MORONE, Giovanni
– Nacque a Milano il 25 gennaio 1509 da Girolamo e da Amabilia Fisiraga, entrambi appartenenti a illustri casati nobiliari.
Senatore, più volte ambasciatore degli Sforza, che gli affidarono importanti incarichi di governo e lo designarono conte di Lecco, Girolamo Morone fu tra i protagonisti dei convulsi decenni in cui Milano divenne l’epicentro dello scontro tra Asburgo e Valois per il dominio dell’Italia. Dapprima legatosi ai francesi, ma poi mandato in esilio dopo la loro riconquista della città nel 1515, rientrò in patria solo nel 1521 e assunse la carica di gran cancelliere. Nuovamente spinto nel campo francese dal trionfo imperiale di Pavia (1525), promosse l’alleanza antiasburgica con il papa e Venezia destinata a sfociare nel sacco di Roma del 1527. Incarcerato, costretto a pagare un enorme riscatto, riuscì a farsi liberare passando al servizio di Carlo V dapprima a Roma, per trattare le condizioni della tregua con il pontefice, e poi al seguito del suo esercito a Napoli e a Firenze, durante il cui assedio morì il 15 dicembre 1529.
Il tracollo politico ed economico della famiglia costrinse Morone, penultimo di dieci figli, a interrompere gli studi giuridici a Padova e a cercare di sfruttare le benemerenze del padre alla corte di Clemente VII, dove già si era recato nel 1526 per sollecitarne l’aiuto nel raccogliere l’enorme somma necessaria alla sua liberazione e ancora nel 1527 insieme con lui. Il papa lo designò nel 1528 al vescovato di Tortona e gli affidò, nel gennaio successivo, quello di Modena, dove egli era vissuto per breve tempo durante l’occupazione francese di Milano. Solo nel 1531 tuttavia, dopo aver conosciuto gravi strettezze alla corte romana, Morone ottenne il riconoscimento della nomina da Alfonso II d’Este, tornato a essere signore della città, sulla cui cattedra episcopale mirava a insediare il figlio Ippolito. Il giovane vescovo si impegnò a pagare una pensione di 400 scudi e a concordare l’attribuzione dei benefici curati, la scelta del vicario e l’affitto delle terre vescovili. Il 28 gennaio 1533, poco dopo la consacrazione sacerdotale avvenuta a Bologna il 12, prese possesso della cattedrale, facendo il suo ingresso in città assai sobriamente, anche per dare un segnale dei suoi propositi di rinnovamento, di lì a poco manifestatisi nell’avvio della visita pastorale e nell’emanazione di rigorosi decreti relativi al clero, ai conventi, agli ospedali, all’istruzione catechistica dei fanciulli.
Entrato nella gerarchia ecclesiastica quasi per caso, privo di cultura teologica e canonistica, Morone non tardò a manifestare il talento politico maturato alla scuola del padre, che avrebbe saputo mettere al servizio della Chiesa nel momento in cui la fine dei papati medicei inaugurava nuovi indirizzi e nuove iniziative per arrestare il dilagare delle eresie. Già all’indomani della nomina episcopale Clemente VII gli affidò una missione a Genova e in Francia, ma fu soprattutto Paolo III a intuirne la sagacia diplomatica, inviandolo più volte come nunzio papale alla corte di Ferdinando d’Asburgo a Vienna e in Boemia fra il 1536 e il 1540, e poi a quella di Carlo V a Gand per partecipare alle diete di Hagenau e Worms (1540), Ratisbona (1541), Spira (1542), dove seppe trovare l’accordo su Trento quale sede dell’imminente convocazione conciliare.
Oltre a stringere personali rapporti di stima e fiducia con i sovrani asburgici che ne consolidarono gli orientamenti filoimperiali scaturiti dalla storia familiare, nella turbolenta Germania di quegli anni Morone trovò ulteriori ragioni di convergenza con Carlo V nel sollecitare la corte di Roma a rinunciare a ogni speranza di stroncare la dilagante Riforma con la forza delle scomuniche e degli eserciti. I suoi densi dispacci riflettono l’acutezza con cui seppe guardare al diffondersi e radicarsi della Riforma in terra tedesca, al consenso sempre più largo che essa incontrava in ogni strato sociale, all’odio antipapale che vi si manifestava, alle istanze spirituali e dottrinali che vi si esprimevano, alle poderose ambizioni politiche che vi si innestavano: era una situazione ormai disperata, cui si sarebbe potuto rimediare solo con una strategia di moderazione e compromesso, con la convocazione del concilio e con un’incisiva riforma della Chiesa.
