LAMPREDI, Giovanni Maria
Nacque il 6 apr. 1731 a Rovezzano (Firenze), da Gaetano di Cosimo, "fornaio di fuori la porta a S. Friano" (Firenze, Biblioteca nazionale, Mss., Nuovi Acquisti, 1050: G. Pelli [Bencivenni Pelli], Efemeridi, s. 2, XX, p. 4529) e da Margherita di Michele Puccini. La famiglia, di modeste origini, aveva la cittadinanza fiorentina. Un fratello maggiore, Clemente, entrò a 16 anni tra i minori osservanti. Il L., invece, studiò grammatica, latino e belle lettere nel seminario Eugeniano con F. Poggini, che al metodo tradizionale di apprendimento della retorica anteponeva la lettura diretta dei classici. In filosofia ebbe per docente il prevosto F. Fossi, con il quale sostenne tesi di filosofia greca (Philosophiae historia selectas theses publice more academico in seminario Florentino propugnandas…, Florentiae 1752), dedicate al patrizio fiorentino G. Antinori. Questi fu una figura fondamentale per il L., che oltre a essere istitutore del figlio Gaetano, fu protetto dalla nobile famiglia, presso la quale visse a lungo. Conseguita nel seminario fiorentino la laurea in diritto canonico e teologia (marzo 1756), si mise presto in luce in salotti colti come quello di A.F. Adami, dove incontrò intellettuali quali G. Lami, M. Lastri, G. Pelli. Con quest'ultimo, poi uno dei suoi migliori amici (nelle Efemeridi rammentò con piacere le loro lunghe passeggiate), scambiò lettere nelle quali delineò una città ideale, Gelopoli, città del riso, "abitata da pochi in un luogo così scosceso e remoto, ove non si arriva che dopo sudori infiniti, e una ostinata fatica", senza diseguaglianze tra uomini, priva di meschinità, passioni e ricchezze: repubblica di uomini resi liberi dall'amore per la cultura, saggi e in quanto tali indifferenti anche alla morte.
Le lettere al Pelli sulla storia di Gelopoli furono stampate sotto pseudonimo nelle prefazioni alle Poesie di eccellenti autori per far ridere le brigate, pubblicate in sei volumi con la falsa data di Gelopoli (Lucca) tra 1760 e 1769, poi in 3 volumi in 24° a Leida 1823, senza le prefazioni. Resta un problema aperto se questa costruzione ideale avesse solo ascendenze letterarie, dato il suo rifiuto netto dell'utopia (Comanducci, 1981), o fosse un altro segnale della mai pubblicamente confessata insofferenza del L. verso la figura del "padrone" (principe illuminato o patrizio fiorentino che fosse): in una nota lettera a G. Perini del 7 marzo 1758 aveva sospirato: "freme la povera nostra natura che ci ha costituiti nella indipendenza, e bisogna essere ben stupidi per non conoscere cosa vuol dire avere un padrone" (testo in Timpanaro Morelli, 1978, pp. 176 s.).
Ma la vivacità intellettuale e lo stile brillante del L. risultano da due opere dedicate all'Antinori: il Saggio sopra la filosofia degli antichi Etruschi (Firenze 1756) e il Governo civile degli antichi toscani e delle cause della lor decadenza (Lucca 1760). Erano i primi tentativi di affermazione nel dibattito intorno agli Etruschi, che proprio in quegli anni prendeva sempre più spazio grazie ai ponderosi lavori di A.F. Gori e M. Guarnacci. Il L. entrava nel mondo accademico dalla porta principale: nel maggio del 1755, a soli 24 anni, era stato ascritto alla Colombaria (con il nome di Sagginato) e quello stesso anno all'Accademia Etrusca di Cortona. Divenne socio della Crusca solo nel 1770.
