MELI, Giovanni
Poeta, nato a Palermo il 6 marzo 1740, ivi morto il 20 dicembre 1815. Alternò fin dalla gioventù, secondo la tradizione siciliana e l'indirizzo dominante dei tempi, lo studio della filosofia con quello della poesia. Nella passione per i classici latini e italiani formò il suo ingegno poetico; predilesse le avventure cavalleresche, care al suo popolo, abbandonandosi alla lettura dei Reali di Francia e dell'Orlando Furioso; amò naturalmente i cultori del natio dialetto.
Il diffuso culto per la poesia, che aveva il suo centro in Arcadia e come in ogni dove anche nelle accademie siciliane, e l'ansia generale del secolo per la cultura, intesa come curiosità seientifica o come battaglia d'idee, non rimasero senza influenza su di lui. A vent'anni (10 febbraio 1760) il "poetino" (lu puiticchiu), che aveva verseggiato alla maniera di A. P. Rolli e del Metastasio, e iniziato, con l'ambizione di emulare i coinsulani Campailla e Tommaso Natale, il poema in ottave italiane, Trionfo della ragione, intorno a un argomento di moda sui rapporti tra la ragione e la fede, entrò nella palermitana Accademia del buon gusto; si fece pure notare fra gli accademici ereini e nella "galante conversazione", istituita in casa di A. Lucchesi Palli, principe di Campofranco. I tempi che volgevano intanto favorevoli alla poesia dialettale, e il genio stesso del M., lo indussero a comporre il poema "berniscu", non privo di echi ariosteschi e virgiliani, La Fata Galanti, che, letto nelle sedute della galante conversazione" nel 1762, fruttò al poeta l'ospitalità nel palazzo del Campofranco ed ebbe, appena stampato, un gran successo. Pensoso di un sicuro avvenire per sé e per la famiglia paterna, ottenne la licenza per l'esercizio professionale di medico (1764), facendosi chiamare abate, senza però aver preso la tonsura; ma, pur "prufissuri in medicina", come egli si proclamava, recitava, rimaneggiato, un suo componimento, l'Egluga in lodi di lu gattu, presso la stessa "galante conversazione". Nella dimora di un quinquennio fino al 1772 in Cinisi, quieto borgo dipendente dal monastero amico di San Martino delle Scale, mentre la professione gli permetteva di continuare gli studî preferiti e di tenere relazioni con Palermo, la solitudine lo pose faccia a faccia con la natura. Furono anni di feconda meditazione sulle idee umanitarie correnti, propizî a sviluppare in lui il sentimento della realtà vivente della sua terra e del suo popolo, e decisivi per il poeta di la paci, come fu sempre.
Dapprima compose il poemetto L'origini di lu munnu, rassegna bernesca delle antiche e nuove teorie cosmogoniche, dove risuona la battaglia accesa in Palermo dalla filosofia di V. Miceli, che parve al M. degna di canzonatura come quella che si sforzava di conciliare la tradizione col pensiero modemo. Abbozzò pure le Riflessioni sul meccanismo della natura "in rapporto alla conservazione e riparazione degli individui", e nelle frequenti gite in città non smetteva di far sentire la solita musa faceta e arguta in seno ai sempre ospitali ritrovi intellettuali e poetici. Nel quadro del paesaggio reale di Cinisi gettò con gioia creativa i suoi fantasmi di gioventù e di bellezza, componendo quasi tutte le Elegii e la famosa Buccolica (5 egloghe e 11 idillî divisi in quattro "stagioni"). Il fascino della natura era per lui tutt'uno col fascino della donna, onde le figure di Nici, Dori, Clori, Filli, cui diede vita, poi, la sua arte nelle bellissime Anacreontiche e canzonette: L'occhi, Lu pettu, Lu gigghiu, Lu Neu, Lu dubbiu, Separazioni, Mi stuffasti, e in cento altre. Sia che si tratti di figure fantastiche o di reali ispiratrici, sia che i motivi dominanti ripetano quelli preferiti dalla musa popolare siciliana, d'amuri, gilusia, spartenza e sdegnu, è sempre la fantasia del poeta che, nell'esprimere i subitanei moti della passione amorosa, crea una realtà fresca, schietta e smagliante nel regno della poesia e una tradizione poetica che si può dire a giusto titolo meliana. Per la storia e interpretazione di questa poesia non tanto valgono i dati biografici che sono assai scarsi e scialbi e che l'autore stesso trascurò, quanto gli stati d'animo e la sua interiorità, in cui si riflette la spiritualità del paese e dell'epoca. Un'interna armonia pervade tutte le liriche, pur con qualche concessione allo spirito popolaresco e arcadico; nella satira più facili e frequenti sono gli abbandoni alle idee e alle cose del momento, soprattutto nei componimenti farseschi, Li maravigghi di Sicilia, Lu viaggiu in Sicilia di un antiquariu (1785), Accademia di li antiquarii, e in generale negli epigrammi o in altro genere di poesiole (i brindisi), che sono complimentose piacevolezze, scherzi o sfoghi del suo animo sensibilissimo: tutti componimenti che correvano di bocca in bocca, e che con le alate strofette anacreontiche, diffuse e cantate da ogni ceto, contribuivano a dare grande popolarità al medico poeta. Essendosi create nuove cattedre all'Accademia degli studî, il M. ebbe assegnata quella di chimica all'inizio dell'anno scolastico 1787, e qualche mese dopo ottenne il privilegio per la stampa della sua opera poetica in 5 volumi illustrati, in