MONTAIONE, Giovanni. –
Nacque probabilmente a Milano nella prima metà del XV secolo da Donato di Zoyno e da Margherita Rabia di Bellolo, di cospicua famiglia mercantile milanese. Il padre, originario di San Miniato (in Valdelsa), era attivo a Milano come imprenditore vetrario dai primi anni del XV secolo e proprietario di una fornace accanto al duomo, che il M. ricostruì, o modificò, nel 1465.
La famiglia faceva parte di quegli imprenditori valdelsani, e toscani in genere, che dalla fine del Duecento e dai primi decenni del Trecento si erano spinti in Italia centrosettentrionale (da Bologna a Ferrara, a Genova, per arrivare appunto, all’inizio del XV secolo, a Milano), facendo concorrenza agli artigiani muranesi. Accanto a Murano, la cui produzione è attestata ininterrottamente almeno a partire dal XIII secolo, infatti, nel settore si distinguevano solo la Valdelsa, con i centri di Gambassi e Montaione, e Altare, nei pressi di Savona, la cui produzione di bicchieri e bottiglie era nota in tutta la penisola dai secoli XI-XII, e i cui maestri costituivano una corporazione per così dire itinerante che organizzava e governava i vetrai residenti in patria e quelli attivi in luoghi lontani; caratteristica degli artigiani altaresi era appunto l’emigrazione continua dal centro di origine, con cui mantenevano però stretti legami. Nel XV secolo erano quasi esclusivamente le maestranze di queste zone, con il loro patrimonio di conoscenze tecniche, a dare vita all’arte vetraria nelle città dove è sporadicamente attestata: a Mantova operavano tra Quattrocento e Cinquecento maestranze di Altare e Gambassi; artigiani di Murano, Montaione e di Altare erano attivi a Pavia a partire dall’inizio del XV secolo, e vetrai di Altare erano anche a Piacenza. Nel XVI secolo gli altaresi sono documentati anche a Como, Cremona e Vigevano. Persino le maestranze presenti a Palermo provenivano dalla Toscana e da Murano. Tale capillare diffusione di manodopera era probabilmente dovuta ai motivi politici (per Altare) ed economici (per Gambassi e Montaione) che dall’inizio del XV secolo avevano spinto all’emigrazione contemporaneamente molti vetrai di ogni ceto sociale.
Se per le produzioni di lusso le corti dell’Italia settentrionale si rivolgevano a Murano, per gli oggetti di minor pregio utilizzavano le manifatture locali gestite da liguri e toscani. L’organizzazione della manifattura vetraria nell’Italia centrosettentrionale nel Quattrocento vedeva in genere ai vertici gli imprenditori valdelsani, provvisti di capitali e delle conoscenze tecniche indispensabili ad avviare l’attività, coadiuvati, nell’esecuzione materiale del lavoro alla fornace, da maestranze specializzate provenienti da Altare che nel capoluogo lombardo erano contese dagli imprenditori toscani e da quelli locali con i salari più alti in assoluto riscontrati per l’epoca. Il sapere degli altaresi era così importante che gli imprenditori attivi a Milano che erano in grado, come i Montaione, di assicurarsi queste maestranze disponendo di capitali adeguati, prosperavano; coloro che invece potevano investire capitali più modesti non riuscivano spesso ad assumere gli altaresi e finivano talora per perdere la bottega e i mezzi di produzione.
Il M. e suo padre (di cui non si hanno altre notizie) avviarono tra i primi l’arte vetraria a Milano all’inizio del XV secolo, contemporaneamente alla famiglia dei «de Murano», il cui capostipite del ramo milanese, Castellolo di Donato (anch’egli imparentato con i Rabia avendo sposando una sorella di Margherita), gestiva almeno dal 1408, con alcuni soci, una fornace da vetro in parrocchia di S. Maria Segreta a porta Cumana, dove risulta attivo ancora nel 1434, lasciando poi l’attività al figlio Gian Giacomo.
La strategia di entrambe queste famiglie, provenienti da un ceto medio di artigiani, fu dunque quella di imparentarsi con l’élite della mercatura milanese, sempre pronta a investire capitali in arti nuove e remunerative; lo stesso sarebbe avvenuto pochi anni dopo per la produzione serica e per l’arte della stampa.