L'"etruscheria" del L. fu sempre un'originale commistione fra il già visto orgoglio nazionale condito dalla polemica antiromana comune agli altri "antiquari", un prudente repubblicanesimo e un eclettismo filosofico che attingeva al tomismo e insieme a letture illuministiche; originale era anche l'approccio alla materia, che appuntava lo sguardo dell'autore sulla filosofia e politica degli Etruschi. Particolare attenzione, specie nel Governo civile, era riservata alla natura e all'evoluzione della Repubblica federativa etrusca, alle cause della sua nascita e soprattutto della sua decadenza: sulla scorta del metodo di Montesquieu si investigavano i rapporti e le contraddizioni tra lo spirito della nazione toscana e la forma giuridica e statuale scelta, evidenziando che la peculiare dolcezza e fertilità di clima e suolo toscani avevano generato nei secoli una mollezza di costumi, priva dell'amor di patria e delle virtù civili di cui la forma repubblicana si nutre. Questo lo "spirito" della nazione etrusca, che insieme alla naturale indole pacifica e all'incapacità di lenti e parziali mutamenti politici e istituzionali non aveva permesso di resistere ai Galli e ai Romani: Roma, al contrario, nella sua storia aveva saputo adattare l'ordinamento istituzionale e legislativo - con i diversi equilibri tra re, Senato e popolo - al mutamento del suo "principio" di governo. Questa lettura della storia sulla scorta di Polibio e Montesquieu evidenziava una particolare attenzione per l'avvicendarsi delle forme di governo (monarchia, aristocrazia, repubblica democratica) e delle loro "degenerazioni" (tirannide, oligarchia, anarchia).
Nei primi anni Sessanta l'attività pubblicistica del L. seguì diverse direzioni. Prima pubblicò il Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze e altri inediti di Machiavelli (Opere inedite, Londra [ma Lucca] 1760, con prefazione del L.), cui si sarebbe dovuta affiancare una biografia del segretario fiorentino: ne raccolse il materiale per lunghi anni, ma infine rinunciò alla pubblicazione e, tramite Pelli, lo trasmise al comune amico M. Lastri, che pubblicherà un Elogio di Niccolò Machiavelli (in Elogi degli uomini illustri toscani, Lucca 1772, III, pp. 87-97). Poi pubblicò anonime prefazione e note a un estratto della Nouvelle Héloïse di J.-J. Rousseau (Il buon governo degli affari domestici descritto nella raccolta di lettere del signor G.I. Rousseau…, Ginevra [ma Lucca] 1762; Venezia 1764 e 1784), discutendolo come aveva già fatto per l'Esprit des lois, cioè distinguendo nell'opera una parte utile e funzionale all'educazione e all'economia domestica, nel solco della tradizione culturale locale, e una parte dannosa e pericolosa racchiusa sia nel personaggio della corruttrice Eloisa, sia nelle affermazioni e conseguenze politiche sottese alla philosophie dell'autore. Ma accanto ai due excursus sui grandi autori, che testimoniano comunque delle sue letture, si pongono altri scritti che delineano la volontà del L. di costruirsi una carriera nel Granducato, attraverso una captatio della benevolenza dei regnanti e insieme dimostrando la sua preparazione giuridica agli addetti ai lavori, in vista di una cattedra. Mirarono probabilmente al primo obiettivo un'ode al maresciallo L.J. Daun, pubblicata a Vienna con l'approvazione del Metastasio (1758) e dei componimenti poetici per l'arrivo del granduca Pietro Leopoldo e per la nascita del suo primogenito (Pisa 1768). Ai fini della carriera accademica hanno invece particolare importanza le prime opere giuridiche in latino, De maiestate principis e De licentia in hostem, pubblicate a Firenze nel 1761 in un volume dedicato a Carlo Firmian, plenipotenziario di Maria Teresa in Lombardia.
Nel De maiestate il L. affermò, coerentemente alla lezione di S. Pufendorf e J. Barbeyrac, che la legge è un comando sanzionato, espressione della volontà dell'Ente (superiore) che insieme detiene il potere di emanarla e l'autorità per farla rispettare: era un chiaro appoggio teorico ai sostenitori dell'assolutismo. Poiché nello stato di natura vige l'uguaglianza e la libertà degli uomini con il solo limite delle obbligazioni del diritto naturale (cioè della volontà di Dio), il patto sociale non costituisce una legge, non essendovi un superiore ma soltanto un'obbligazione garantita dal solo diritto naturale. Con la nascita dello Stato come "persona morale" si ha la prima differenza tra governanti e governati, quindi la legge come volontà di un superiore avvalorata dalla minaccia di una pena per i trasgressori. Il L. propugna dunque a chiare lettere una dottrina imperativista contro il diritto volontario delle genti del giusnaturalismo groziano: per lui questo non è ius, ma semplicemente un uso o patto, così come la consuetudine - in accordo con la dottrina positiva di S. von Cocceji - si fa legge solo con la tacita approvazione sovrana; si prefigura quindi l'accantonamento dello ius gentium a favore della permanenza di due soli diritti: naturale e civile.