Già in un appunto del 19 aprile 1536 Morone scriveva a Roma che gli utraquisti boemi erano «di così boni costumi et osservantia de le cerimonie ecclesiastiche et precetti divini come […] li veri catholici in quale si vogli altra provincia: per tanto sarà bene che Sua Beatitudine volontiera et benignamente gl’apra la porta de la salute et gli porga la mano per tirarli ne la Chiesa» (Nuntiaturberichte aus Deutschland, 1892-1981, IV, p. 148). Il 25 marzo 1538, in una lettera indirizzata a Jacopo Sadoleto, criticava i controversisti tedeschi, convinti «che la religgione nostra solo consista in havere odio contra lutherani et in mostrarlo con ingiurie et continui libelli», dicendosi convinto che sarebbe stato «molto meglio procedere con questi moderni heretici con mansuetudine che volerli irritare con ingiurie, et se da principio si fosse proceduto a questo modo forsi sarebbe minore fatica al presente a l’unione de la Chiesa» (Friedensburg, 1903, p. 80). Il 14 maggio 1539 suggeriva al pontefice che «li mezzi atti a redur lutherani» non andavano cercati nelle armi, ma nella riunione del concilio, nella concessione del matrimonio dei preti e della comunione sub utraque specie, nella «reformatione di Roma et de la corte et de tutti li vescovati in Italia», nell’astenersi dallo scrivere «contumeliosamente» contro di loro (Nuntiaturberichte aus Deutschland, 1892-1981, IV, pp. 405-407). In un memoriale dell’8 aprile 1540 osservava che «la religione non par da principio si convenga essere trattata per via di guerra» e che la repressione serviva «più tosto [a] estinguere gli huomini che le heresie» (Firpo - Marcatto, 1981-95, V, p. 154).
Il suo atteggiamento conciliante, animato anche dalla speranza che toccasse a lui «esser ministro di ridur quella provincia all’ubbidientia et all’antica religione, perché sapeva esserli amato universalmente», come avrebbe ammesso in futuro (ibid., II, p. 480), non mancò di sollevare critiche. Ma fu soprattutto a partire dal tentativo di accordo teologico tentato dal cardinale Gasparo Contarini in occasione dei colloqui tenutisi a Ratisbona nel 1541 sotto l’egida imperiale, che il suo irenismo politico cominciò a nutrirsi anche di convinzioni religiose. Se il 14 settembre 1539, in una lettera indirizzata a Paolo III, Girolamo Aleandro non nascondeva la sua irritazione nei confronti di Morone per «esserse mostrato molto partiale» in Germania (Nuntiaturberichte aus Deutschland, 1892-1981, III, p. 169), due anni dopo egli parve ormai «infarinato de queste cose lutherane» agli occhi di un domenicano modenese durante il breve ritorno nella sua diocesi nel novembre del 1541 (Firpo - Marcatto, 1981-95, II, p. 389). A destare tali precoci sospetti fu la sua difesa delle dottrine sostenute a Ratisbona da Contarini, cui nella primavera del 1542 chiese di collaborare al tentativo di riassorbire il dissenso ereticale modenese con gli strumenti del dialogo e della persuasione.
Grave era infatti la situazione che si era venuta a creare nella città, con il diffondersi di dottrine eterodosse non solo tra i dotti della cosiddetta Accademia, ma anche nel clero, nel patriziato, nella nobiltà, tra la gente comune. «Tutta questa cità (per quanto è la fama) è maculata, infetta del contagio de diverse heresie come Praga», lo informava il vicario Gian Domenico Sigibaldi il 10 novembre 1540 in una delle sue frequenti missive (ibid., p. 897). Tali allarmanti notizie indussero Morone a rivolgersi più volte a Roma perché si affrettasse ad arginare il fenomeno con severi provvedimenti e a chiedere il permesso di far ritorno alla sua chiesa. Ma fu solo nel maggio 1542, al rientro da Spira, che egli poté finalmente risiedere per qualche tempo a Modena e misurarsi con quelle eresie, cui guardava ora con occhi in parte diversi, fiducioso che le dottrine contariniane potessero offrire nel piccolo contesto locale il terreno di compromesso che non erano riuscite a trovare sullo scenario europeo a Ratisbona.
