PACINI, Giovanni
PACINI, Giovanni. – Nacque a Catania l’11 febbraio 1796, come attesta l’atto di battesimo custodito nella parrocchia della Madonna dell’Aiuto (Adabbo, 1875, p. IX), da Luigi e da Isabella Paulillo.
I genitori, entrambi cantanti, non erano catanesi, ma si trovavano nell’isola in tournée; il primo fu un buffo tra i più acclamati di quegli anni. Le notizie che Pacini fornisce nella sua tarda autobiografia, Le mie memorie artistiche (Firenze 1875, facsimile a cura di L. Nicolosi - S. Pinnavaia, Lucca 1981), cominciano da Bologna, dove il padre lo inviò nel 1808 affinché potesse studiare musica con Tommaso Marchesi.
Pacini narra un aneddoto circa la sua prima composizione, un Kyrie, che avrebbe scritto nottetempo, dopo pochissime lezioni, sempre nel 1808, suscitando lo stupore del maestro. Non è dato sapere se sia lo stesso brano cui fa riferimento, tre anni più tardi, il Redattore del Reno: Parte letteraria, e di amena lezione (19 novembre 1811): «L’egregio Maestro [Marchesi] si compiacque di produrre un primo parto di un giovinetto di quattordici anni appena, che è stato compositore del Kirie sotto i suoi insegnamenti. Da questo preludio si può fondar lusinga di bei progressi, e prender motivo d’incoraggiare il giovine a proseguire nella difficil carriera musicale battuta con onore dal padre suo Sig. Luigi Pacini primo Buffo».
Dal 1809 Pacini studiò con padre Stanislao Mattei nel neonato Liceo musicale di Bologna, frequentato dal 1806 dal fanciullo Gioachino Rossini: non però da Pacini, almeno stando ai registri di classe, nei quali non compare. Si suppone che abbia fruito in privato dell’insegnamento del celebre didatta. Indi proseguì gli studi a Venezia con Bonaventura Furlanetto.
La prima sua opera teatrale fu un Don Pomponio (1813) di cui rimangono scarsi frammenti; la prima opera rappresentata fu la farsa comica Annetta e Lucindo di Francesco Marconi, a Milano, in un teatro minore (S. Radegonda), il 17 ottobre 1813. Dunque il debutto teatrale come compositore avvenne a soli 17 anni (ancor più presto di Rossini, che debuttò a 18), e a Milano, città nella quale la famiglia risiedeva e il padre cantava spesso nel teatro alla Scala: non stupisce trovare Luigi tra gli interpreti di Annetta e Lucindo.
Le prime opere di Pacini a entrare nel circuito teatrale furono Adelaide e Comingio, semiseria (libretto di Gaetano Rossi,1817), e Il barone di Dolsheim (Felice Romani, 1818): quest’ultima sancì il debutto alla Scala, e in un’opera seria; Ricordi ne pubblicò tre brani, e furono le prime musiche di Pacini edite. Il fortunatissimo debutto scaligero poté realizzarsi grazie al padre: l’impresario della Scala gli chiese di sostituire un buffo infortunato e di andare in scena entro tre giorni; Luigi accettò a patto che venisse scritturato il figlio (Le mie memorie artistiche, cit., pp. 15 s.).
Seguirono presto altri successi alla Scala, col padre Luigi sempre nei cast buffi: Il falegname di Livonia (Romani) contò, dal 12 aprile 1819, 47 recite, come Il barone di Dolsheim l’anno prima; Vallace o sia l’Eroe Scozzese (Romani, 14 febbraio 1820) 30 recite. Il contributo di Luigi all’avvio della carriera del figlio era noto nel mondo teatrale: nel settembre 1818 Giacomo Meyerbeer annotò non senza perfidia nei suoi diari (in italiano): «niente paura, suo padre l’asisterà!» (in Becker - Becker, 1960, I, p. 365).
Il 1820 si concluse col trionfo della Gioventù di Enrico V (di Filippo Tarducci; Roma, teatro Valle, 26 dicembre). Pacini sapeva farsi largo nell’alta società, qualità peraltro indispensabile per affermarsi nell’Italia della Restaurazione. Nei mesi passati a Roma per il carnevale 1821 andò a ossequiare il cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato e melomane; conobbe inoltre Paolina Bonaparte Borghese e lo scultore che l’immortalò in una celebre statua: «La principessa Paolina Borghesi ogni venerdì riceveva tutta la prima nobiltà romana, e le più grandi celebrità artistiche e letterarie, talmenteché potevasi ritenere il di lei palazzo qual novello Olimpo, ove Venere ne faceva gli onori. Fu in questa circostanza che ebbi la sorte di fare la conoscenza di molti sublimi ingegni, fra’ quali l’insigne Canova, uomo di semplicissimi costumi, e di un carattere il più dolce, il più ingenuo che immaginar si possa» (Le mie memorie artistiche, cit., p.23).