Più specialistico, ma di maggiore spessore, il De licentia in hostem. Il L. vi affronta il tema dello ius in bello opponendosi con determinazione alle teorie dell'illimitata libertà dei belligeranti di Cocceji, perfettamente funzionali alle azioni belliche di Federico II. Alle radici di un umanitarismo giuridico il L. afferma invece che l'azione ad bellum e in bello deve essere limitata al minimo che garantisca una pace sicura e soddisfi i propri diritti: la guerra è autoconservazione, mera difesa dei diritti naturali degli Stati; quindi può essere giusta solo se è necessaria defensio di tali diritti. Sulla scorta di Grozio e di Montesquieu il L. si oppone quindi alla infinita licentia in hostem di Pufendorf e di Cocceji (per i quali, essendo la guerra giusta solo per una delle parti in causa, questa ha diritto a una punizione ad infinitum del nemico, compreso il diritto all'uccisione degli inermi, dei prigionieri e degli ostaggi, anche dopo la pace). Per il L. al contrario la guerra è solo extrema ratio; si ha diritto di uccidere solo chi si oppone in armi e solo prima della vittoria finale, con la quale viene meno la "necessaria defensio".
Il 1763 fu per il L. un anno cruciale. Il 18 febbraio il padre testò, lasciandogli la tenuta delle Cavallate, che i Lampredi avevano acquistato dalla famiglia Perini, non senza lunghe polemiche che minarono l'amicizia tra Giulio Perini e il Lampredi. Questi prese effettivo possesso delle Cavallate nel 1777, alla morte del padre, istituendovi con l'amica Anna Berte le famose conversazioni del "Camminetto", alle quali parteciparono poeti e letterati, tra i quali G. Fantoni. Il 7 marzo dello stesso 1763 scomparve G. Antinori, e il 17 novembre il L. ottenne la cattedra di istituzioni di diritto canonico nell'Università di Pisa, che tenne fino al '73 e alla quale sei anni dopo aggiunse quella - da sempre ambita - di diritto pubblico. Ancora una volta nello Studio pisano la personalità del L. si scisse fra le personali riflessioni sui rapporti tra Stato e Chiesa e un insegnamento pubblico volto alla prudenza, sulla scorta di J.G. Heinecke, per evitare le "guerre dei preti" nelle quali erano incorsi P. Sarpi e P. Giannone: del suo insegnamento domiciliare del 1772-73 restano manoscritte le Iuris canonici institutiones, né vide mai la luce un progettato Delle antichità ecclesiastiche, mutuato sulla ponderosa Histoire ecclésiastique di C. Fleury. Negli stessi anni, secondo un tardo eulogista, il L. rifiutò la cattedra di Pandette e giurisprudenza universale offertagli da mons. Giammaria Riminaldi, presidente dell'Università di Ferrara.
Gli anni pisani furono quasi totalmente dedicati all'insegnamento. Fece eccezione una partecipazione anonima alla nuova serie del Giornale de' letterati, nel quale il L. recensì i propri libri, quelli di allievi (P. Ranucci, F. Foggi) e di altri. Dell'attività di giornalista, che si addiceva al suo stile ficcante e vivace, vanno almeno ricordate le recensioni delle Ricerche intorno alla natura dello stile di C. Beccaria (1771), stroncate con argomenti precisi e non privi di fondamento; del De l'homme di C.-A. Helvetius (1774), dove segnala un certo disordine ma anche "molte utili verità che sarebber degne d'estrarsi di mezzo agli errori, che le circondano"; delle Ricerche sull'antica e moderna popolazione della città di Firenze (1775) di M. Lastri, origine di una lunga polemica con le Novelle letterarie, che avevano difeso l'opera: ne risentì anche il lungo sodalizio con l'autore, testimoniato fin dal 1756. Il L. sottolineò, anche a ragione, le molte inesattezze dell'opera, che tuttavia considerò importante in quanto apriva un nuovo campo di applicazione della ricerca statistica. Recensì infine alcune tragedie di Alfieri (1775).