«L’inquisitione contra li heretici mi piace somamente», aveva scritto al vicario il 9 maggio 1540, dopo aver richiesto il giorno prima che da Roma si inviassero «huomini prudenti, dotti et vivaci, che habbiano forza di poterla essequire» (ibid., III, pp. 110-113). Due anni dopo, invece, si diceva convinto che solo un dialogo nutrito di «benignità et confidenza» fosse in grado di estirpare le eresie di «quelle anime smarrite», che occorreva anzitutto persuadere «con la bona dottrina et con l’assiduità et patientia et con ogni amorevolezza et charità», come avrebbe poi suggerito nel 1550 al suo successore Egidio Foscarari (ibid., II, pp. 496-498). Propose pertanto agli eterodossi modenesi di firmare un semplice catechismo, al fine di tacitare le accuse e di evitare interventi inquisitoriali. Anche a Modena tuttavia, come a Ratisbona, tale strategia andò incontro a un completo fallimento, non senza invischiare Morone in defatiganti trattative dapprima sul testo da scegliere, poi sui contenuti e sulle parole degli Articuli orthodoxae professionis appositamente redatti su sua richiesta dal Contarini (allora legato papale nella vicina Bologna), e infine sulla formula della sottoscrizione. Costretto a misurarsi con le resistenze, i quesiti, le proteste, gli espedienti nicodemitici di quei dissidenti, alcuni dei quali si allontanarono dalla città per nascondersi altrove, tanto Morone quanto Contarini dovettero infine prendere atto della matura consapevolezza dottrinale delle loro convinzioni religiose, rinunciando a sperare che «per via de humanità et gentilezza si possino raquistare» (ibid., III, p. 134).
Fu anche in relazione con quanto avveniva a Modena, tuttavia, che il 21 luglio 1542 Paolo III istituì il S. Ufficio dell’Inquisizione romana, con un’implicita delegittimazione della strategia moderata di Morone (come questi subito comprese), inducendolo a chiedere di essere sostituito alla guida della diocesi, non senza suggerire imprudentemente il nome di Pietro Martire Vermigli, ormai alla vigilia della fuga in Svizzera. A chiudere la vicenda fu il cardinale Sadoleto, di lì a poco inviato nella città emiliana per imporre agli eterodossi di sottoscrivere, volenti o nolenti, il formulario di fede contariniano. In tal modo il pontefice evitò che un intervento del supremo tribunale romano suonasse come un’aperta sconfessione dell’operato di Morone, che peraltro nel concistoro del 2 giugno 1542 fu nominato cardinale.
A sottolineare l’intatta fiducia nei suoi confronti di Paolo III, sempre attento a mediare i crescenti conflitti interni al sacro collegio, Morone fu convocato a Roma, dove il 6 ottobre ricevette la berretta rossa dalle mani del papa e dieci giorni dopo, unitamente a Pietro Paolo Parisio e Reginald Pole, la nomina a legato papale al concilio, convocato a Trento per il 1° novembre. Poco prima, di passaggio a Viterbo, aveva incontrato il cardinale d’Inghilterra, con il quale nei mesi seguenti avrebbe stretto un legame di profonda amicizia, fondata su comuni indirizzi politici e religiosi. Durante il viaggio alla volta di Trento, a breve distanza l’uno dall’altro, avvenne la conversione di Morone alle dottrine valdesiane per tramite di Marco Antonio Flaminio.
Secondo l’eterodosso bolognese Giovan Battista Scotti, infatti, proprio allora il legato sarebbe stato conquistato al raffinato spiritualismo affidato alle pagine del Beneficio di Cristo che Flaminio si accingeva a dare alle stampe in vista dell’imminente concilio. In futuro lo stesso Morone avrebbe ricordato le discussioni religiose avute a Trento con Pole, sottolineando l’esoterica «confabulatione spirituale» alla quale era stato iniziato, volta a coniugare una sostanziale adesione alla dottrina luterana della giustificazione per sola fede con una salda fedeltà alla Chiesa, sottraendosi a ogni sorta di «controversie et contentione» (ibid., II, pp. 559 s.). Un domenicano partecipe di quelle dottrine avrebbe poi riferito come a Trento il legato non cessasse di dire «cose grandissime in laude del cardinal Polo, et inter caetera come da lui era stato illuminato circa de questa matteria della iustificatione», dichiarando di essere stato in passato «inimicissimo di questa oppinione ma, poi che parlò et prese pratica con monsignor Polo, prese questa doctrina come cosa sanctissima» (ibid., p. 715). Fu allora che Flaminio gli consegnò alcuni testi inediti, tra cui il Beneficio di Cristo e scritti di Juan de Valdés, esortandolo «a componere meditationi» sui Salmi e sulle lettere di s. Pietro (ibid., pp. 459-460, 584). Tracce evidenti della svolta religiosa di Morone appaiono nell’intenso carteggio allora avviatosi con Vittoria Colonna e con lo stesso Pole dopo il ritorno di quest’ultimo alla corte papale.
