MARTINELLI, Giovanni
Ritenuto fiorentino dalle fonti, nacque invece a Montevarchi nell’Aretino da Lorenzo di Giovanni. Il Registro dei battezzati di Montevarchi riporta due documenti di nascita che possono riguardarlo, ma senza indicazione del cognome: uno del 10 nov. 1600, l’altro dell’11 apr. 1604 (Nesi, p. 64).
La prima data viene ormai accolta come la più certa e definitiva, poiché il M. nel 1621 fu chiamato a testimoniare in una causa civile all’Accademia del disegno di Firenze, atto per il quale era richiesta la maggiore età. È questa in ogni caso la sua prima attestazione fiorentina, presso Iacopo Ligozzi, nella bottega del quale, in via Larga, si trovava ancora nel 1623 (Barsanti, p. 125). Il biografo Filippo Baldinucci ignora del tutto il suo nome, tanto che la ricostruzione del suo percorso artistico è affidata alle notizie che la storiografia novecentesca ha reperito nelle fonti e nei documenti. Da quando nel 1953 Sricchia Santoro ha riportato all’attenzione della critica la sua figura, i contributi significativi e chiarificatori non sono mancati (Gregori, 1960, 1965; Borea, 1972; Del Bravo, 1974; Cantelli, 1978; D’Afflitto, 1986), senza tuttavia giungere a una trattazione monografica esaustiva.
Il nome del M. compare ripetutamente nei registri dell’Accademia del disegno per le numerose cause – più di 25 – nelle quali fu coinvolto dal 1621 al 1659, anno ormai sicuro della sua morte. Non si conosce molto dei suoi inizi che tuttavia sembrano essere stati lusinghieri, se si considera che il commendatore dell’Ordine di Malta, fra Francesco Dell’Antella, committente di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio a Malta, gli ordinò nel 1622 alcune opere oggi perdute per la chiesa di S. Leonardo a Grosseto: un affresco con un S. Giovanni sulla facciata e altre decorazioni secondarie all’interno dell’edificio. Poi, dal 1625, quando avvenne la rottura con Ligozzi, al 1632, data della sua prima opera certa, il Miracolo della mula di S. Francesco a Pescia, se ne perdono le tracce.
Il lungo periodo di assenza dai documenti dell’Accademia del disegno lascia supporre un suo viaggio e soggiorno a Roma, e forse altrove, probabilmente determinato proprio dall’avvenuto distacco dal maestro. La sua iscrizione all’Accademia del disegno nel 1636 e, l’anno dopo, la sua elezione ad accademico giungono infatti relativamente tardi, forse solo dopo la realizzazione di qualche opera di maggior rilievo in città, al suo rientro.
Da questo momento il M. risulta ormai stabilito a Firenze; ma le ripetute citazioni che compaiono nei documenti della corporazione forniscono informazioni soprattutto di carattere biografico: le diverse botteghe che si susseguirono nel corso degli anni fino a quella definitiva in via degli Avelli, i nomi di alcuni committenti insoddisfatti per il protrarsi dei tempi di consegna, la lunga causa, dal 1644 al 1645, con l’allievo Francesco Spinetti, scontento per la scarsità di lavoro affidatogli. Accanto ai pochi riferimenti certi per la ricostruzione della sua attività pittorica, emerge il ritratto di un uomo dal carattere difficile, certamente litigioso, spesso inadempiente nelle consegne dei quadri. Nonostante le consistenti acquisizioni che si sono aggiunte alle prime ricostruzioni critiche, si stenta ancora a tracciare un percorso coerente della sua attività: le citazioni archivistiche non sono quasi mai utili per la cronologia delle opere, pochi dipinti sono datati e viceversa quelli ricordati dalle fonti e databili sono dispersi o distrutti. Forse, come il conterraneo Giovanni Mannozzi (Giovanni da San Giovanni), non ebbe inizialmente vita facile in città, dove mancava di influenti appoggi e di importanti patroni e probabilmente non si integrò mai del tutto nell’ambiente pittorico ufficiale fiorentino: non sono molti i suoi lavori destinati alle chiese cittadine, spesso di secondo piano i suoi committenti, tutte decentrate in provincia le sue opere principali.
Non vi sono per adesso conferme all’ipotesi di un soggiorno romano del M., se non quelle indirette che si desumono dallo stile della sua prima opera nota e datata, il citato Miracolo della mula di S. Francesco a Pescia. Il restauro (D’Afflitto, 1986, Pittura, p. 325), oltre a restituire la firma del M., che si dichiarava strategicamente fiorentino, e l’anno 1632, offre il suo testo più precoce, nel quale si coglie, su un impianto di tradizione decisamente toscana, il «sapiente innesto di meditate accezioni caravaggesche» (Sricchia Santoro, 1953, p. 30). La critica appare concorde nell’attribuire al probabile soggiorno romano, da collocarsi nella seconda metà degli anni Venti, la specifica attenzione naturalistica e luministica presente nel dipinto di Pescia.
Ancora più evidenti sono le conseguenze della parentesi romana in due dipinti con La Morte appare ai convitati (New Orleans, Isaac Delgado Museum of art; Firenze, collezione privata, già a Pistoia, collezione Forteguerri).