Il M. rafforzò questa strategia sposando Elisabetta Cittadini, appartenente a un’altra importante famiglia mercantile della città. Forse proprio attraverso questi suoi molteplici legami e rapporti di patronage, ottenne nel 1454 dal duca di Milano Francesco Sforza la concessione di impiantare una fornace a Como, con il diritto esclusivo di produzione e vendita. Da questo momento la sua ascesa sociale ed economica non ebbe limiti: «civis et mercator mediolanensis» membro della «Universitas mercatorum, civis Mediolani et Cumarum, civis Mediolani et Papie, vicinus Riparie de Orta et Arona, mercator Mediolani et conductor mercantiarum in partibus Sabaudie et Pedemontanis et etiam Venetiis», come lo ricordano i documenti d’archivio (Zanoboni, 2005, passim), e appartenente, nel 1464, al gruppo di mercanti che ratificarono una riforma dei patti commerciali con Genova risalenti al 1430.
Attraverso la parentela tra i Montaione, i Rabia e i «de Murano», la mercatura milanese, scarsamente a conoscenza dell’arte vetraria, accoglieva dunque i rappresentanti dei due principali centri produttivi dell’epoca. I continui contatti dei Montaione con la zona del lago Maggiore per l’acquisto della materia prima e la vendita del prodotto finito, con il Vercellese e il Comasco, con Pavia (dove dopo la morte del M. il fratello Simone trasferì parte della produzione), e soprattutto la frequente presenza alla stipulazione degli atti di maestranze provenienti da Altare – e in un caso anche da Murano – completano adeguatamente il quadro, mettendo in risalto come a Milano, alla figura del M. fossero collegate tutte le maestranze dei principali centri di produzione vetraria dell’epoca, facendone il fulcro di una rete produttiva e commerciale vastissima che si irradiava a tutte le principali città del Ducato sforzesco.
Centro dell’attività del M. con i fratelli Simone e Aluisio era la fornace con attigua bottega accanto al duomo, nella parrocchia di S. Raffaele a porta Orientale. La famiglia si occupava del ciclo produttivo completo, dall’acquisto delle materie prime alla loro lavorazione, alla realizzazione del prodotto finito, alla vendita.
Il procedimento per la realizzazione del vetro richiedeva tre componenti essenziali: il vetrificante, ottenuto macinando e riducendo in polvere finissima i ciottoli del Ticino; l’allume «gatino», costituito, se di buona qualità, dalla cenere sodica ricavata dalla combustione di piante del litorale mediterraneo, oppure, se di pessima qualità, dalla combustione della legna da ardere utilizzata nelle fornaci; il terzo ingrediente era rappresentato dall’allume di feccia (residuo sedimentato nelle botti prima del travaso del vino), oppure dalla «cropa» (tartrato potassico staccato dalla superficie interna delle botti). In una prima fase, fondente e vetrificante erano mescolati in un piccolo forno chiamato «calchera», ottenendo così la «fritta», che poi veniva fusa, con l’aggiunta di rottami di vetro, nella fornace vera e propria. Questo dunque il procedimento seguito nella fornace dei Montaione che si procuravano le materie prime di pregio in parte sul lago Maggiore, a Intra e a Pallanza (dove acquistavano l’allume di feccia), e in parte direttamente a Venezia, dove il M. si riforniva dell’allume gatino di miglior qualità, che aveva ottenuto licenza di importare a Milano fin dal 1454, grazie all’intervento della duchessa Bona di Savoia, per produrre quanto necessario alla corte.
Il fatto che la famiglia fosse proprietaria di un gran numero di vigneti, sia sul lago Maggiore sia vicino a Milano, potrebbe essere messo in relazione proprio con la necessità di procurarsi il sedimento delle botti (allume di feccia).
Il M. gestiva direttamente anche il mulino «pro pistando lateres», destinato cioè alla triturazione delle numerose componenti necessarie alla produzione del vetro, situato sul Lambro e designato come «molandinum de la Ciresa». Il complesso, dotato di numerose mole e in origine adibito alla rifinitura delle armi, venne parzialmente trasformato nel 1459 dal M. in impianto per la lavorazione del vetro, e in mulino da grano, e quindi subaffittato a mugnai incaricati anche di lavorare il minerale, l’allume e le materie prime fornite dal M., in esclusiva per lui. Tra 1487 e 1490 il M., con i fratelli Simone e Aluisio, che evidentemente non utilizzavano più l’impianto, ne consentirono la progressiva trasformazione in una gualchiera.