Rimasto a Trento, nella vana speranza che il concilio potesse dare inizio ai suoi lavori, Morone non nascose il suo entusiasmo di neofita con affermazioni talora imprudenti, che cominciarono ad alimentare i sospetti sul suo «convenire cum haereticis in materia de gratia et libero arbitrio» (ibid., pp. 834-835). In quelle settimane non si limitò infatti a insistere sull’esigenza di varare riforme in grado di estirpare la corruzione della Curia, dicendosi convinto che occorreva «levar via in gran parte la Cancellaria, la Penitentiaria in grandissima parte» e che «le parrocchie non se dessero a cortigiani, et si lasciasse tutta la sua iurisdittione libera alli vescovi, et che fossero homeni degni di stare al vescovato, secondo si faceva nella Chiesa primitiva» (ibid., pp. 847 s.), ma proferì affermazioni che denotano la sua consapevole adesione al valdesianesimo, come per esempio che «una persona può essere tanto piena de spirito che la non sia sottoposta alle leggi humane della Chiesa» (ibid., p. 281).
La svolta religiosa fu tanto più significativa in quanto segnò anche un netto cambiamento nel governo pastorale della diocesi modenese.
Le lettere inviate da Trento, in cui Morone esortava i confessori a informare i penitenti che solo «Christo era quello che absolveva», la diffusione del Beneficio di Cristo, l’invio in città di predicatori sospetti quali Bernardo Bartoli e Bartolomeo della Pergola con il compito di parlare dal pulpito «de intercessione sanctorum, de iustificatione, de praedestinatione ad mentem Lutheri» (ibid., pp. 265, 426 ss.), la cacciata del gesuita Alfonso Salmerón a causa delle sue omelie sul valore meritorio delle opere alimentarono i crescenti sospetti dei domenicani e soprattutto del S. Ufficio romano. Mentre a Modena si mormorava che, «essendo esso reverendissimo Morone devenuto lutherano, doveva havere desiderio di far tale tutto il suo populo», nel 1545 un predicatore spagnolo informava il duca estense del gran numero di eterodossi e soprattutto della protezione loro accordata dal vescovo. Fu verosimilmente allora che Ambrogio Catarino Politi indirizzò una lettera «ad mutinenses catholicos, exhortans illos ad persistendum firmiter in fide catholica adversus luteranos tunc ibi regentes, a quibus contumelias et iniurias patiebantur» (ibid., VI, p. 291).
Nel frattempo Morone si era trasferito a Bologna, dove entrò solennemente il 6 maggio 1544 con la carica di legato pontificio della città e della Romagna, decretata da Paolo III il 7 aprile. Qui egli cercò di rafforzare la pubblica autorità tanto nella prassi giudiziaria quanto attraverso numerosi bandi ed editti sulla disciplina del clero, i reati comuni, il banditismo delle campagne, il prelievo fiscale, la normativa annonaria. Tre mesi dopo, il 30 luglio, fu di nuovo inviato come legato alla corte imperiale per contribuire a una pace tra Asburgo e Valois che consentisse la ripresa del concilio. Il 19 novembre fu inserito da papa Farnese nella commissione cardinalizia incaricata di prepararne la convocazione, e il 27 novembre venne richiamato a Roma in vista della sua imminente apertura.
Anche a Bologna non mancò di insospettire i domenicani per la sua scarsa devozione alla Vergine e alle reliquie dei santi e per la benevolenza mostrata nei confronti degli studenti universitari tedeschi di fede luterana e soprattutto di alcuni eterodossi, ai quali – secondo alcuni testimoni del suo processo – avrebbe elargito elemosine per i «fratelli» e addirittura promesso di avvertirli qualora gli fosse giunta notizia di qualche iniziativa inquisitoriale contro di loro, come avvenne nel caso di Pergola e di Scotti. Quest’ultimo avrebbe poi riferito di averlo sentito dire che «obediva a papa Paulo terzo come a mero principe seculare» e che «era bene a lasciare stare questi lutherani et andargli tolerando poi che Iddio, il quale con un cenno li potrebbe annullare, li soportava». Quando venne informato del decreto sulla giustificazione approvato a Trento il 31 gennaio 1547, Morone non avrebbe nascosto il suo disappunto, auspicando che in futuro esso venisse modificato e dicendo a Scotti che «fusse chi se volesse che se fidasse ne’ suoi meriti: esso non voleva altri meriti proprii, ma solo quelli de Christo» (ibid., II, pp. 360, 758).