Risulta difficile stabilire una cronologia di queste opere; ma una conferma indiretta sulla datazione precoce del soggetto e sulla sua fortuna in ambito fiorentino viene da una citazione del soggetto senza indicazione d’autore nell’inventario dei beni del cardinale Giovan Carlo de’ Medici (1637) che potrebbe ben riferirsi a una delle due versioni (D’Afflitto, 1986, Biografie, pp. 115 s.). L’inserto di natura morta della tavola imbandita con alimenti diversi, bevande e frutti è rivelatrice di un’attitudine che il M. quasi certamente praticò, in primis per essere stato allievo di Ligozzi, ma poi per una probabile adesione ai modi del naturalismo caravaggesco di un altro toscano, Pietro Paolini.
Tra La Morte appare ai convitati e gli ultimi anni del quarto decennio, quando si datano le prime decorazioni pubbliche ad affresco, vanno collocati, per le manifeste ascendenze gentileschiane nei toni caldi della luce, il Suonatore di violino del High Museum of art di Atlanta, la Suonatrice di spinetta del Musée d’art Roger Quillot di Clermont-Ferrand e le due Vanità dei beni terreni nella collezione di Federico Zeri a Mentana. Risalgono a poco prima del 1638 le Allegorie (l’Orazione, la Meditazione, la Contemplazione, l’Unione in Dio) e i due Angeli della cappella di S. Bruno nella certosa del Galluzzo a Firenze, e al 1639-40, i cinque scomparti del soffitto dell’oratorio di S. Francesco dei Vanchetoni, ancora a Firenze, con Storie del beato Ippolito Galantini, che costituiscono fino a ora le prime prove ad affresco, tecnica nella quale il M. rivela capacità notevoli e una vena felice di narratore.
I risultati, nella pungente trascrizione degli eventi miracolistici come fatti naturali, perfino quotidiani, senza giungere all’ironia benevola di Giovanni da San Giovanni, sono ben distanti dalla moda più ornata e fiorita imposta da Matteo Rosselli e dai suoi, nei più importanti cicli fiorentini degli anni Venti. A una fase sempre precoce appartiene un Giudizio di Salomone (collezione privata statunitense): nella mirabile presentazione del soggetto biblico come una tipica favola teatrale in azione, di gusto fiorentino, il M. si avvale di una sintesi figurativa e di una coerenza luministica inconsuete, ancora frutto delle rimeditazioni sugli spunti da S. Vouet. Non gli è distante la Samaritana al pozzo di Terranuova Bracciolini, dove compaiono la stessa realizzazione nitida e lucente delle superfici e la consistenza più corposa dei panneggi, oltre alla figura del Cristo, che è quasi una citazione, per la posa della testa e per l’espressione del volto, del Salomone nel dipinto americano.
All’inizio del quinto decennio, nella Gloria di s. Niccolò, nella cappella del castello dei Guicciardini a Poppiano, per la quale è stato reperito un pagamento del 1640 (Nesi), nella prima versione del S. Pietro che cura s. Agata del Museo del Prado a Madrid e nel dipinto di S. Verdiana a Castelfiorentino con i Ss. Ilario, Antonio abate e Rocco lo stile si fa più libero e pittorico e suggerisce un accostamento ai modi sfumati di Cecco Bravo (Francesco Montelatici). Attenendosi ai pochi punti fermi della sua produzione appare subito evidente che lo stile maturo del M., ormai assorbite le inclinazioni naturalistiche delle opere giovanili, mantiene una omogeneità stilistica che offre pochi appigli per una rigorosa ricostruzione filologica della sua attività.
È sempre problematica la datazione dei dipinti di questa fase. Fatta eccezione per i due quadri d’altare più avanzati verso la fine del decennio, quali la Madonna e santi di Biforco del 1647 e la Pala del Rosario della chiesa dei Ss. Stefano e Caterina di Pozzolatico del 1647-48, si tratta in prevalenza di soggetti profani di tema allegorico-morale, destinati al mercato privato, dei quali è difficile recuperare la provenienza e la cronologia.
Il gran successo che a questo tipo di allegorie arrise nel corso di almeno tre decenni (dal quarto al sesto) è dimostrato dalle numerose tele prodotte in quegli anni, oltre che dal M. stesso, da C. Dandini, da L. Lippi, da V. Dandini. Risalgono a questo momento, quando l’intensificarsi delle ombre e l’estrema eleganza formale paiono un esplicito omaggio a Francesco Furini, l’Allegoria della Pittura (Milano, collezione Koelliker), le quattro Allegorie degli Uffizi di Firenze, provenienti dalla collezione Feroni, e l’Allegoria dell’Astrologia (Milano, collezione Koelliker). Talvolta il messaggio etico si esaurisce all’interno stesso di una composizione, come nel Giovane studioso tentato dai sensi della collezione Klopmann di Berlino e nella Scena di tentazione (già nella collezione Bigongiari, ora Pistoia, nella raccolta della Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia), dove si assiste a scene teatrali di tono morale in piena regola; altre volte il dialogo moralistico si svolge fra due, o anche più, mezze figure femminili, concepite come tele a pendant.
