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MERLA, Giovanni

di Ernesto Abbate - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 73 (2009)
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MERLA, Giovanni

Ernesto Abbate

– Nacque a Civitavecchia il 20 apr. 1906 da Carlo e da Ada Bernasconi, in una famiglia originaria del Canavese.

Frequentò il liceo classico ad Arezzo, poi l’Università a Pisa, dove si laureò nel 1927 in scienze naturali con il geologo M. Canavari. Dopo il servizio militare come ufficiale del genio, dal 1928 fu a Padova come assistente incaricato presso la cattedra di geologia di G. Dal Piaz. Nel 1930 fece ritorno a Pisa divenendo (1931) assistente nell’istituto di geologia, diretto da G. Stefanini. Nel 1932 entrò per concorso nell’Ufficio geologico di Roma dove rimase fino al 1935; tornò poi alla carriera accademica, dapprima come professore di geologia a Modena e, dal 1937, a Firenze. Per il M. fu istituita la prima cattedra di paleontologia in Italia.

Frattanto, nel 1932, si era unito in matrimonio con Nella Maria Coen, da cui ebbe Maria, Paola e Andrea.

Richiamato alle armi nel 1936 per partecipare a una missione del Centro studi per l’Africa Orientale della R. Accademia d’Italia in Etiopia settentrionale, con il supporto logistico di reparti militari il M. ed E. Minucci rilevarono in sette mesi la carta geologica del Tigrai.

Tornato in Italia, il M. fu di nuovo in Africa nel 1938-39 per una missione in Somalia settentrionale coordinata da C.I. Migliorini e finalizzata a ricerche petrolifere dell’Azienda generale italiana petroli (AGIP). Richiamato alle armi nel 1941, rinunciò all’esonero dal servizio militare previsto per gli accademici e partì per il fronte in Africa settentrionale. Come capitano del genio combatté a el-‘Alamein, meritando la croce al valor militare. Durante la ritirata italo-tedesca fu fatto prigioniero in Tunisia e successivamente trasferito a Fort Meade, nel Maryland, dove rimase sino al 1945.

Al rientro a Firenze passò sulla cattedra di geologia, vacante per la sospensione temporanea dall’ufficio di G. Dainelli (1948), tenendola sino al 1976 (sino al 1961 con l’incarico di paleontologia). Nel 1947 fu creato dal Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) il Centro di studi per la geologia dell’Appennino, con le due sezioni di Firenze e Pisa: il M. diresse la prima fino al 1973. Dal 1949 al 1951 fu presidente della Società geologica italiana.

Nel 1953 ottenne il premio Prestwich della Société géologique de France; nel 1954 il premio Feltrinelli per la geologia; nel 1965 la medaglia di benemerito della scuola, della cultura e dell’arte. Dal 1958 fu socio nazionale dell’Accademia nazionale dei Lincei e fu inoltre nel comitato CNR per le scienze geologiche e minerarie.

Per fare fronte alle richieste di geologi, soprattutto da parte delle società petrolifere, il M. favorì nei primi anni Cinquanta l’attivazione a Firenze del corso di laurea in scienze geologiche. Aziende quali Rimifer, AGIP Mineraria, Monte Amiata e Larderello si rivolsero a lui e ai suoi allievi per consulenze. Nel 1953-54 guidò un’ulteriore missione AGIP in Somalia e tra la fine degli anni ’50 e la metà dei ’70 coordinò e partecipò a missioni in Etiopia. Di particolare risalto, per i risultati ottenuti in una campagna di molti mesi in un’area nota solo superficialmente dal punto di vista geologico, fu quella del 1959-60 con B. Zanettin e P. Bellincioni nell’Etiopia meridionale, sostenuta dal CNR.

Nel 1960, con la promulgazione delle norme per completare e aggiornare la Carta geologica d’Italia, il M. fu chiamato nel Comitato geologico, struttura di indirizzo e coordinamento della nuova iniziativa cartografica. Fu anche responsabile scientifico per molti fogli. Fuori ruolo dal 1976, fu pensionato nel 1981 e proclamato professore emerito.

Il M. morì a Fiesole il 10 genn. 1984.

