MOROSINI, Giovanni
MOROSINI, Giovanni. – Nacque il 30 giugno 1633 a Venezia da Alvise (1606-1652) 'della sbarra' di Giovanni, e da Laura di Domenico Contarini.
Al pari del padre, s’impegnò nella carriera politica. Savio agli Ordini (25 giugno - 5 luglio 1661), il 7 gennaio 1662 fu eletto podestà di Chioggia. Vi restò fino al 17 giugno 1663 e ridimensionò le uscite, contrastò le interessate pressioni della consorteria locale, intercettò pratiche illecite, mise ordine nella pasticciata gestione finanziaria della comunità, istituì una cassa a parte per il rifornimento d’olio, impose un’amministrazione separata del fondaco delle farine a Pellestrina, dotò d’armi efficienti i locali bombardieri, intimidì colla forza pubblica gli abitanti di Pellestrina inducendoli a pagare i tributi.
Eletto il 19 maggio 1666 ambasciatore alla corte sabauda, ricevuta la relativa commissione del 21 agosto, partì il 27 settembre da Padova e raggiunse il 25 ottobre Torino, dove, fatta la pubblica entrata il 28 dicembre, ebbe la prima udienza il 5 gennaio 1667. Di lì a un mese, però, in un autentico scontro tra domestici dell’ambasciata e tre lacché del barone savoiardo François de Clermont-Mont-Saint-Jean, i primi, più numerosi, uccisero uno dei servitori del nobiluomo e ne ferirono un secondo. Il duca Carlo Emanuele II pretese soddisfazione, dichiarando che senza di essa Morosini non sarebbe stato ammesso all’udienza, sebbene scrivesse al Senato di non aver avuto parte alcuna nel fatto, né di essere a conoscenza dell'accaduto: una versione addomesticata a beneficio del Senato, non certo del duca, dal quale Morosini si recò il 13 per soddisfarlo con scuse pronunciate ad alta voce. Poté, così, perorare la causa della difesa di Candia, insistendo perché Carlo Emanuele II – che invece richiamò il marchese Ghiron Francesco Villa preferendo impiegarlo come proprio generale – prestasse maggiore assistenza alla tenuta dell’isola.
Nominato il 25 maggio 1668 ambasciatore in Francia, partì il 29 settembre (proprio quel giorno fu eletto, con riserva del 'loco', savio di Terraferma; con lo stesso criterio sarebbe stato eletto, il 17 novembre 1669, censore) e presentò le credenziali a Luigi XIV il 14 gennaio 1669. Suo impegno fu insistere sulla guerra di Candia, ostentare ottimismo sulle condizioni della difesa attribuendone il buono stato anche al valore dei cavalieri francesi, richiedere il contributo della flotta regia e l'afflusso di nuovi rinforzi, smentendo la voce – che circolò a partire da giugno – che fosse in vista la pace. Solo in settembre il Senato ammise che la situazione era disperata, finché, il 19 ottobre, avvisò Morosini della capitolazione, perché a sua volta ne informasse la Corte. La perdita di Candia, dolorosissima per la Repubblica, non rattristò gran che gli interlocutori francesi, in quanto la fine del conflitto apriva ulteriori prospettive all’incremento del commercio franco-ottomano. E se Venezia scoronata del regno di Candia ripiegò, all’inizio dell’ottobre 1670 la monarchia di Francia trionfò sui corsari d’Algeri e, più in generale – come registrò Morosini – procedette nella sua politica di potenza, supportata da ingenti mezzi militari e navali.
Eletto il 10 dicembre 1670 ambasciatore all’imperatore Leopoldo I d'Asburgo, restò a Parigi sino al 28 giugno (il 30 apprese dell’elezione a savio del Consiglio, al solito con riserva del 'loco') per affrontare poi un viaggio dispendiosissimo che si concluse attorno al 10 agosto a Vienna. Il 1° settembre fece il suo ingresso e il 5 ebbe la prima udienza imperiale. Da Morosini il governo veneziano avrebbe voluto non solo un’aggiornata informazione sugli accadimenti europei, ma pure un'azione che ventilasse l’opportunità d’una mediazione internazionale affidata alla Repubblica. Tuttavia la corte cesarea, preoccupata dai disegni espansivi di Luigi XIV, non prese in considerazione l’autocandidatura di Venezia all’arbitraggio. Per quanto concerneva direttamente i rapporti veneto-imperiali, ossia il contenzioso ai confini, Morosini avanzò lamentele alla corte viennese, ma senza alcun risultato.