Il 13 luglio 1548 rinunciò alla legazione di Bologna (dove l’anno precedente era stato trasferito il concilio), anche se restano alquanto oscure le ragioni che indussero Paolo III a sostituirlo con il cardinale Giovanni Maria Del Monte, il futuro Giulio III. Tale decisione non fu estranea alla scoperta di una cospirazione filoimperiale in cui venne coinvolto anche Catalano Gallarati, cognato di Morone, verosimilmente del tutto estraneo alla vicenda (anche se alcuni suoi collaboratori furono posti sotto inchiesta), mentre è probabile che i suoi orientamenti politici suggerissero ad Alessandro Farnese di richiamarlo prudenzialmente a Roma nel momento in cui l’assassinio di Pierluigi Farnese e la traslazione del concilio portavano al culmine la tensione tra papa e imperatore. In ogni caso, l’episodio non incise sull’autorevole ruolo curiale da lui assunto al ritorno a Roma, dove risiedette stabilmente negli anni seguenti in un modesto palazzo a Trastevere. Alla fine del 1549 rinunciò alla diocesi di Modena a favore del domenicano Foscarari, riservandosi peraltro una pensione di 650 ducati, la collazione dei benefici e il diritto di regresso. Il fatto che mantenesse un ruolo rilevante nel governo pastorale della città è testimoniato dall’Aviso di quanto si ha da osservare dalli predicatori nella città del 1551.
Grande stima di Morone ebbe anche Giulio III, salito al trono papale il 7 febbraio 1550, al termine di un lungo e tormentato conclave in cui per la prima volta per bocca del cardinale Gian Pietro Carafa il S. Ufficio sollevò aperte accuse di eresia contro Pole per impedirne l’elezione. Avverso a quelle infide manovre inquisitoriali e deciso a contrastarne il potere, pochi giorni dopo il nuovo pontefice inserì Morone nella congregazione preposta al supremo tribunale della fede e nei mesi seguenti lo designò nelle commissioni cardinalizie incaricate di preparare la nuova convocazione del concilio (aprile) e di avanzare proposte sulla riforma della Curia (ottobre) e della Sapienza (novembre). In lui Pole trovò il suo più affidabile interlocutore curiale durante la legazione in Inghilterra tra il 1553 e il 1558 per affiancare la regina Maria Tudor nella restaurazione del cattolicesimo. Il 7 gennaio 1555, infine, Giulio III lo designò legato papale alla corte imperiale in occasione della dieta di Augusta, auspicando che per suo tramite «s’havesse a ridurre la Germania all’antica et vera religione» (ibid., p. 472). La notizia della morte del papa, avvenuta il 22 marzo, lo costrinse a tornare subito a Roma.
Cardinale prete titolare di S. Vitale dal 16 ottobre 1542, di S. Stefano al Celio dal 25 febbraio 1549, di S. Lorenzo in Lucina dall’11 dicembre 1553, di S. Maria in Trastevere dal 12 giugno 1556, Morone fu creato vescovo di Novara il 12 settembre 1552.
Anche se suoi incarichi curiali ne imponevano la presenza a Roma, volle recarsi nella nuova diocesi per prendere possesso della cattedrale e varare alcune riforme volte a restaurare la disciplina del clero. Il 25 gennaio 1553 fece stampare le rigorose norme «de cultu divino» e «de honestate clericorum» dei suoi Aedicta sive constitutiones, in primavera avviò la visita pastorale della diocesi e il 22 gennaio 1554 impartì al vicario G.G. Parravicino un minuzioso «ordine che si ha da tenere circa il predicare», in cui insisteva sull’esigenza di evitare che quanti salivano sul pulpito «in ullam damnatam haeresim incidant aut varias et peregrinas doctrinas invehant in Ecclesia Christi» (ibid., III, pp. 288 s., 302 s.). Con tali disposizioni mirava anche a cautelare se stesso dal S. Ufficio romano, le cui indagini sul suo conto si arricchirono allora delle accuse formulate dall’ex barnabita Lorenzo Davidico, un prete corrotto e ambizioso autore di numerosi libretti devozionali con i quali era riuscito a presentarsi come un intransigente riformatore agli occhi di Morone, che nella primavera del 1553 lo aveva chiamato a Novara come vicario foraneo, salvo poi doverlo processare e cacciare dalla diocesi a causa delle gravi malversazioni da lui perpetrate. L’impegno riformatore e al tempo stesso la volontà di comprovare la sua ortodossia trapelano anche nell’appoggio da lui offerto alla Compagnia di Gesù, dando il suo sostegno all’istituzione del Collegio germanico di Roma nel 1552, di cui fu designato tra i protettori, e al loro insediamento a Modena, dove essa fondò uno dei primi collegi in Italia.
