da Forlì) "e gli aggrandì e migliorò assai, ancorché non fusse anch'egli pittore di molta reputazione ... Avendo dunque conosciuta la poca perfezzione del suo lavorare nella pittura, e dilettandosi sopra modo dell'architettura, si diede a osservare e ritrarre con molta diligenza tutte l'antichità di Verona sua patria" (p. 590). Tale vocazione verso l'antico e verso l'architettura avrebbe in seguito spinto l'artista, sempre secondo il Vasari, ad un primo soggiorno a Roma, il primo di una lunga serie, durato ben 12 anni, che, a rigor di logica, inserito in tale racconto invero poco coerente dal punto di vista del registro dei tempi, andrebbe datato quanto meno dopo l'impresa in S. Nazaro del 1497-1499. In realtà la fitta documentazione disponibile non consente, in tutta la vita dell'artista, un soggiorno fuori sede di cosi lunga durata, meno ancora dopo il 1500, considerato anche che gli affreschi in S. Nazaro contengono non solo sufficienti richiami e citazioni dal mondo degli antichi, ma anche una serie di suggerimenti che implicano già a queste date una precisa conoscenza di fatti pittorici centroitaliani.
La prima opera ascrivibile al F., le due ante dell'organo di S. Zeno, oggi a S. Procolo (in deposito dalla Pinac. comunale), raffiguranti la Annunciazione e i ss. Zeno e Benedetto, va collegata al citato documento del 1490 (Simeoni, 1909) nonostante l'ascrizione delle guide veronesi e dei cataloghi della Pinacoteca a Bernardino da Murano, Bernardino da Brescia o Bernardino da Verona (Trecca, 1912, p. 133) e nonostante i dubbi recenti della critica (Marinelli, 1988).
La figura di s. Zeno, in particolare, lega, pur in un contesto più arcaico (tra persistenze tardogotiche e mantegnismo alla Francesco Benaglio), con i modi tipologici e grafici delle opere più tarde, mentre la stessa esuberante decorazione a candelabre vegetali sulle lesene che suddividono le scene, già aggiornata sul repertorio rinascimentale, ma tanto fitta e calligrafica da richiamare l'horrorvacui del gotico estremo, preannuncia l'intenso e un po' capzioso decorativismo, diventato di matrice antiquaria, della produzione pittorica dal 1497 in poi. La mancanza in questi due dipinti di citazioni dal repertorio ornamentale antico-romano e di richiami alla coeva cultura centroitaliana fa ritenere probabile una datazione del soggiorno romano ricordato, con qualche esagerazione, dal Vasari, posteriore appunto al 1490 (nel 1491 il pittore era ancora a Verona) e anteriore al 1497, quando il F. ricompare a Verona nei documenti relativi a S. Nazaro e con modi ormai implicanti l'esperienza romana.
A Roma, sempre secondo il Vasari, e con trasferte "in tutta la campagna di Roma infino nel regno di Napoli, nel ducato di Spoleto et in altri luoghi", l'artista, che si guadagnava da vivere lavorando due o tre giorni alla settimana come aiuto di altri pittori, vide e disegnò "tutte quelle mirabili antichità, cavando in ogni luogo tanto che potesse vedere le piante e ritrovare tutte le misure, né lasciò cosa in Roma, o di fabrica o di membra, come sono cornici, colonne e capitegli di qualsivoglia ordine, che tutto non disegnasse di sua mano con tutte le misure. Ritrasse anco tutte le sculture che furono scoperte in que' tempi, di maniera che dopo detti dodici anni ritornò alla patria richissimo di tutti i tesori di quest'arte" (p. 590).
Tale esperienza dell'"antico", rinverdita a detta del Vasari da numerosi ritorni a Roma anche negli anni successivi, connota dunque la produzione pittorica e grafica dell'artista già a partire dagli ultimi anni del Quattrocento.