Eletto il 26 marzo 1674 bailo a Costantinopoli, il 21 giugno lasciò Vienna, ritornò a Venezia e s'imbarcò il 16 giugno 1675 per giungere all'inizio di ottobre nella nuova sede. La città era preda della peste, che continuò a infierire anche successivamente: sorta di costante, questa epidemia, d’una mala sanità congenita al paese ottomano, la cui natura malvagia – secondo Morosini – si sarebbe 'condensata' nel governo del primo visir Karà Mustafà, suo interlocutore principale: ai suoi occhi questi compendiava il genio feroce della nazione, quasi demoniaca incarnazione in sé riassumente tutto l’orrore dell’impero del male. Ottemperando a quanto raccomandatogli nella commissione del 17 aprile 1675, Morosini ottenne che il sultano Maometto IV ordinasse alle autorità turche nella Morea, a Durazzo, nella Valona e a Castelnuovo di porre fine al ricetto dei corsari e il 15 febbraio 1679 riuscì a ottenere anche l'intimazione ai cadì di Durazzo e Valona e al luogotenente del bey di Valona d’attenersi, nei confronti della navigazione mercantile veneta, ai dazi consueti, così revocando l’imposizione del 10% da quelli indebitamente stabilita.
Il 23 novembre 1679 giunse l'atteso nuovo bailo Pietro Civran, ma la partenza di Morosini fu ostacolata da alcuni problemi. Per prima cosa si dovette risolvere la questione delle merci caricate da mercanti veneziani sulle navi colle quali era giunto Civran per eludere la dogana. Poi, proprio quando, a fine gennaio 1680, Morosini era imbarcato nella Venere, un'ispezione stanò uno schiavo napoletano il quale, atterrito, rivelò che almeno una trentina d’altri schiavi fuggiti sarebbero stati nascosti nella nave. La gran quantità di cadaveri galleggiante in quei giorni attorno alle navi venete avrebbe provato agli occhi degli ispettori turchi la veridicità di quanto confessato dall’unico schiavo ricatturato e fu necessario l’esborso d’una grandissima somma di denaro, circa 20.000 reali, a soddisfazione del tentativo, in effetti fraudolento, d’evitare i dazi, cui se ne aggiunsero altri 11.500 pel ricetto agli schiavi fuggitivi. Solo l’11 marzo, Morosini ebbe il permesso di salpare il 14 successivo. Giunto in maggio a Malamocco, fu accolto con la notizia dell'addebito a suo carico della somma sborsata in occasione della partenza e del sequestro di tutti i beni: un provvedimento non solo lesivo economicamente, ma anche umiliante per Morosini che, ancora il 28 novembre 1678, era stato proclamato in Maggior Consiglio procurator di S. Marco de citra. Tuttavia il Senato il 6 giugno discusse ancora dei fatti accaduti a Costantinopoli, finendo col non pretendere il rimborso, in virtù dei meriti acquisiti da Morosini in 18 anni di legazioni.
Reintegrato pienamente nel prestigio, fu dal 29 giugno al 30 dicembre savio del Consiglio, quindi, dal 4 gennaio al 27 giugno 1681 riformatore allo Studio patavino e, dal 29 giugno al 29 dicembre, di nuovo savio del Consiglio.
Nel 1682 s’ammalò e l’11 agosto morì a Poschiavo.
Il 30 settembre 1680 aveva acquistato a Padova, per 6551 ducati, un palazzo nella contrà di S. Massimo sopra il fiume, il cui giardino sarebbe divenuto, una volta ereditato dal figlio del fratello Domenico, Giovanfrancesco, uno dei più celebri orti botanici privati d’Europa.
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