Nonostante i deboli tentativi di Giulio III di arginarne la crescente invadenza, la morsa dell’Inquisizione andò sempre più stringendosi in questi anni intorno agli «spirituali», come dimostrano i processi allora avviati contro l’arcivescovo d’Otranto Pietro Antonio Di Capua, il vescovo di Bergamo Vittore Soranzo, il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani e molti altri, tra cui numerosi valdesiani di Napoli. Insieme con Pole, Morone fu al centro di tali processi, la cui documentazioni accusatoria venne arricchendosi in gran segreto (a dispetto delle esplicite disposizioni del papa) delle deposizioni di frati inquisitori e di eretici caduti nella rete del S. Ufficio, quali Scotti, Bartoli, Apollonio Merenda, Ippolito Chizzola, mentre nella seconda edizione della Tragedia del libero arbitrio dell’ex benedettino Francesco Negri, apparsa in Svizzera nel 1551, Morone era menzionato insieme con Pole e Flaminio tra coloro che avevano «fatto una nuova scola d’un christianesimo ordinato alloro modo, ove essi non niegano la giustificatione dell’huomo essere per Giesù Christo sì, ma non vogliono poi admettere le consequentie che indi necessariamente ne seguono, percioché vogliono con questo tuttavia sostentare il papato, vogliono havere le messe, vogliono osservare mille altre papistice susperstitioni et impietà» (pp. [B6]v-[B7]r).
Alla morte di Giulio III (22 marzo 1555), nei due conclavi dell’aprile-maggio, Morone (il più autorevole candidato filoimperiale) fu quindi il principale bersaglio delle accuse del cardinal Carafa che già il 26 giugno, un mese dopo l’elezione papale del 23 maggio con il nome di Paolo IV, avviò formalmente il processo contro di lui.
Il commissario del S. Ufficio fra Tommaso Scotti da Vigevano, incaricato delle indagini, nei mesi seguenti raccolse numerose deposizioni a Firenze, Roma, Bologna, Modena. La disastrosa guerra antispagnola e l’esigenza di ottenere l’estradizione a Roma di alcuni eterodossi modenesi ritenuti complici del cardinale milanese suggerirono al pontefice di procrastinare l’arresto fino al 31 maggio 1557, quando Morone fu rinchiuso in Castel Sant’Angelo, mentre il suo palazzo veniva perquisito e le sue carte sequestrate. Nel concistoro del 2 giugno il papa spiegò «d’haver processi fatti sin al tempo di Paolo III contra al cardinal assai importanti», alludendo anche a «un altro» porporato (subito da tutti identificato in Pole) che «con pericolo di questa santissima sede» era stato anch’egli sul punto di ricevere la tiara» (Firpo - Marcatto, 1981-95, V, p. 234 s.). Gli interrogatori furono affidati a una commissione composta di cardinali nominati da papa Carafa e presieduta da Michele Ghislieri, e già il 4 ottobre vennero consegnati a Morone gli articuli d’accusa con cui si avviava la fase repetitiva del processo (subito pubblicati in terra riformata da Pier Paolo Vergerio, nonostante la segretezza dell’inchiesta). Dopo la pace di Cave il procedimento continuò a rilento, forse nella speranza di acquisire nuove prove e di convincere della colpevolezza dell’imputato Filippo II, cui lo stesso cardinal nipote Carlo Carafa consegnò una copia del processo. Solo il 13 giugno 1559 il tribunale concedette le difese a Morone, che si avvalse dei più valenti avvocati romani, raccogliendo una corposa mole di documenti a discarico (lettere delle nunziature in Germania, testi pastorali, corrispondenza con il vicario di Modena, allegazioni giuridiche in facto e in iure ecc.) e richiese l’escussione di numerosi testimoni a discarico a Roma, Bologna, Modena, Cremona, Milano. Inutilmente il decrepito Paolo IV, ormai prossimo alla fine, cercò di forzare le norme procedurali per decretare la sua condanna, dopo aver emanato il 15 febbraio la bolla Cum ex apostolatus officio che sanciva l’ineleggibilità al trono papale di ogni cardinale che avesse dato adito a sospetti di eresia.