Nel periodo padovano il M. partecipò al programma di cartografia geologica 1:100.000 del Triveneto, diretto da Dal Piaz. Il coordinamento scientifico del Foglio Monguelfo, con Dal Piaz e A. Bianchi, sua prima esperienza di geologia regionale, gli fornì lo spunto per ricerche paleontologiche. Descrisse in dettaglio la fauna del calcare permiano nelle Dolomiti, comparandola con altre coeve europee e utilizzandola per un quadro stratigrafico e paleogeografico del Sud alpino (La fauna del calcare a Bellerophon della regione dolomitica, Padova 1930; Osservazioni geologiche sulle Dolomiti di Sesto, in Atti della Soc. italiana per il progresso delle scienze, II [1930], pp. 243-257). Una visione ancor più ampia si può apprezzare in lavori del 1933-34 sui fossili carbonifero-permiani e triassici raccolti dalla spedizione De Filippi (1913-14) tra Karakorum e Himālaya, sino al Xinjiang in Cina. La loro determinazione sistematica e l’inserimento in un contesto stratigrafico esteso dall’Eurasia all’America settentrionale spiccano tra i contributi nei volumi di Relazioni scientifiche della spedizione italiana De Filippi (I-XV, Bologna 1925-34).

Nel periodo presso l’Ufficio geologico a Roma, insieme con studi condotti in varie aree del basamento cristallino sudalpino, il M. iniziò a interessarsi dell’evoluzione geologica dell’Appennino settentrionale, studiando i graniti «terziari» tosco-liguri-emiliani, che assegnò a due categorie: una, primaria, di vere e proprie intrusioni tuttora in situ (Elba, Gavorrano, Campiglia); e una secondaria, cioè in posizione sradicata e in associazione tettonica con masse ofiolitiche (Appennino ligure-emiliano).

In particolare, anticipò interpretazioni moderne considerando i graniti di quest’ultima categoria frammenti di domini deformati compresi tra la Corsica e i massicci ercinici alpini, trascinati entro la «massa del galestro ofiolitico» (Argille scagliose) durante l’orogenesi appenninica. Così il M. supportò l’interpretazione alloctonista di estese successioni appenniniche, avversata dalla maggior parte dei geologi universitari e dell’Ufficio geologico, corroborando ipotesi avanzate da autori quasi tutti stranieri, i cosiddetti «faldisti» (tra i primi L. De Launay e G. Steinmann) e da qualche italiano (G. Bonarelli). Tuttavia egli sottolineò alcune differenze dalle interpretazioni di tali autori, intenzionati per lo più ad applicare all’Appennino ipotesi comunemente accettate per le Alpi (I graniti della formazione ofiolitica appennina, in Boll. dell’Ufficio geologico italiano, LVIII [1933], pp. 5-115). Le falde appenniniche sono più superficiali di quelle alpine e, se in origine composte da tipi litologici simili, se ne differenziano notevolmente per il grado di metamorfismo decisamente più basso. Le ipotesi presentate dal M. nei lavori sui graniti anticiparono l’avvento della tettonica gravitativa nel contesto appenninico e costituirono i temi cui si dedicò dopo la pausa bellica e la prigionia. La ripresa delle ricerche avvenne in un ambiente di particolare fermento di idee per la geologia dell’Appennino grazie alla sua collaborazione con Migliorini, R. Signorini e L. Trevisan. In una sintesi del principio degli anni Cinquanta (Geologia dell’Appennino settentrionale, in Boll. della Società geologica italiana, LXX [1951], pp. 95-382) raccolse sei anni di lavori sul terreno, acquisendo nuovi dati da geologi attivi nell’ambito del centro CNR e da un esame approfondito della letteratura. Preceduta dall’esposizione di idee generali in una comunicazione al 18° Congresso geologico internazionale (Londra 1948), quest’opera esprime tutta la capacità di sintesi del M., la completezza e la varietà degli argomenti e l’originalità delle soluzioni. La complessità della catena è documentata nei suoi aspetti stratigrafici, paleontologici, cronologici, paleoambientali, di tettonica superficiale e profonda. La difficoltà degli argomenti è felicemente risolta da esposizioni articolate, accompagnate da chiarezza di linguaggio e da tavole di per sé esplicative. Nella parte relativa alla stratigrafia la descrizione di ciascuna formazione, oltre a una dettagliata caratterizzazione litologica e paleontologica con numerosi riferimenti e confronti bibliografici, contiene un paragrafo sull’ambiente di sedimentazione e sulla paleogeografia a livello locale e regionale, spesso con rimandi a contesti alpini.