Per questo periodo, e per i primi due decenni del Cinquecento, non possediamo invece documentazione e proposte concrete sul versante della architettura (con poche eccezioni, come ad esempio l'attribuzione, affascinante ma non dimostrabile, della Cuppini, 1981, relativa a Ca' Querini a Pressana, del 1500); tuttavia non si può escludere la responsabilità progettuale del F. nelle fabbriche veronesi in cui si trovò a dipingere (non però in casi come la cappella di S. Biagio a S. Nazaro, come invece è stato talora ipotizzato [cfr. G. Biadego, La cappella di S. Biagio..., estr. da Nuovo Archivio veneto, IX (1906), p. II], in quanto la costruzione venne iniziata sotto la direzione di Beltrame larola di Valsolda già nel 1488, ben prima della comparsa documentata del F. in quella sede). Certo è che sembra da negare finalmente la troppo rigida ma corrente distinzione tra un F. pittore per tutto il periodo veronese e un F. architetto per quello tardo padovano; infatti la piena maturità architettonica dimostrata fin dal presunto esordio padovano alla loggia Cornaro di necessità presuppone una più ampia esperienza precedente.
Nella cappella di S. Biagio, dove il F. è presente negli anni 1497-99, gli spetta l'ideazione del programma decorativo degli affreschi e del loro telaio architettonico, un tutto unitario nonostante la documentata presenza di vari artisti. Esclusi gli affreschi un po' più tardi nella parete d'ingresso (di P. Cavazzola) e nella zona absidale (di B. Montagna), al progetto falconettiano dobbiamo, a livello innanzitutto ideativo, la decorazione delle due pareti laterali, dei pennacchi, del tiburio e della cupola; con il F. i documenti segnalano però, come autore di metà opera, anche Domenico Morone, cui giustamente la Cuppini (1978) ha restituito parte dei Santi, Profeti e Angeli nel tiburio e nella cupola, nonché Francesco Morone e un tal Zuan Giacomo.
Al F. direttamente spettano: tutta la decorazione monocroma, che imprime all'ambiente la suddivisione spaziale-architettonica (in parte con l'aiuto della bottega, a giudicare dalle disparità qualitative); gli evangelisti Luca e Matteo in due pennacchi, entrambi firmati nelle cartelle sottostanti; parte delle figure nel tiburio e nella cupola; i lunettoni delle due pareti laterali (ma quello di sinistra forse con la collaborazione di aiuti); i due Santi, infine, nell'ordine mediano della parete di destra.
Il ciclo si caratterizza nel complesso per il carattere "antiquario" dell'esuberante decorazione a finti rilievi, grottesche (forse qui per la prima volta esperite in ambiente veronese), fregi ecc., più vicino però, in quel suo gusto romanticamente esagerato, fanatizzante, agli esperimenti dall'antico di un Amico Aspertini che non alla scientifica asettica archeologia di A. Mantegna; rivela inoltre la conoscenza di fatti pittorici centroitaliani la decorazione prospettica della cupola, che è stata giustamente collegata dalla critica agli affreschi di Melozzo da Forlì nella sacrestia del santuario di Loreto e alla citata affermazione del Michiel di un vero e proprio alunnato presso questo pittore. In realtà, oltre che per Melozzo, si può immaginare l'interesse del F., a Roma, anche per altri aggiornati fatti pittorici degli anni Ottanta-Novanta, tutti già intrisi di cultura antiquaria, a cominciare dagli affreschi sulle pareti della Sistina (1481-1482).Tale esuberante decorativismo antiquario ritorna anche nell'affresco raffigurante, a mo' di arco trionfale, un prospetto architettonico su più piani scompartito in nicchie e aperture entro le quali sono collocate le figure di Santi sulla parete attorno alla cappella dei Calcasoli del duomo di Verona, firmato e datato 1503.
Il prospetto è analogo ad altri cinque, tutti di difficile lettura per il pessimo stato di conservazione, sulle pareti delle navate laterali attorno alle altre cappelle (complessivamente costruite tra il 1465 c. e i primi anni del '500): di tali prospetti, alternativamente attribuiti o negati al F., sembra spettargli anche quello attorno alla cappella degli Emili (attribuitogli del resto dallo stesso Vasari), forse precedente di qualche anno quello della cappella dei Calcasoli. Non si può inoltre escludere che al F. spetti l'ideazione dei prospetti architettonici attorno ad altre cappelle, anche se vennero eseguiti da altri artisti.