Dal 1767 il L. lavorò alla sua opera più importante, derivata dal suo insegnamento: gli Iuris publici universalis, sive Iuris naturae et gentium theoremata (Livorno 1776-78; una seconda edizione in 3 voll. apparve a Pisa nel 1782 e fu ristampata a Firenze, 1792-93).
I Theoremata ebbero un buon successo editoriale, ma non in Toscana, dove anche gli scolari del L., a detta sua, si passavano i libri a fine corso, e l'amico Pelli fu deluso dall'opera. Nonostante il titolo onnicomprensivo, vertevano sullo ius naturae et gentium, più o meno come i trattati secenteschi, dei quali ricalcavano anche la sovrapposizione tra precetti del diritto e della morale. Anzi il diritto naturale fu uno degli strumenti interpretativi impiegati per esaminare il diritto comune e per svolgere una funzione di sostegno e consulenza al sovrano. L'opera è composta di tre parti, vertenti sull'etica teoretica, il diritto pubblico e il diritto delle genti. I Theoremata si pongono in pieno razionalismo giuridico: la ragione vi è strumento centrale nell'analisi della natura umana, mentre altro fondamento della teoria è il libero arbitrio, senza il quale è impossibile stabilire il giusto e l'ingiusto. Ancora una volta il testo raccoglieva le suggestioni più diverse, da C. Wolff a Hume e Locke. La posizione politica del L. risulta in forte opposizione a quella "eversiva" di Rousseau, ma anche a quella hobbesiana: egli si attesta su posizioni conservatrici e favorevoli all'assolutismo illuminato, cioè alla dottrina dominante dell'epoca. Perciò, se contestualizzata, l'opera del L. non risulta molto originale e appare un solido sostegno teorico alla politica del principe illuminato. Per quanto riguarda la dottrina penale i Theoremata appaiono perfettamente in sintonia con la riforma leopoldina culminata nel codice del 1786.
Negli anni seguenti, oltre a insegnare, il L. ebbe occasione di fare sfoggio di erudizione in una Dissertazione sopra il genio di Socrate (Firenze 1783) e di intervenire in un caso internazionale di pratica forense (Parecer sobre la presa de la fregata toscana "La Teti", Roma 1785). Fondamentale nei suoi ultimi anni fu la partecipazione a Firenze nel 1787 all'assemblea dei vescovi toscani, come consultore di A. Franceschi, arcivescovo di Pisa. Per quasi due mesi intervenne direttamente o indirettamente opponendosi al voto ai parroci, all'episcopalismo, all'uniformità degli studi ecclesiastici e alla riforma dei testi proposti dai ricciani: schierandosi, insomma, contro il rigorismo dei giansenisti. La sua abilità portò il partito curiale a una netta vittoria e gli guadagnò fama personale (che gli procurerà anche l'offerta da Roma di un onorevole incarico nello Stato della Chiesa, cortesemente rifiutato: non si mosse mai dall'amata Toscana, fatta eccezione per un viaggio dell'estate del 1789 che lo vide a Sarzana, Genova, Milano e Bologna).
Infine la pubblicazione di due tomi Del commercio dei popoli neutrali in tempo di guerra (Firenze 1788) portò il L. sulla scena europea. Il trattato nell'arco di dieci anni fu tradotto in tedesco e francese e fu più volte citato dai giuristi del secolo successivo.
L'opera - che si contrappose a quella anonima dell'amico F. Galiani, De' doveri de' principi neutrali verso i principi guerreggianti e di questi verso i neutrali (s.l. [ma Napoli] 1782) -, ben scritta, portò argomenti equilibrati e inconfutabili a sostegno della libertà di commercio dei neutrali, se svolto in perfetta imparzialità tra i belligeranti. Il L. offrì così un valido sostegno alla politica del Granducato di Toscana e dello Stato della Chiesa, che in quel momento giocavano il ruolo di neutrali nello schieramento internazionale.
La raggiunta fama internazionale e la venuta dell'"ottimo" Ferdinando III, con il quale il L. ebbe un felice rapporto, diversamente che con il predecessore, comportarono il suo ritorno sulla scena pubblica: intervenne contro le leggi frumentarie leopoldine (1792) e soprattutto ebbe incarico ufficiale dal Granduca di compilare un codice delle leggi toscane, affidato in un primo tempo al consigliere M. Ciani. Il L. avrebbe dovuto essere affiancato dal giovane e brillante G. Fabbroni.