Il M. così sprovincializzò la geologia dell’Appennino settentrionale, fornendone un quadro chiaro ai geologi italiani e stranieri. Della successione sedimentaria toscana riconobbe con R. Masini la continuità di deposizione marina dal Trias superiore a tutto l’Oligocene, senza le lacune e trasgressioni care all’interpretazione precedente. Interpretò i grandi intervalli di tempo rappresentati da spessori esigui (quali gli Scisti policromi) come dovuti a lentissimo accumulo in ambiente pelagico e, sottolineando con Migliorini i processi di risedimentazione, attribuì a rimaneggiamento la «innaturale associazione cronologica» di alcune associazioni fossilifere.

La sintesi innovativa del 1951 propose per la storia dell’Appennino settentrionale un quadro incentrato su tre elementi: le «rughe tettoniche», le Argille scagliose nell’ambito di «frane orogeniche», la mesoautoctonia della serie di Loiano. Nell’introdurre le prime il M. riprese una trattazione del 1948 sui «cunei composti» del suo ispiratore scientifico, C.I. Migliorini; riconobbe sei rughe longitudinali rispetto alla catena appenninica e vergenti verso il suo esterno, che si sarebbero susseguite nel tempo dal Tirreno verso l’Adriatico, permettendo così l’avanzamento dei materiali plastici delle Argille scagliose, scaricati via via dal loro dorso verso l’avampaese padano-adriatico. Secondo il M. raddoppi tettonici nel substrato rigido, estesi quanto le falde alpine, non v’erano in Appennino: indicò come emblematico il caso delle Apuane, nelle quali molti geologi, soprattutto italiani, vedevano una successione unica dal Permo-Trias all’Oligocene. Con un esame approfondito del contesto stratigrafico-paleontologico il M. confermò l’interpretazione dei «faldisti», documentando una sovrapposizione tettonica tra due successioni permiano-oligoceniche del dominio toscano: una inferiore metamorfica e una superiore non metamorfica. Tuttavia quest’ultima (la «falda toscana») avrebbe avuto la terminazione orientale prossima alle Apuane, non oltrepassando la valle del Serchio.

Sempre nella sintesi sull’Appennino settentrionale il M. riprese il concetto di «frane orogeniche» di Migliorini e ne completò il «congegno teorico» con un esame delle Argille scagliose. Fornì dati e interpretazioni ancor validi circa l’età dei materiali eterogenei che le compongono, la loro caoticità, il senso di provenienza e la loro ricollocazione nelle presunte sedi originarie, l’esistenza di un Paleoappennino. Sottolineò la caoticità a ogni scala delle Argille scagliose e il loro comportamento plastico (essenziale per escludere una spinta da tergo come causa del loro avanzare e rendere unicamente ammissibile la gravità), e pose particolare attenzione a «estrarre» dalla matrice argillosa gli elementi litoidi e a caratterizzarli debitamente.

Altro elemento di grande importanza nella sintesi del M. è l’interpretazione della serie di Loiano: una successione estesa temporalmente a quasi tutto il Terziario, che compare disarticolata lungo l’intero margine padano dell’Appennino settentrionale. Il M. documentò quanto intuito da Signorini, cioè che la deposizione di questi sedimenti fosse stata continua mentre il loro substrato stratigrafico, costituito dalle Argille scagliose, procedeva verso l’Adriatico. Questo modello deposizionale è stato esteso dall’ambito appenninico ad altre catene orogeniche, con i cosiddetti bacini satelliti o piggyback basins.

Su un piano più generale il M. applicò le principali teorie orogenetiche del tempo alla tettonica dell’Appennino, partendo da una discussione sulla strutturazione reologica della litosfera. Poco convinto del mobilismo wegeneriano, vide con favore il modello di correnti subcrustali applicate alle singole fasce orogeniche.