Vistose citazioni "antiquarie", sul piano sia decorativo sia architettonico, sono infine presenti anche nelle ante dipinte nel 1507-1508 in collaborazione con il fratello Tommaso per il duomo di Trento, oggi a S. Maria Maggiore, raffiguranti i Ss. Pietro e Paolo e l'Annunciazione.
Attorno a tale produzione documentata o datata si può raggruppare buona parte della produzione pittorica e grafica attualmente nota, da collocare entro i primi anni del secolo per il suo caratterizzarsi, rispetto ad esempio agli affreschi Calcasoli, in senso ancora quattrocentesco, con effetti più grafici che plastici o pittorici.
Al soggiorno romano degli anni Novanta potrebbero spettare in toto i disegni dall'antico, libere interpretazioni e manipolazioni di motivi derivati da rilievi romani: il foglio con Due medaglioni con scene romane e la Teoxenia di Dionisio dell'Albertina di Vienna (nn. 13247 e 13248), il Trionfo di un imperatore del Kupferstichkabinett di Dresda (n. 431), la Scena romana del British Museum di Londra (n. 334). Vicini agli affreschi in S. Nazaro e a quelli datati 1500 all'altare Maffei in duomo sembrano invece: i fregi a chiaroscuro affrescati in casa Vignola e in palazzo Verità ai Leoni a Verona; il cassone decorato dell'Isabella Stewart Gardner Museum di Boston; il disegno raffigurante S. Pietro della Fondazione Miniscalchi Erizzo di Verona; il fregio sulla facciata di palazzo Franchini Malaspina in via Emilei, 20; la decorazione ad affresco sui due prospetti della casa Trevisani Lonardi tra vicoletto cieco Pozzo S. Marco e vicolo S. Marco in foro, una delle più ampie decorazioni superstiti del F., ancorché guasta (e comunque valutabile anche sulla base di vecchie foto e dei disegni acquarellati nell'Ottocento da Pietro Nanin in collezione privata veronese); la decorazione, infine, intorno all'altare Manzini in S. Anastasia.
Ai molti studi dello Schweikhart dobbiamo preziose indicazioni sulle fonti antico-romane dei motivi decorativi con disinvoltura utilizzati qua e là dal pittore, che a volte replica lo stesso particolare in cicli diversi, magari in controparte, e il cui approccio con l'antico è comunque "acritico, interessato solo ai contenuti delle figurazioni e non già ai diversi linguaggi degli autori antichi e alle differenti tendenze - nei secoli - della plastica romana, che egli livella a una antichità standard e di mera rappresentanza" (Cuppini, 1981, p. 402). In più, tale produzione si caratterizza per i risultati quasi sempre graficamente sgradevoli del particolare, della tipologia, dello scorcio anatomico.
Il resto della produzione pittorica dell'artista sembra invece databile dopo le ante trentine e ruotare stilisticamente attorno all'affresco allegorico in S. Giorgetto da Verona, databile verso il 1514 e comunque tra il 1509 e il 1516: una produzione in cui il F. non supera certe sgradevolezze disegnative, ma che si caratterizza comunque, almeno a livello di tentativo, per forme più mature, che cercano di superare la bidimensionalità grafica delle opere precedenti e di raggiungere più complesse articolazioni spaziali.