Purtroppo la salute dell'anziano professore non gli permise di assolvere al dovere, o forse proprio l'onere dell'incarico - come ritenne Pelli - aggravò le condizioni del L., che fu colpito da apoplessia con idrope quasi totale, e morì a Firenze il 17 marzo del 1793.
Fondamentali per la vita e il pensiero del L. sono le lettere, molte delle quali inedite, nella Biblioteca nazionale di Firenze, in quelle Moreniana e Marucelliana di Firenze, a Pisa, a Trento, a Modena, a Roma, nella Biblioteca reale di Bruxelles. Delle Iuris canonici institutiones si conserva una copia manoscritta nella Biblioteca Cateriniana del Seminario di Pisa.
Nonostante le indagini storiche e biografiche e spogli della brillante corrispondenza privata, la sua personalità resta difficile da mettere a fuoco: vicende private e pubbliche lo portarono spesso alla polemica o al distacco praticamente da tutti gli amici di vecchia data, da G. Perini a G. Lami, da F. Galiani a M. Lastri; perfino il vecchio Pelli, compagno di tante piacevoli passeggiate, non ebbe per lui parole molto garbate al momento della morte. Ebbe allievi destinati a varia notorietà, da F. Buonarroti a G. Spina, fino a quelli che formarono la nota scuola criminalistica pisana: P. Ranucci, V. Ceramelli, F. Foggi, G. Carmignani.
Fonti e Bibl.: P. Ranucci, Elogio di G.M. L. professore di diritto pubblico universale nell'Università di Pisa, Firenze 1793; R. Leoni, Elogio dell'avv. G.M. L., Firenze 1793; F. Foggi, Saggio sopra gli scritti dell'avvocato G.M. L., in Atti dell'Accademia italiana, I, Firenze 1808, pp. 205-261; D. Sacchi, Prefazione, a G.M. Lampredi, Diritto pubblico universale, ossia Diritto di natura e delle genti…, Pavia 1818; G. Santoponte, Il commercio dei popoli neutrali nella guerra marittima e i pubblicisti italiani del secolo XVIII (Galiani, L., Azuni), Firenze 1869; V. Alfieri, Epistolario, a cura di L. Caretti, Asti 1963, I, pp. 34 s., 48 s.; M. Battistini, G.M. L., il poeta Fantoni e il circolo del "Camminetto", in Giorn. di politica e letteratura, V (1929), 9, pp. 869-882; G. Miglio, La controversia sui limiti del commercio neutrale fra G.M. L. e Ferdinando Galiani, Milano 1942; E. Passerin d'Entrèves, L'ambiente culturale pisano nell'ultimo Settecento: trionfo e crisi del riformismo anticuriale in alcuni carteggi di colti pisani, in Boll. stor. pisano, XXII-XXIII (1953-54), pp. 54-121 passim; M.A. Timpanaro Morelli, Note biografiche su Filippo Buonarroti, in Critica storica, IV (1965), pp. 521-564; M. Rosa, Dispotismo e libertà nel Settecento, Bari 1969, pp. 38-48; Id., Riformatori e ribelli nel '700 religioso italiano, Bari 1969, pp. 202-204; Arch. di Stato di Firenze, Lettere a G. Pelli Bencivenni: 1747-1808, Inventario…, a cura di M.A. Timpanaro Morelli, Roma 1976, ad indices; P. Comanducci, Diritto municipale e diritto comune in un parere delL., in Annali della facoltà di giurisprudenza dell'Università di Genova, XV (1976), pp. 315-331; Id., G.M. L., un giurista al crepuscolo dell'Ancien Régime, ibid., pp. 482-595; M.A. Timpanaro Morelli, A proposito di una recente biografiadi G.M. L., in Rass. stor. toscana, XXIV (1978), 2, pp. 153-198 (con appendice di lettere); A. Rotondò, Su G.M. L., in Ricerche storiche, IX (1979), 1, pp. 3-28; P. Comanducci, Settecento conservatore. L. e il diritto naturale, Milano 1981.