cui, accanto alla Buccolica, le Canzunetti, le Elegii, le Satiri, i Capituli bernischi, L'Origini di lu munnu, la Fata galanti, fanno l'apparizione il Ditirammu, il Don Chisciotti e Sanciu Panza. Il Ditirammu è tutta una scena di un fresco, sincero e, se si vuole, semplice realismo meliano, la quale si svolge durante l'allegro simposio di popolani nella "taverna di Bravascu": in ciò esso si diversifica dal mondo fantastico e musicale del Bacco in Toscana del Redi. Il protagonista, Sarudda, col suo brindisi alla statua di Palermo della piazza Fieravecchia, tutto siciliano, anzi palermitano, esprime, insieme al rimpianto tradizionale per un glorioso passato, la triste realtà quale appare a un cuore, che, se non conosce i grandi conflitti dell'anima umana e i tormenti della riflessione, sente, come il nostro poeta, la gravità delle cose e dei problemi della vita, e cerca nel vino l'oblio, e la sua pace. Il M. diede un grande prestigio alla tradizione dell'idioma colto dell'isola, onde poté sorgere in Palermo nel 1790 un'Accademia siciliana con un ambizioso programma; ma nel Ditirammu alla rappresentazione veristica fa corrispondere un linguaggio più aderente alla realtà del vernacolo, quale usano pure le interlocutrici (Pidda, Lidda e Tidda) dell'egloga Piscatoria (1787). Rappresentazione del reale, che è vano combattere, finisce con l'essere il Don Chisciotti, opera stesa fra il 1785 e il 1787, di cui il Foscolo tradusse il monologo lirico. Spiriti umanitarî e dottrinarî alla Rousseau vi circolano dentro, ma vi difettano la visione d'insieme e l'unità artistica; Sancio vi appare la figura meglio rinnovata rispetto al modello. Il M. però non giunse alla mistica romantica col conseguente cupo pessimismo, la protesta del ribelle e l'individualismo ambizioso o esasperato. Gli stessi lamenti del suo Polemuni (idillio, 1787), come pure le terzine di Lu chiantu d'Eraclitu e il poemetto Lu specchiu di lu disingannu, non contengono l'intima tragedia della disperazione di un'anima, che ha il senso della vita perduta e non trova un rimedio al male; ma piuttosto melanconia e rassegnazione. Se, come dice in una lettera, il M. andò molto "tentoni dietro al bello di questa terra", non volse però le spalle alla fede nel soprannaturale. A una concezione pessimistica della realtà reagì con un sano e sereno ottimismo, fondato su un'istintiva moralità, che lo rendeva avverso a tutte le forme di discordie, di privilegio e di prepotenza, e però sinceramente cupido di pace (si ricordi la sua limpida ode La Paci), per cui egli poté cantare la natura con cuore di puro bucolico e consolarsi così delle realtà patite. Le Riflessioni sullo stato presente del regno di Sicilia (1801) intorno all'agricoltura e alla pastorizia e altri scritti analoghi rivelano uno spirito di pensoso riformatore, uno fra i tanti che ebbe il Settecento italiano. Con tale spirito pensò e scrisse gl'idillî sociali della Buccolica (Lu Craparu, Li munti Erei, Teocritu, Martinu, Li Piscaturi), che si trovano nell'edizione definitiva del 1814, e, avanzando negli anni, espresse tutto sé stesso nelle Favuli murali, che sono un capolavoro del genere. Ivi egli andò al mondo sapiente e discreto degli animali l'espressione del suo ideale "d'onoratezza e probità", diventato contenuto profondo di poesia. Un poeta siffatto, poté, sì, sollecitare particolari favori dai potenti sotto il morso del bisogno e da costoro ottenere lusinghe e promesse, ma non aveva certo titoli per essere riconosciuto e degnamente considerato dagli ordini mal costituiti del suo tempo. E povero egli morì.
Oltre la citata prima edizione, moltissime sono le stampe di opere meliane pubblicate in vita e dopo la morte, tra le quali è da citarsi quella di E. Alfano (G. M. Opere poetiche, Palermo 1908), che contiene i cenni autobiografici dati dal poeta stesso al barone F. G. di Rehfues (1804) e la prima Biografia a cura di A. Gallo (1835). Numerose le traduzioni in altri dialetti, in italiano, latino, greco, tedesco, francese, inglese.
Bibl.: L. Natoli, G. M., Palermo 1883; V. Pitini Piraino, G. M., Napoli 1884; A. Di Giovanni, Versi inediti di G. M., in Fanfulla della Domenica, 1893 (e il dibattito che s'impegnò nello stesso giornale); F. Guardione, G. M., in Scritti, I, Palermo 1897; G. Pipitone-Federico, G. M., Palermo 1898; G. Navanteri, Studio critico su G. M., Palermo 1904; G. Pitrè, G. M. medico e chimico, in Arch. stor. sicil., XXXII (1907); P. Nalli, G. M., in Rivista d'Italia, 1916; G. Bologna, G. M. e il Parini. Gli scritti in prosa di G. M., in Rassegna crit. d. lett. ital., 1917 e 1920; id., Il carteggio del Meli, in Rassegna del Pellizzari, 1920; S. Vento, Fonti e tradizione letter. nelle poesie di G. M., Palermo 1920; E. Negrì Miraglia, I poeti amici di G. M., Palermo 1924; G. A. Cesareo, La vita e l'arte di G. M., ivi 1924 (che conclude altri scritti precedenti del C.); G. Cocchiara, Le vastasate, ivi 1926 (per quel gioiello di saggio teatrale del M., I palermitani in festa, 1798); F. Biondolillo, La poesia di G. M., Catania 1926; L. Sorrento, La poesia dial. e il Parnaso sic., in Rassegna del Pellizzari, 1927; A. Di Giovanni, La vita e l'opera di G. M., Firenze 1934.