Alla morte di papa Carafa, mentre il popolo romano si scagliava contro i simboli del suo pontificato e dava alle fiamme il carcere di Ripetta, liberando i prigionieri e distruggendo gli archivi, i cardinali presenti a Roma decisero il 21 agosto, con la risicata maggioranza di 13 voti su 25, e in virtù delle energiche pressioni di Filippo II, di liberare Morone e ammetterlo in conclave. Il nuovo pontefice eletto il 25 dicembre, Pio IV, anch’egli milanese e molto legato a Morone, impresse una brusca sterzata alla politica curiale con le clamorose condanne dei nipoti di papa Carafa, la limitazione dei poteri del S. Ufficio e l’emarginazione politica dei suoi principali esponenti, la ripresa dell’iniziativa conciliare. Sin dal primo momento Morone divenne il più fidato consigliere di papa Medici, che impose un’immediata conclusione del suo processo. Il 6 marzo 1560 proclamò la sentenza (pubblicata nel concistoro del 13 e subito annunciata a tutti i principi della cristianità) con cui non solo lo assolveva da ogni colpa e sospetto, ma annullava l’intero processo in quanto nullo e iniquo, imponendo al cardinale Ghislieri di sottoscriverla personalmente, per vincolarlo a essa anche in futuro.
Per celebrare l’evento Morone fece coniare due medaglie con il suo profilo sul cui rovescio figura un raggio di luce che squarcia le tenebre sotto le parole vox de coelo e la scritta et tenebrae eum non comprehenderunt, oppure la palma che si piega e due figure allegoriche con il cartiglio virtute et constantia. Una terza medaglia, commissionata dalla sorella Anna Morone Stampa, marchesa di Soncino, reca il volto del cardinale circondato dall’iscrizione io[annes] car[dinalis] moron[us] fi[dei] cath[olicae] propugn[ator].
Lo stesso 13 marzo Morone rinunciò al vescovato di Novara e il pontefice lo elevò al titolo cardinalizio della diocesi suburbicaria di Albano, per trasferirlo poi il 10 marzo 1561 a quella di Sabina, il 18 maggio 1562 a quella di Palestrina, il 12 maggio 1564 a quella di Frascati, il 7 febbraio 1565 a quella di Porto.
Anche durante il regno di Pio IV, tuttavia, il S. Ufficio continuò a conservare gelosamente la documentazione processuale di Morone ed egli tentò invano di entrarne in possesso, nonostante il papa lo avesse nominato cardinale protettore dei domenicani. Con grande sagacia politica, d’altronde, seppe cogliere la netta svolta segnata dalla pace di Cateau Cambrésis anche sul terreno religioso e comprendere che il pontificato di Pio IV avrebbe segnato solo una fugace parentesi nell’inarrestabile processo di consolidamento del potere inquisitoriale ai vertici della curia romana. In questa prospettiva, anche al fine di premunirsi in futuro da nuove accuse, evitò di riprendere i contatti con Pietro Carnesecchi, anche dopo l’assoluzione di quest’ultimo decretata dal papa nel giugno 1561. In occasione della nuova convocazione conciliare del 1562 collaborò con Girolamo Seripando all’edizione del De concilio di Pole, volta anche ad attestare la piena ortodossia del cardinale inglese, e ammonì Ludovico Beccadelli e Foscarari a non perseverare nella difesa dello ius divinum quale presupposto della residenza dei vescovi, informandoli dei diversi orientamenti papali in merito a tale questione.
Seriamente preoccupato per la completa paralisi dell’assemblea tridentina a causa del conflitto tra le difformi istanze dei vescovi spagnoli, tedeschi e francesi, il 7 marzo 1563 Pio IV lo designò legato papale al concilio, insieme con Bernardo Navagero, in sostituzione dei defunti cardinali Gonzaga e Seripando, affidandogli il compito di trovare una mediazione tanto difficile che lo stesso cardinale milanese non nascose di ritenere che ormai «nulla spes erat della religione cattolica» (Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Albèri, IV, Firenze 1857, p. 82). Giunto a Trento il 10 aprile, una settimana dopo si mise in viaggio alla volta di Innsbruck, dove nel corso di un’intensa trattativa con l’imperatore Ferdinando I raggiunse un accordo che consentì al concilio di avviarsi verso la conclusione, solennemente celebrata il 4 dicembre con grande soddisfazione di Pio IV, che gli espresse ripetutamente la sua gratitudine.