Analogo, ma in un certo senso maturato tanto da presagire la produzione architettonica padovana, resta comunque l'insistente richiamo all'antico, ora citato non solo nel singolo dettaglio, ma anche soprattutto secondo un'ottica più propriamente architettonica e monumentale, con vere e proprie ricostruzioni di monumenti concretamente collocati, ora con attenta articolazione spaziale, negli sfondi paesaggistici. Inoltre vi si nota un aggiornamento del pittore su nuovi episodi della pittura centro-italiana, tale da postulare la conoscenza dei cicli pittorici del Peruzzi, o della Biblioteca Piccolomini nel duomo di Siena di Pinturicchio, o anche, forse, degli affreschi nella cappella Strozzi in S. Maria Novella a Firenze di Filippino Lippi: in qualche modo il discorso del F. corre parallelo ad alcuni episodi eccentrici d'area bolognese-ferrarese e romagnola, da A. Aspertini e I. Ripanda a F. Zaganelli e M. Palmezzano, coi quali non vanno esclusi contatti diretti.L'affresco in S. Giorgetto, con tracce di firma, raffigura una complessa Allegoria dell'Annunciazione coi ritratti dei cavalieri tedeschi Hans di Weineck e Gaspare di Künigl; della stessa mano sembra essere quanto si legge su una vela della volta sovrastante, con resti di grottesche lungo i costoloni e un tondo con la figura a mezzo busto di S. Giorgio. Caratteri analoghi si riscontrano in altre opere: l'importante ciclo ad affresco con i Mesi e lo Zodiaco in una sala del palazzetto annesso a palazzo D'Arco a Mantova, collegato all'analogo ciclo dei Mesi affrescato dal Pinturicchio a Roma nel palazzo di Domenico Della Rovere (Fiocco, 1965); il disegno n. RF1075 del Louvre con un Progetto per una tomba; l'Augusto e la Sibilla su tavola del Museo di Castelvecchio (dal convento della Ss. Trinità), opera ambientata come in un proscenio con edifici classici sul fondo (ma R. Longhi, Ampliamenti..., 1940, in Officina ferrarese, Firenze 1975, p. 181 nota, nega tale tavola al F.); la paia e gli affreschi della cappella Nichesola in S. Fermo Maggiore a Verona, datati 1528 se si presta fede al cartiglio sulla pala.
Analoga datazione potrebbe infine avere l'inedito fregio sottogronda sui due prospetti dell'edificio in via S. Maria in Organo, 2, a Verona, con Creature marine monocrome, chiaramente falconettiane ma rese con tono più morbido rispetto ai più antichi fregi dell'artista.
Vasari, ricordando questi anni in cui Verona era sotto il dominio dell'imperatore Massimiliano, segnala, oltre ad opere non specificate per Luigi Gonzaga a Mantova (una notizia probabilmente da riferire proprio agli affreschi oggi detti di palazzo D'Arco) e per Osimo nelle Marche, anche una vasta attività filoimperiale, perduta, dell'artista quale l'affrescatura delle armi imperiali su tutti i palazzi pubblici della città, nonché, sul versante privato, "un'arme grande con certi trofei sopra" sulla facciata di una casa dei Della Torre; per lo storico aretino, ritornata Verona sotto Venezia (1517), il F. si sarebbe dovuto allontanare, per sicurezza, dallo Stato veneto trovando rifugio e lavoro a Trento. In realtà, mentre a Trento è documentato solo nel 1507-1508 e 1514, nel 1517 e 1518 l'artista era certamente a Verona, dove si trovava anche nel 1521. Dopo quest'ultima data (e certo prima del 1524) inizia il soggiorno padovano del F. che durerà, quasi ininterrotto, fino alla morte. A Padova l'artista incontrò Alvise (Corner), nella cui casa finì per stabilirsi, e qui sarebbe avvenuto il presunto esordio architettonico del F. sotto l'egida appunto dell'illustre protettore-amico, a sua volta dilettante e praticante di architettura; tanto che le opere architettoniche padovane del F., almeno in parte, sono state ricondotte ad una sorta di collaborazione progettuale tra i due, e certo dovettero nascere all'interno di un ampio dibattito a più voci.
Negli anni padovani, secondo il Vasari, il F. avrebbe fatto anche altri viaggi; vari a Roma, uno dei quali in compagnia del Cornaro, e uno a Pola per vedere e disegnare i monumenti romani conservati nella città istriana. Del 1524 è la loggia nel cortile di casa Cornaro, datata e firmata, chiaramente imitante la frons scenae del teatro antico e infatti utilizzata per rappresentazioni teatrali (com'è noto, in casa Cornaro col F. abitava anche Ruzzante: il piano superiore sembra però una aggiunta di poco più tarda; cfr. G. Bresciani Alvarez, in Alvise Cornaro..., 1980, pp. 36 s.), non prevista nel primitivo progetto. Il soggiorno del F. in casa Cornaro è documentato da due atti, in cui egli compare come teste, stesi in casa Cornaro nel 1524, il 13 settembre e il 27 novembre, e ancora da documenti del 9 luglio 1526 e del 27 maggio 1527 (Menegazzo-Sambin, 1964).
