MUZZARELLI, Giovanni
– Nacque nel 1486, o al principio del 1487, come si è potuto stabilire sulla base di un documento dell’Archivio di Stato di Mantova (Libro dei mandati, 11, c. 159r, datato 20 febbraio 1511; Hannüss, 1971, pp. 159 s.), dal quale si evince anche che la famiglia poteva disporre di diversi terreni nel Mantovano e che il nome del padre era Ludovico. Il testo non precisa il luogo di nascita, che resta non individuato tra Mantova, Sabbioneta e Gazzuolo.
Nulla è noto dei suoi primi studi, ma da un rarissimo opuscolo di sole sei carte edito a Bologna nel 1506 (Elegans ac subtilis disputatio utrum causa sit actio... per Ioannem Muzarellum annotata ex dictis eximii preceptoris sui Io. Baptiste Cimatori, s.n.t.) si ricava che dovette frequentare i corsi di diritto di Giovanni Battista Cimatori a Bologna nei primi anni del secolo. Precocità e disposizione alla pratica letteraria gli guadagnarono presto l’attenzione e la protezione di Ludovico Gonzaga, protonotario e vescovo di Mantova dal 1482. Gonzaga, per via di tesi rapporti con il potere ducale che gli preclusero la porpora cardinalizia, si stabilì tra Quingentole, Ostiano e Gazzuolo, dove impiantò una corte di letterati che, accanto al giovane Muzzarelli, vide la partecipazione anche di Antonio Tebaldeo, Timoteo Bendedei, Niccolò Lelio Cosmico (cfr. Matteo Bandello, Novelle, I, 8). Entro questa corte Muzzarelli avviò un composito esercizio letterario: la canzone Alma felice e rara (ed. Hannüss Palazzini, 1983, n. XXVII) è probabilmente dell’inizio 1505, mentre, secondo le ipotesi già di Vittore Cian, a partire dal 1506 (1506-08 secondo Dilemmi, 2000) va collocata la composizione della Amorosa opra.
L’opera ha una tradizione complessa: il codice α.G.5.3 della Biblioteca estense e universitaria di Modena contiene una prima redazione, distinta da quella trasmessa da un manoscritto ora in collezione privata a Pesaro (cfr. Arbizzoni, 1985); i rapporti tra i due testimoni, copiati e corretti da una stessa mano, probabilmente quella dello stesso Muzzarelli, sono stati discussi nell’ed. Hannüss Palazzini, 1986. Il poema tocca questioni cruciali della cultura contemporanea, sul piano della lingua e delle scelte stilistiche, sull’onda degli Asolani di Pietro Bembo. Dedicata a Elisabetta Gonzaga, con la chiara intenzione di entrare nell’entourage della duchessa di Mantova, descrive la «lite d’amore» tra Filotimio (amante degli onori) ed Epenofilo (amante delle lodi) a proposito della celebrazione di una donna innominata, che è stato ipotizzato fosse Camilla, figlia di Antonia Del Balzo, pure celebrata nell’opera insieme con la sorella Isabella.
Nell’ambiente gonzaghesco strinse anche rapporti con Tebaldeo: ne sono prova affettuosi versi latini di quest’ultimo, trasmessi nell’autografo Vat. lat. 3389, c. 30v-33r, e la stampa comune delle Stantie nove de miser Antonio Thibaldeo… et una fabula di Narciso de miser Giovanne de Mozarello da Mantoa, Venezia, N. Zoppino e Vincenzo di Paolo, 1518 (la Fabula a cc. D1v-F1r), ristampata negli anni seguenti. Il testo, rimasto incompiuto, muove dal modello ovidiano e da quello più vicino di Poliziano in una celebrazione della forza e delle imprese di Amore.
Alla radice di queste prove poetiche, rimaste più note, può individuarsi un’istanza di sperimentazione che si provava sul versante latino (al quale pare vada assegnato un poema per Ludovico Gonzaga menzionato da Andrea Cavalli; cfr. Cian, 1893, p. 364), ma che trovava sede principale nella lirica volgare, in una produzione abbondante ma non organizzata in un canzoniere, né destinata alla stampa. Al momento, prescindendo dai non trascurabili problemi di attribuzione, si contano una cinquantina di testi, tra sonetti, canzoni e madrigali.
Dopo la morte di Gonzaga (19 gennaio 1511) si trasferì prima a Sabbioneta, poi, grazie anche al sostegno di Elisabetta Gonzaga, organizzò il passaggio a Roma, in vista del quale vendette le sue proprietà: il documento del febbraio 1511 che la registra non solo fornisce l’informazione su beni posseduti a Birbesi e Cavriana, territori contigui a Mantova, ma chiarisce il preciso indirizzo dell’atto, la volontà cioè di ottenere dalla vendita un ricavato da destinare esclusivamente all’acquisto di uffici a Roma. La deroga, posto che Muzzarelli non aveva ancora raggiunto l’età necessaria per procedere in autonomia, venne firmata da Giovan Giacomo Calandra, capo della segreteria marchionale (Hannüss, 1971, pp. 159 s.).