Negli anni ’50 e ’60 al M. fu chiesto spesso di presentare le sue interpretazioni della geologia dell’Appennino in occasione di conferenze sulla ricerca petrolifera o in congressi sul terreno organizzati da istituzioni internazionali, quali l’American Geological Institute. Per quanto riguarda l’Italia la sua attività geologica fu allora connessa essenzialmente alla realizzazione della 2ª edizione della Carta geologica d’Italia al 100.000, come componente del Comitato geologico e responsabile scientifico di otto fogli tra Italia centrale e meridionale. La sua azione nel Comitato fu decisiva per l’adozione di criteri litostratigrafici nel rilevamento in luogo di metodologie mal definite o vagamente cronostratigrafiche. In un altro dibattito interno al Comitato, sulle Argille scagliose e i terreni a esse assimilabili, il M. prese posizione contro una parte della comunità geologica, facente capo soprattutto al Servizio geologico, che, a causa di possibili rimaneggiamenti, tendeva a negare o sminuire il valore dei fossili cretaceo-eocenici nelle Argille scagliose, arrivando a considerarle mioceniche. Il suo intervento fu decisivo per tener distinta nei fogli l’età della sedimentazione da quella della messa in posto tettonica. Sempre quanto alle Argille scagliose, operò una razionalizzazione distinguendo, nel rilevamento di vari fogli appenninici, una nuova unità cartografica, il «complesso caotico», formata dalla matrice argillosa e minuto pezzame litoide appartenente a formazioni diverse, dall’«unità di comodo» del «complesso indifferenziato», nel quale inserì i terreni a struttura caotica dubbia o lembi di formazioni mal definite o mal delimitabili.

Altro capitolo importante nell’attività scientifica del M. furono le ricerche in Africa orientale, cui l’aveva introdotto G. Stefanini a Pisa negli anni ’20. Una pubblicazione con E. Minucci (Missione geologica nel Tigrai, I, La serie dei terreni, Roma 1938) e una più tarda (Missione geologica nell’Etiopia meridionale del Consiglio nazionale delle ricerche, in Giorn. di geologia, XXXI [1963], pp. 1-56) mostrano nelle indagini di terreno, principalmente stratigrafiche, una particolare attenzione ai caratteri morfologico-geografici delle aree, sottolineandone le relazioni con la costituzione e storia geologica e unendo felicemente l’influenza della scuola essenzialmente geografica di O. Marinelli e Dainelli e quella eminentemente geologica di Stefanini. I dati raccolti in Tigrai, anche con foto aeree, e nell’Etiopia meridionale mostrarono che l’evoluzione geomorfologica di questi territori e delle aree contermini era scandita da cicli erosivi regionali marcati da tre penepiani principali: uno più antico tra i terreni precambriani e quelli mesozoici, uno intermedio tra questi ultimi e i basalti trappici oligocenici e infine l’estesissimo «penepiano etiopico» che testimonia un ciclo erosivo a spese per lo più dei trappi. Il M. intuì che l’altimetria dell’acrocoro est-africano è frutto di un sollevamento plio-quaternario posteriore al penepiano etiopico, che in origine era l’area a quote molto più basse delle attuali. Delle relazioni tra queste aree sollevate e quelle depresse, come l’area dancala, la rift valley etiopica, il golfo di Aden e il Mar Rosso, il M. si occupò nel corso della missione AGIP del 1953-54 in Somalia (discusse nella memoria del 1963 e poi riprese in A geological map of Ethiopia and Somalia (1973) 1:2.000.000 and comment with a map of major landforms, Firenze 1979). Sulla base di osservazioni condotte con A. Azzaroli, soprattutto sul bordo somalo del golfo di Aden, concluse che i rift non derivano dal collasso di porzioni di un domo esteso su tutto il Corno d’Africa. Le aree depresse erano, al contrario, Graben continentali o bacini marini poco profondi sin dall’Oligocene; strutture sostanzialmente preesistenti alle fasi neogeniche di più intenso sollevamento degli altopiani.