Né l’impegno profuso in tale circostanza né il grande prestigio europeo, tuttavia, misero Morone al riparo dai persistenti sospetti del S. Ufficio, tanto più insidiosi in quanto la svolta intransigente di Filippo II dopo la scoperta di nuclei eterodossi anche in Castiglia e il sostituirsi dell’egemonia spagnola a quella imperiale sull’Italia rischiavano di lasciare il cardinale privo del sostegno asburgico sul quale aveva potuto contare fino alla sua liberazione.
Già nell’ottobre 1560 un suo eventuale invio a Trento in vista della ripresa del concilio pareva cosa «muy escandalosa» all’ambasciatore spagnolo a causa delle accuse di eresia di cui era stato fatto segno in passato (Döllinger, 1862, I, pp. 340-341). La nomina a legato papale nel 1563 fu giudicata inopportuna alla corte di Valladolid, e ancor più inopportuno il suo inserimento nella congregazione del S. Ufficio l’anno seguente. Nonostante la riconosciuta statura intellettuale, la grande esperienza curiale, il talento politico, il rigore morale da tutti riconosciutigli, quel processo continuò a far pesare su di lui la fama di uomo «dañado en la religión» (ibid., p. 573). L’anno prima, alla vigilia della morte, il cardinal Rodolfo Pio da Carpi aveva consegnato a Ghislieri la sua copia dell’incartamento processuale relativo a Morone (il cui originale era andato distrutto nel rogo di Ripetta), offrendogli l’arma con cui contrastarne una candidatura papale resa peraltro assai precaria dal ritiro dell’appoggio spagnolo. Nel dicembre 1565 si scriveva da Roma che l’Alessandrino portava «continuamente nella sacchozza» quell’incartamento, che infatti nel conclave successivo alla morte di Pio IV avrebbe usato per accusare Morone di eresia «con i libri in mano et con il processo che diceva di haver ivi in seno» (Firpo - Marcatto, 1981-95, VI, p. 20 s.). Papa Ghislieri non tardò a promuovere nuove indagini sul suo conto, anche se il fatto che fosse stato lui a concludere il Tridentino e l’assoluzione decretata dal suo predecessore gli suggerirono di desistere da tale proposito, per non delegittimare l’autorità della Chiesa e del concilio.
Dopo aver ripreso possesso della diocesi di Modena alla morte di Foscarari il 23 febbraio 1564, Morone vi promosse le prime riforme postridentine con la convocazione di un sinodo e la promulgazione di rigorose Constitutiones nel 1565, affidò al vicario Gaspare Silingardi la visita pastorale della diocesi, poi ripresa nel 1569, e nel 1566-67 promosse l’istituzione del seminario, mentre nel 1569-70 una serie di abiure e processi stroncavano le ultime sopravvivenze ereticali. Il 16 novembre 1571, infine, rinunciò alla diocesi, pur riservandosene cospicue pensioni per sé e i propri familiari. Trasferito al titolo cardinalizio della diocesi di Ostia il 3 luglio 1570, da molti ritenuto l’esponente più autorevole del sacro collegio di cui divenne allora decano, continuò a mantenere un ruolo di grande rilievo nella politica curiale: «No ay en el collegio hombre de tanta prudencia y esperiencia para negocios semejantes», scriveva l’ambasciatore spagnolo il 29 dicembre 1570, non senza sottolinearne la vita esemplare, ma aggiungendo che «sino huviera havido dél la sospecha que hay en lo que toca a la religión, ninguno subjecto havía tal para pontífice» (Correspondencia diplomática, 1914, IV, p. 154). Decisivo fu il suo ruolo nelle trattative con la Spagna che portarono alla Lega antiturca poi vittoriosa a Lepanto, e anche Gregorio XIII si affidò alle sue sperimentate capacità diplomatiche designandolo il 18 marzo 1575 legato papale a Genova, per risolvere la grave crisi politica in cui la città era precipitata, e inviandolo il 23 aprile 1576, all’indomani del suo ritorno a Roma, alla dieta di Ratisbona per occuparsi di questioni tedesche, polacche e russe che lo condussero fino a Breslavia.
Designato protettore dell’ormai perduta Inghilterra nel 1578, morì a Roma il 1° dicembre 1580 e fu sepolto nella basilica di S. Maria sopra Minerva (dove la sua tomba è oggi irreperibile).
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