La vendita dei manufatti avveniva sia direttamente, nella bottega accanto al duomo presso la fornace, sia tramite rivenditori, a Milano, e in molte altre località. Oltre a quella attigua alla fornace un’altra bottega, situata a porta Cumana, era di proprietà della famiglia, che non la gestiva però direttamente, ma la sublocava a rivenditori che si impegnavano a trattare esclusivamente i vasi vitrei loro forniti dai Montaione. I prodotti venivano comunque affidati anche ad altri rivenditori della città, con la medesima clausola.
Fuori Milano il M. e fratelli erano in contatto con rivenditori di Pallanza, Arona, Varese, Crema, Introbio e della Valsassina, che spesso si impegnavano anch’essi a stipulare con loro patti di fornitura esclusiva. Sembrerebbe dunque chiaro l’intento di assicurarsi il totale monopolio del mercato su scala «regionale», mediante la cessione del prodotto a soggetti probabilmente spesso loro legati dall’indebitamento o da rapporti commerciali di vario genere.
I prodotti realizzati erano costituiti da boccali, ampolle, bicchieri, bottiglie di varia capacità, saliere, alambicchi da farmacia, recipienti per speziali. Non doveva trattarsi in ogni caso solo di prodotti di uso comune, in primo luogo perché la fabbricazione di alambicchi da farmacia richiedeva un procedimento molto complesso; in secondo luogo perché si utilizzavano materie prime particolarmente pregiate come l’allume di feccia, impiegato anche a Murano per gli oggetti più costosi; in terzo luogo perché già nel 1454 il M. aveva realizzato nella fornace comasca il cristallino, pasta vitrea di particolare purezza e trasparenza, ottenuta da materie prime molto pregiate, con un procedimento la cui invenzione è stata a lungo fatta risalire al 1450-52, attribuendola agli artigiani di Murano che ne avrebbero custodito gelosamente il segreto, un segreto che in realtà doveva essere già da tempo conosciuto dagli imprenditori toscani. A tale proposito, poiché i Montaione rifornivano la corte ducale, non pare assurdo ipotizzare, data l’abilità tecnica dei vetrai toscani, e dato il diretto contatto anche per via di parentela tra questa famiglia e le maestranze muranesi, che il celebre calice con le insegne ducali conservato al Museo di arti applicate del Castello Sforzesco, ritenuto di provenienza veneziana, fosse invece uscito dalla fornace dei Montaione, che, come accennato, producevano calici in vetro cristallino già nel 1454 nello stabilimento di Como.
Oltre alla produzione vetraria il M. aveva altri molteplici interessi, tra cui il traffico d’armi, esercitato con il socio Lorenzo «de Castano», con la gestione di un fondaco a Ginevra, liquidato tra 1461 e 1462 dopo la morte del socio, quando tra gli eredi di Lorenzo e i Montaione si aprirono liti, destinate a protrarsi fino al 1477, per la riscossione dei crediti e la divisione delle merci rimaste. Negli stessi anni il M. venne forse in qualche misura coinvolto anche nel commercio laniero, come sembrerebbe lasciar intuire un atto di vendita di drappi per un importo modesto (Zanoboni, 2005, pp. 110 s.).
Negli anni Settanta, oltre alla loro attività principale, i Montaione dovettero intraprendere anche quella di speziali: tra il 1472 e il 1476 viene infatti menzionata più volte una «apotecha spitiarie» (ibid., pp. 111 s.) del M. e fratelli prima, degli eredi del M. poi, situata a porta Orientale, parrocchia S. Raffaele, accanto alla fornace e con essa comunicante. La bottega in passato era stata affittata a uno speziale dal quale, allo scadere della locazione, il M. doveva aver rilevato le «res a spitiaria» passando a una gestione diretta. La «apotecha spitiarie» dunque dovette funzionare almeno fin verso il 1478; è certo in ogni caso che nel 1497 era ormai diventata una bottega di calzolaio, e solo allora vennero chiuse le due porte di comunicazione con la fornace.