Come Stefanini (1933) e Dainelli (1943), anche il M. volle chiudere la sua attività in Africa realizzando una carta geologica dell’Etiopia e della Somalia, allegata alla pubblicazione del 1979, a testimonianza dello stadio raggiunto dalle conoscenze geologiche nel Corno d’Africa. Anche nei periodi di maggior impegno per le ricerche sulla geologia dell’Appennino e delle regioni africane, come avvenne verso la fine degli anni ’40, aveva sviluppato argomenti paleontologici riferibili da una parte ai contesti geologici dei quali si occupava, dall’altra al dibattito in corso sui grandi temi della paleontologia legati all’evoluzione. Trattò dei bovidi plio-pleistocenici del Valdarno superiore in I Leptobos «Rütim» italiani (in Paleontologia italiana, XLVI [1949], pp. 41-155), accurata analisi morfologica e ricostruzione della loro storia evolutiva coniugate a un’approfondita messa a punto stratigrafica, in gran parte originale. La variazione entro una gamma relativamente definita dei caratteri evolutivi ricavabili dall’esame dei Leptobos fu uno tra gli argomenti che lo portò a esprimersi, con una certa cautela, in favore dell’ortogenesi, cioè d’un fattore interno come guida delle serie evolutive, senza necessariamente escludere una certa influenza della selezione naturale.

Tra i lavori del M. sono pure da menzionare: Africa orientale. Geologia, in Enc. Italiana. Appendice I, Roma 1938, pp. 62 s.; Carta geologica della Somalia e dell’Ogaden (alla scala 1:500.000, in otto fogli e uno di «Note illustrative»), Roma 1957-59 (in collab. con A. Azzaroli). Da solo o con altri, fu responsabile scientifico e direttore del rilevamento dei seguenti fogli della Carta geologica d’Italia al 100.000 (1ª e 2ª ed.): Foglio Monguelfo (1930, con A. Bianchi e G. Dal Piaz); Foglio 97: S. Marcello Pistoiese (1968, con L. Trevisan); Foglio 106: Firenze (1965); Foglio 107: Monte Falterona (1969, con R. Selli); Foglio 108: Mercato Saraceno (1968, con G. Ruggieri); Foglio 113: Castel Fiorentino (1967); Foglio 114: Arezzo (1967); Foglio 164: Foggia (1969); Foglio 190: Monopoli (1969).

Il M. raccontò la sua esperienza di combattente nella seconda battaglia di el-‘Alamein in un capitolo dell’antologia di P. Caccia Dominioni Le trecento ore a nord di Qattara: 23 ottobre- 6 nov. 1942 (Milano 1972, pp. 295-329).

Nutrì anche interessi per gli studi storici, in particolare sul Piemonte, sua terra di origine. Negli anni ’70 e ’80 portò a compimento O bravi guerrieri! L’arrivo di Napoleone in Italia e la guerra delle Alpi, opera apparsa postuma (Tirrenia-Pisa 1988) sulla resistenza sabauda all’esercito repubblicano francese, dal tardo 1792 fino all’armistizio di Cherasco (28 apr. 1796).

Fonti e Bibl.: Per le pubblicazioni del M. cfr. A. Azzaroli, G. M., in Atti della Acc. nazionale dei Lincei, Rendiconti, cl. di scienze fisiche, matematiche e naturali, s. 8, LXXXII (1988), 1, pp. 169-181; L. Trevisan, G. M. scientist and humanist, in Memorie della Soc. geologica italiana, XXXI (1986), pp. 7-12; B. Zanettin, The work of G. M. in Ethiopian geology, ibid., pp. 335-341; Proceedings of the international meeting in memory of G. M. geologist and paleontologist, Firenze… 1986, a cura di V. Bortolotti et al., Roma 1988.

E. Abbate

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Vocabolario
mèrla
merla mèrla s. f. [lat. mĕrŭla, femm., che indicava sia il maschio sia la femmina]. – La femmina del merlo; anticam. (conformemente all’etimologia) anche il maschio. I (tre) giorni della m., espressione di origine lombarda, allusiva a un’antica...
merlato
merlato agg. [part. pass. dell’ant. merlare, o der. di merlo3]. – 1. Fornito di merli in muratura: torre m.; castello m.; coronamento m.; muro di cinta merlato; Tanto è già in su che le m. cime [delle mura] Pote afferrar con le distese...
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