Firmata e datata 1528 è la porta S. Giovanni; nel 1529 il F. era di nuovo, momentaneamente, a Verona risultando registrato nell'anagrafe di quell'anno; del 1530, anno in cui è di nuovo documentato in casa Cornaro (ibid.), è la porta Savonarola, pure firmata, a Padova, mentre risulta di nuovo a Verona nel 1531 (è segnalato nell'estimo della contrada di S. Zeno Superiore). Del 1532 è la porta del palazzo del capitanio a Padova, firmata; in quell'anno il F. fece un viaggio a Vienna per visitare e rilevare le fortificazioni di quella città (Brenzoni, 1972); e sempre nello stesso anno la Scuola grande della Misericordia di Venezia gli chiese un progetto di ristrutturazione della propria sede (Huse-Wolters, 1986).
Nel 1533 l'artista firmò il contratto per i lavori nella cappella dì S. Antonio al Santo di Padova, ai quali attendeva ancora nel 1534 (Gonzati, 1852): sotto la sua direzione, oltre ai figli Ottaviano e Provolo, lavoravano Tiziano Aspetti detto il Minio, Giacomo Colonna e Andrea da Valle. L'ultima notizia diretta è del 1534, quando ottenne a Verona un salvacondotto per due mesi.
La morte del F. cade tra gli ultimi giorni del 1534 e i primi del 1535: l'8 gennaio di tale anno fu compilato l'elenco delle poche cose lasciate dal defunto in casa Cornaro a Padova (tra cui otto disegni relativi a monumenti veronesi, quattro relativi a Pola, venti a Roma, oltre ad altri disegni "de pitura") e il giorno successivo venne fatta la consegna degli oggetti ai figli dell'artista (Lovarini, 1925).
Il Vasari ricorda anche i seguenti lavori degli anni padovani: un progetto mai realizzato per i domenicani di S. Maria delle Grazie; un progetto di palazzo, iniziato ma mai concluso, per Girolamo Savorgnan a Osoppo nel Friuli; due progetti mai eseguiti per monumenti sepolcrali da farsi in S. Salvador a Venezia in onore di Caterina Cornaro e del card. Marco Corner. Il Michiel (1525-30) parla invece di lavori ad affresco in casa Cornaro a Padova, nella cappella e nello scalone.
Al F. spettano infine i seguenti lavori di architettura, non menzionati dal Vasari e spesso in rapporto con la committenza del Comaro: l'Odeo nel cortile dell'amico, a fianco della loggia del 1524, la conduzione dei lavori alla loggia dei Consiglio, il piano superiore del Monte di pietà, l'arco di villa Benvenuti (già Cornaro) ad Este, la villa dei Vescovi a Luvigliano, la facciata della parrocchiale di Codevigo e l'altare di S. Antonio all'interno, un'altra costruzione di pertinenza vescovile (distrutta) a Campagna Lupia.
A detta del Vasari, "fu il primo Giovanmaria che portasse il vero modo di fabricare e la buona architettura in Verona, Vinezia et in tutte quelle parti" (p. 593): evidentemente la conoscenza che il F. dimostrò della trattatistica e dell'architettura romana, di quella antica come di quella coeva (soprattutto Vitruvio da un lato, Peruzzi dall'altro), e l'interpretazione che di essa diede nelle proprie fabbriche non solo concorsero ad aggiornare il repertorio architettonico e decorativo nel Veneto, ma anche costituirono un primo momento di rielaborazione e reinterpretazione in senso autoctono di quella cultura, tale da rappresentare un punto di riferimento per tutta la successiva architettura locale, dal Samnicheli al Palladio. Vero è però che l'habitus mentale dell'artista sembra sempre affondare le proprie radici in una cultura formativa tardoquattrocentesca: ne deriva il carattere compatto, chiuso delle sue realizzazioni architettoniche che raramente comunicano con l'ambiente esterno e rappresentano in tal senso dei precedenti piuttosto per il Sanmicheli che non per il Palladio. Certo, in anticipo sugli illustri successori, non solo il F. attribuì da subito valore "scenografico" (inteso proprio in senso teatrale) alla sua architettura, ma anche intuì in senso veneto il potenziale pittorico dell'architettura, animando le proprie fabbriche di arcate, logge, nicchie, colonne, lesene, decorazioni plastiche, che creano un ininterrotto dialogo chiaroscurale sulle superfici.