Il M. morì, ignoriamo dove, tra il 10 ottobre e il 18 nov. 1475.
Ne continuarono l’attività il fratello Aluisio, che sembrerebbe aver ereditato la fornace di Milano, i figli Donato, Bernardino, e Giovanni Antonio e il fratello Simone che doveva occuparsi ormai prevalentemente della produzione di Pavia, dove i Montaione avevano da tempo una casa con magazzino in parrocchia di S. Pietro in Vincoli, cioè nella zona più commerciale della città, dove erano situate, almeno dal Seicento, le botteghe di proprietà dei produttori di maioliche. A Pavia, nota per il suo ruolo nella raccolta dei ciottoli quarziferi del Ticino, di ottima qualità, si trasferì Simone, inizialmente mantenendo residenza anche a Milano, poi abitandovi stabilmente, e vi elesse domicilio fisso almeno uno dei suoi figli, Silvestro.
Proprio in questa città fecero testamento nel 1528 Simone e nel 1529 suo figlio Silvestro. Sia a Pavia sia a Milano Simone riforniva tra l’altro di «robe de vitreo» la corte ducale, come si desume da una supplica a Bona di Savoia in cui Simone lamenta il mancato pagamento di un debito di 200 fiorini contratto dal defunto Galeazzo Maria per «robe de vitreo» appunto, consegnate a Pavia allo spenditore ducale Aluisio Pietrasanta, che aveva assegnato in cambio a Simone i proventi dell’ufficio delle Bollette pavese, procrastinando poi il pagamento. Nella stessa supplica Simone fa notare ai duchi di essere loro creditore di somme elevate che essi avrebbero dovuto saldare se intendevano continuare ad avvalersi delle sue forniture (ibid., pp. 113 s.).
Giovanni Antonio, figlio del M., dovette continuare l’attività a Milano, almeno nei primi anni del XVI secolo, come testimonia il suo acquisto, nel 1504, di un vasto spiazzo presso il laghetto di Santo Stefano (cioè nelle immediate vicinanze della fornace) per scaricare e immagazzinare il combustibile, e come lasciano intuire i grandi quantitativi di legna da ardere da lui acquistata a più riprese nel 1506.
Degli altri eredi, Francesco Montaione di Donato continuò a risiedere a porta Orientale, parrocchia S. Raffaele nella casa avita, estendendo contemporaneamente i suoi traffici verso Monza, dove risulta affittuario, negli anni Trenta del XVI secolo, di alcune botteghe. Francesco di Aluisio dalla parrocchia di S. Raffaele, dove risiedeva ancora nel 1500, si trasferì in quella di S. Babila e ottenne per il 1506 l’appalto della quarta parte del «datium macine et additionis veteris et parve, ac pisium et gambarorum» (ibid., p. 114). Paola, figlia di Giovanni Antonio, il 24 apr. 1518 sposò l’allievo prediletto di Leonardo da Vinci, Giovan Pietro Rizzoli detto il Gianpietrino, figlio a sua volta di un fabbricante di pietre false, fatto che costituisce tra l’altro un indizio dei probabili contatti tra i mercanti di vetro e i produttori di gioielli contraffatti. Notaio risulta invece un Giovan Donato di Francesco, abitante ancora nella parrocchia di S. Raffaele a porta Orientale nella seconda metà del XVI secolo.
Fonti e Bibl. G. Biscaro, Intorno all’arte del vetro a Milano e nella regione del lago Maggiore durante il Medio Evo, in Archivio storico lombardo, s. 4, XXXVIII (1911), 2, pp. 234-237; S. Nepoti, Dati sulla produzione medievale del vetro nell’area padana centrale, in Archeologia e storia della produzione del vetro preindustriale, a cura di M. Mendera, Firenze 1991, pp. 117-131; M.P. Zanoboni, G. da M. e la manifattura vetraria a Milano, in Rinascimento sforzesco, Milano 2005, pp. 87-117; Id., «Ciati» ducali e vetro cristallino: nuove indagini sull’arte vetraria a Milano (fine sec. XV - inizio sec. XVI), in Artes, XII (2004), pp. 53-82; Id., Salariati nel Medioevo. «Guadagnando bene e lealmente il proprio compenso fino al calar del sole», Ferrara 2009.