L’inserimento nell’ambiente culturale romano fu rapido e di successo, come attestano autorevolmente gli elogi tributati da Pietro Bembo in una lettera a Ottaviano Fregoso: «et Mutius Arellius fere quotidie, magnae spei adulescens, ut scis, aut etiam maioris quam quod scire possis: magis enim magisque sese in dies comparat, cum ad mores optimos et ad omnem virtutem, tum ad poetices studia, ad quae natus praecipue videtur» (Bembo, 1990, p. 63), testimonianza che conferma come nel frattempo Muzzarelli avesse latinizzato il proprio nome in Mutius Arellius (o Arelius, o Aurelius). Forse dei primi mesi romani, certo entro il 1512, è anche il legame con Francesco Maria Molza (testimoniato dal sonetto molziano Alma che già nella tua verde etade): una contiguità di esercizio poetico nella Roma di Giulio II che determina oggi non semplici questioni attributive su numerosi componimenti poetici muzzarelliani (cfr. anche Scarpa, 1985, per testi contesi con Ludovico Ariosto, Niccolò Amanio, Giovangiorgio Trissino, Bernardo Accolti, Girolamo Muzio).
All’altezza del 1513, al momento dell’elezione di Leone X, Muzzarelli poteva dunque contare su una solida stima nel mondo culturale romano, e finì per aver parte in un episodio del dibattito sulla lingua che si andava sviluppando sull’asse Bembo - Mario Equicola. A lui è indirizzata l’Epistola eloquentissimi oratoris ac poetae clarissimi d. Marii Aequicolae in sex linguis risalente al novembre-dicembre 1512 (Dionisotti, 1968), un testo che intrecciava le polemiche sul latino, tra ciceroniani e non, e le critiche sulle diverse opzioni del volgare, tra il paradigma degli Asolani e la via isolata del Polifilo.
Con ogni probabilità già dalla primavera del 1513 era pronta la celebrazione con un’elegia latina dell’elezione di papa Medici, edita postuma a firma «Ioannes Mutius Aurelius» in una stampa del De partu Virginis di Sannazaro (Venezia, G.A. da Sabio e fratelli,1528, cc. LXVIr-LXVIIv), e accompagnata da un inno per s. Giovanni Battista. Dello stesso 1513 sono anche due componimenti (Rime, XXXVII e IV) nella stampa sine notis della Comedia di Bernardo Accolti. Ammesso nell’accademia privata del pontefice, probabilmente per interessamento di Bembo, Muzzarelli prese parte alla raccolta per Johannes Goritz (Coryciana, a cura di J. Ijsewijn, Roma 1997, p. 81 nn. 61 s.) e fu inoltre oggetto di un omaggio in versi da parte di Paolo Nomentano (Roma, Biblioteca Angelica, Mss., 1349, c. 16r; cfr. Lucioli, 2009).
Nel marzo 1514 gli venne affidato il governo della rocca di Mondaino, nelle Marche (il breve di nomina fu firmato da Bembo). Secondo la testimonianza di Giovanni Pietro Dalle Fosse (Valeriano), l’ufficio doveva consentire un maggiore agio negli studi, ma il governo si rivelò non semplice, come si intende da una lettera di Baldassarre Castiglione del 9 maggio (ed. 1978, p. 354) e da una di Muzzarelli a Cristoforo Tirabosco, maestro di casa di Castiglione, nella quale affermava: «Alfine con infinite battaglie crudeli et mortali ho havuto la possessione di questa benedetta roccha» (Prato, 1894, p. 274; la lettera, firmata «Gio. Mutio Arellio castellano di Mondaino» il 31 luglio 1514, rappresenta con ogni probabilità l’unica missiva autografa fin qui rinvenuta, vista e trascritta da Giovanni Prato e oggi da ricercare nell’Archivio Castiglioni confluito nell’Archivio di Stato di Mantova).
Nulla è noto dei due anni successivi, se non la semplice notizia (già in Tiraboschi) di un poema epico su Porsenna e Muzio Scevola. A seguito di un governo energico, Muzzarelli dovette suscitare opposizioni e ostilità che causarono la sua fine. Morì di morte violenta nei primi mesi del 1516 e il suo cadavere fu trovato in un burrone.
La scomparsa è riflessa nelle addolorate lettere del 3 e 30 aprile 1516 di Bembo a Baldassarre Dovizi da Bibbiena: «Mons. mio, sapete bene che io temo grandemente che il nostro povero Muzarelo sia stato morto da quelli di Mondaino, perciò che da un mese in qua esso non si trova in luogo alcuno; solo si sa che si partì di quella maledetta Rocca temendo di quegli uomini, e fu nascosamente»; «Del Muzarello niente si può intendere; là onde io per me lo tengo senza dubbio spacciato» (Bembo, 1990, pp. 114, 121).