Il suo approccio con l'antico tradisce implicazioni da "dilettante" e perciò sentimentali ed emotive, piuttosto che rigorosamente scientifiche, tant'è che egli tende in qualche modo a svalutare il valore portante di alcune membrature, ad esempio di colonne e lesene, spesso inserite più che altro in funzione decorativa, anticipando così, almeno in parte, certe libertà formali dell'architettura manierista. Di questa non anticipa invece le irregolarità e gli effetti dissonanti, preoccupato com'è delle corrispondenze, delle simmetrie, della rigorosa delimitazione dell'organismo creato, della regolare successione sulle superfici di arcate, finestre, lesene.
Tuttora, in relazione al Palladio, resta aperto il problema dei disegni del F., restitutivi di monumenti romani e della loro identificazione: nel corpus grafico palladiano qualcuno ha infatti tentato di isolare alcuni esempi come appartenenti all'architetto veronese (Zorzi, 1958 e 1963-1964), ma senza trovare l'assenso della critica recente che pure presuppone il F., e suoi disegni perduti, almeno come fonte per alcuni fogli palladiani dall'antico (H. Burns, in Palladio e Verona, 1980, p. 84). Altrettanto si è pensato (Schweikhart, 1977) ad una fonte falconettiana per le ricostruzioni di Giovanni Caroto dei due prospetti della romana porta Leoni a Verona, fantasiosamente interpretata con una esuberanza decorativa di statue e rilievi che effettivamente ricorda i modi del F., per esempio in certi suoi cicli ad affresco. Tale esuberanza connota anche il Progetto per un monumento funebre, disegno n. UA2194 degli Uffizi di Firenze, riferito al F. tardo dal Burns (1980), ipotesi accettabile solo se si suppone, per l'esecuzione delle figure disegnate sui sarcofagi e sul coronamento, l'intervento dì un aiuto, quale poteva essere uno dei figli.
Sempre in relazione agli anni padovani appare di norma sottovalutato l'altro aspetto del F., quello di pittore e decoratore di interni: naturalmente, soprattutto per i rilevanti impegni come architetto, la sua attività in tal campo dovette allentarsi (resta però l'indicazione del Michiel di dipinti perduti in casa Cornaro), e tuttavia va sottolineato il ruolo da lui sostenuto, nelle sue fabbriche, almeno di progettista e coordinatore del lavoro altrui, se non proprio di esecutore, per quanto riguarda le decorazioni plastiche e pittoriche alla "romana", ormai già di evidente ispirazione manierista e aggiornate sulle decorazioni del Peruzzi, di Giovanni da Udine, ecc. Infatti a lui e ai suoi progetti facevano capo vari artisti, pittori, lapicidi e stuccatori: non solo i figli Alessandro, Provolo e Ottaviano, nonché, forse, il futuro genero Bartolomeo Ridolfi, ma anche alcuni padovani dell'entourage del Cornaro, come Tiziano Aspetti e Gualtiero Padovano.
È evidente ad esempio il carattere falconettiano di alcuni motivi decorativi: nella loggia, i mascheroni-chiavi d'arco in pietra derivanti dagli analoghi motivi affrescati nella sala di palazzo D'Arco; oppure, nell'Odeo, le grottesche affrescate in stretti rettangoli sulla volta della stanza in fondo a sinistra, oppure il motivo di mostruose creature fitomorfe dal lunghissimo ritorto collo negli stucchi sotto la volta della stanza a destra presso l'ingresso, motivo che era già stato usato in alcuni brani del fregio in alto nella decorazione pittorica della sala mantovana (particolari questi che, se non comportano necessariamente un intervento diretto del F., sembrerebbero comunque negare la proposta di Bresciani Alvarez - in Alvise Cornaro..., 1980 - di posticipare oltre la morte del F. l'attuazione architettonica, e quindi anche decorativa, dell'Odeo e di riferirla al solo Cornaro). Del resto, a leggere il Vasari, che fa del F. una sorta di divulgatore nel Veneto della ritrovata tecnica dello stucco, da lui insegnata ai figli e ad altri, non va escluso qualche intervento diretto dell'artista anche come stuccatore.
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