Le personificazioni sono spesso molto ricercate; e la simbologia degli oggetti, sebbene comprensibile, è sempre ricca di ulteriori e complessi significati. Vi sono riferimenti ricorrenti alla vacuità dei beni terreni in dialettica contrapposizione con le arti, con le virtù, con le muse, che offrono valori perenni, come nei due celebri ovali della Galleria Corsini di Firenze dove la Musica impersona il riscatto dalla Vanità del potere terreno (la vecchia ammonisce che il denaro assicura breve felicità). Nell’impegno etico che sostiene tante e diverse figurazioni allegoriche si riflette la trama complessa delle posizioni filosofiche e morali coltivate nelle accademie e nei circoli letterari fiorentini, dove prevaleva l’intento moralizzatore dell’individuo. Rientra in questa stessa tendenza didascalica, per la quale si riconosce l’ascendenza caravaggesca del tema, la fiorentina Natura morta con rose, peonie, garofani e asparagi di Palazzo Pitti, che Del Bravo e altri studiosi hanno restituito al M., sulla base del vaso di rose sfiorite presenti nella Pala del Rosario di Pozzolatico, mantenendo posizioni incerte e diversificate a proposito di un’altra Natura morta con fiori di sambuco, gigli, carciofi, cipolle e fragole e di una ulteriore Natura morta con mezzina di rame, rose, uva, cedri, mele e fiori di sambuco, sempre a Palazzo Pitti.
Appartiene ancora agli ultimi anni del quinto decennio e ai primi del seguente una serie di opere caratterizzata dalle stesse tinte brune nei volti e dai risultati più pittorici nei panneggi, quali il S. Pietro cura s. Agata (Firenze, collezione Pratesi), la Maddalena di Prato (collezione Cariprato), l’Allegoria della Musica (Firenze, collezione Pratesi), le Tre Grazie (Milano, collezione privata), la Madonna col Bambino e s. Giovannino (Firenze, collezione Pratesi), la Lucrezia (già nella collezione Bigongiari, ora a Pistoia, raccolta della Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia), il S. Gregorio Magno fa l’elemosina ai poveri (collezione privata) e infine la spettacolare Olimpia abbandonata da Bireno (Milano, collezione Koelliker), che per «l’interpretazione altamente passionale» (Bellesi, 2005, pp. 66-68) e per le accese tonalità cromatiche unite agli effetti della luce lunare mostra singolari affinità con la pittura napoletana.
Nella sua produzione più avanzata è facile cogliere una stanchezza di ispirazione oltre che di stile: sono semplicissime o, al contrario, molto complesse le composizioni; i toni, soprattutto negli incarnati, si incupiscono, la pittura risulta impoverita nell’impasto. Si collocano in questo suo ultimo periodo, fra opere di mediocre qualità come il Sacrificio di Noè dopo il diluvio (D’Afflitto, 1986, p. 117) e la sua opera estrema, l’Assunzione della Vergine, nella chiesa dei Ss. Filippo e Giacomo alla Ferruccia (Pistoia), lasciata incompiuta e terminata da Annibale Niccolai da Volterra, il S. Pietro che cura s. Agata (già collezione Bigongiari, ora a Pistoia, raccolta della Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia), il Bambin Gesù con s. Giovannino, la Madonna, s. Giuseppe e s. Elisabetta (Milano, collezione Koelliker), il Miracolo di s. Zanobi nella sagrestia della Madonna dell’Umiltà a Pistoia, del 1655.
Il più noto dipinto del M., quel Convito di Baldassarre degli Uffizi, al quale si deve la sopravvivenza del suo nome in assenza di una biografia antica, si data per via documentaria a qualche tempo prima del 1653.
A dispetto della chiara luce che illumina la scena e della tangibile evidenza dei particolari decorativi, elementi che ne hanno determinato una datazione anticipata (intorno al 1630: Cantelli, 1983, p. 107; intorno al 1640: Fornasari), le componenti della cultura artistica del M. affiorano tutte, in modo emblematico, in questa grande tela, nella quale si leggono in trasparenza l’originaria formazione sui testi figurativi tardomanieristi, il seguente aggiornamento sulle prove caravaggesche dei francesi e dei napoletani, quindi l’accostamento alle soluzioni formali più nitide e cristalline di Lippi e di C. Dandini.
Negli anni Cinquanta l’attività del M. registra alcune importanti tappe pubbliche, con commissioni di affreschi in ambito civile e religioso, quali il Tributo a Cesare agli Uffizi, datato 1650, commissionato da un Luigi Strozzi, maestro di Zecca (Natali), le cinque lunette con le Storie del beato Buonaventura Bonaccorsi nel chiostro dei Servi di Pistoia del 1654, Carità e Giustizia (Firenze, Museo del Bigallo) del 1655, per terminare con le cinque lunette con Storie della Maddalena del portico della Maddalena, nel convento di S. Domenico a Pistoia, datate 1655.
Il M. morì a Firenze nel 1659 e non nel 1668, come era stato ritenuto (Sricchia Santoro, 1953, p. 33).
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