Dopo la morte e l’edizione di alcuni testi a margine di stampe altrui (oltre a quanto ricordato cfr. Scarpa, 1985, pp. 536 s.), dopo la celebrazione del Orlando furioso sin dall’edizione 1516 (XXXVIII, 84; nell’edizione 1532: XLII, 87) e di Castiglione nel Cortegiano (II redaz., III, 85), le rime di Muzzarelli entrarono in diverse antologie poetiche verso metà secolo; la stampa autonoma delle poesie comprese nell’Amorosa opra nelle Canzoni et sestine amorose di m. Giovanni Muzzarelli nobile mantoano, Ferrara, Valente Panizza, 1562, testimonia la durata in ambito mantovano della memoria del giovane letterato scomparso anzi tempo.
Accanto alla recensio dei manoscritti di rime condotta per l’edizione 1993, accresciuta da Scarpa 1985, si possono ricordare: Vat. lat. 2836, c. 318r (versi latini per Ludovico Gonzaga); Marc. lat. XII 211 (= 4179), cc. 22r-v, e soprattutto Marc. it. IX 144 (= 6866), dove i versi di Muzzarelli sono inseriti in una importante collezione di autografi, probabilmente trascritti da persona prossima a Bembo. Edizioni moderne: Amorosa opra, a cura di E. Scarpa, Verona 1982; La fabula di Narciso, a cura di G. Hannüss Palazzini, Mantova 1983; Rime, a cura di Id., Mantova 1983; Una nuova redazione dell’ «Amorosa opra», a cura di Id., Mantova 1986; inoltre La fabula di Narciso del Mozarello da Chiazolo Mantuano, acqueforti di L. Crippa, Mantova 1972.
Fonti e Bibl.: L.G. Giraldi, De poetis nostrorum temporum, in Opera, II, Basileae 1580, p. 395; G.P. Valeriano, De litteratorum infelicitate libri duo, Amsterdam 1647, pp. 33 s.; F. Berni, Dialogo contra i poeti, in Opere, Milano 1873, p. 54; D. Bergamaschi, Storia di Gazolo e del suo marchesato, Casalmaggiore 1883, p. 147; V. Cian, Di G. M. e d’una sua operetta inedita, in Giornale storico della letteratura italiana, XXI (1893), pp. 358-384; G. Prato, Alcune rime di G. M., in Nozze Cian - Sappa Flandinet (23 ottobre 1893), Ber-gamo 1894, pp. 261-277; V. Cian, Ancora di G. M. La «Fabula di Narciso» e le «Canzoni et sestine amorose», in Giornale storico della letteratura italiana, XXXVIII (1901), pp. 78-96; D. Sandri, Il «Dialogo in lode di donna» di G. M., in Archivum Romanicum, XXI (1937), pp. 103-120; C. Dioni-sotti, Monumenti Beccadelli, in Miscellanea Pio Paschini. Studi di storia ecclesiastica, Roma 1949, pp. 251-253; Id., Gli umanisti e il volgare [1968], a cura di V. Fera, Milano 2003, pp. 97-113; G. Hannüss, Per la biografia di G. M., in Giornale storico della letteratura italiana, CXLVIII (1971), pp. 159 s.; E. Toni Ferretti, Le opere di G. M. (1490-1516). Nota critico-bibliografica, in Studi in onore di Alberto Chiari, II, Brescia 1973, pp. 1275-1287; B. Castiglione, La seconda redazione del «Cortegiano», a cura di G. Ghinassi, Firenze 1968, p. 277; B. Castiglione, Le lettere, a cura di G. La Rocca, I, Milano 1978, p. 354; G. Arbizzoni, Un nuovo manoscritto dell’«Amorosa opra» di G. M., in Rivista di letteratura italiana, III (1985), pp. 117-133; E. Scarpa, Per l’edizione di un poeta cinquecentesco: sulle «Rime» di G. M., in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce ... 1984, Roma 1985, pp. 531-560; P. Bembo, Le lettere, a cura di E. Travi, II, Bologna 1990, pp. 68 s., 112-114, 120 s.; E. Scarpa, Ultimi appunti sulle «Rime» di G. M., in Quaderni di lingue e letterature, XVIII (1993), pp. 607-628; G. Dilemmi, Da Mantova a Napoli: i «pretesti» asolani di G. M. e Agostino Landulfo, in Id., Dalle corti al Bembo, Bologna 2000, pp. 273-301; Poeti del Cinquecento, I, a cura di G. Gorni et al., Milano-Napoli 2001, pp. 433-438; F. Lucioli, Le odi di Paolo Nomentano. Un’inedita silloge poetica nella Roma di Leone X, in Roma nel Rinascimento, 2009, pp. 348, 360.