La frequentazione con Rossini, iniziata di certo prima (forse a Bologna da adolescenti), fu corroborata in questi mesi romani: Pacini aiutò Rossini, che come spesso accadeva era in irreparabile ritardo, a portare a termine Matilde di Shabran per il teatro Apollo, scrivendo tre pezzi. Fu l’inizio di un decennio fortunato. Lasciata Roma, inscenò con successo a Lucca La sacerdotessa d’Irminsul (Romani) e La gioventù di Enrico V, e Maria Luisa di Borbone lo elesse maestro onorario della Real Cappella di corte. Si stabilì a Lucca, ma già nel 1822 si trasferì a Viareggio con la famiglia d’origine.
Paolina Bonaparte fece costruire un palazzo nella stessa città; da un rapporto governativo apprendiamo che «il Maestro di musica Pacini è del seguito» (Biagi Ravenni, 2003). La liaison fu tormentata e scandalosa per tante e ovvie ragioni, per la differenza di rango e d’età, a favore di Pacini di tre lustri abbondanti. Da Paolina il musicista ricevette un medaglione e una ciocca di capelli dell’illustre fratello (riferimenti espliciti a tali doni sono in una lettera conservata a Pescia, Museo civico, Pacini, Corrispondenza, 27-35, s.d.).
Da una lettera di Paolina traspare la sindrome della donna gelosa e abbandonata, da personaggio teatrale – si noti il passaggio dal tu al voi – ond’era posseduta costei: «Io mi sento male e sono triste di pensare che Nino non mi dice mai la verità […] Addio, caro Nino, tu sei in viaggio, ti allontani da me, ma è per essere più celebre e più ammirato. Io sono contenta e sono certa che Nino comprenderà quanto io ho sofferto per lui […] Non vi abbraccio, non ve lo meritate [...] mi sento sola e triste. Addio» (ibid., 3-46, s.d.). Un accenno a tali circostanze, evidentemente tempestose, si legge anche nelle Memorie: «avevo incontrata un’alta relazione che in forza delle circostanze (onde il mio nome non ne soffrisse) dovetti troncare. Ma non vi era modo di finire tal faccenda, se non che prendendo moglie» (p. 39). La consorte fu Adelaide Castelli, scelta e sposata nel 1825 in tutta fretta – e anche stavolta non senza l’aiuto del padre. Fu il primo di tre matrimoni, dai quali Pacini ebbe nove figli; il secondo fu con Marietta Albini (omonima di una cantante), morta nel 1849; il terzo con Marianna Scoti nobildonna di Pescia, città dove si stabilì nel 1855.
Una tappa decisiva nella carriera di Pacini fu l’esordio al S. Carlo di Napoli, all’epoca il massimo teatro d’Italia. Fu acclamato con Alessandro nell’Indie (29 settembre 1824) e soprattutto con L’ultimo giorno di Pompei (dramma per musica di Andrea Leone Tottola; 19 novembre 1825: «il maggior trionfo della mia prima epoca artistica», Memorie, p. 41). Il successo fu consolidato da Amazilia (Giovanni Schmidt; 6 luglio 1825) e Niobe (Tottola; 19 novembre 1826). Il fortunato debutto – Alessandro nell’Indie ebbe 38 recite – avvenne sotto il segno del Metastasio, un drammaturgo che, per l’ideologia monarchica implicita nei suoi drammi viennesi, fu oggetto di un certo revival nelle corti della Restaurazione.
Prova del credito di Pacini al cospetto dei Borboni di Napoli fu l’espressa volontà dei sovrani di dare sue opere nelle date salienti della stagione, che coincidevano con le ricorrenze dinastiche (Maione - Seller, 2003, p. 68: il 19 novembre cadeva l’onomastico della regina Maria Isabella, il 6 luglio il suo genetliaco), opportunamente evidenziate nei libretti a stampa, tanto nei melodrammi in più atti quanto nelle più brevi cantate, che Pacini in questi anni compose in buon numero in occasione di altri importanti eventi di corte.
L’apprezzamento e le gratificazioni reali sono testimoniate, oltre che nelle Memorie (pp. 38 s.), anche da documenti d’archivio, fra i quali una lettera d’encomio del re Francesco I (21 novembre 1826; in Maione - Seller, 2003, pp. 69 s.); e pure dalla stampa cittadina, come il Piccolo Corriere delle Dame del 1° ottobre 1825: «Pacini è di ultima moda presso l’impresa dei reali teatri. Pacini al San Carlo, Pacini al Fondo e Pacini scrive per 19. Egli è un maestro di merito, e noi non vogliamo certamente scoraggiarlo» (in Pastura, 1959).
Tali successi indussero l’impresario dei teatri reali, Domenico Barbaja, a proporre a Pacini un contratto di ben nove anni, come «direttore dei suoi teatri, ai medesimi patti e condizioni che il sommo Pesarese aveva ottenuti» (lo sottolineano con orgoglio le Memorie, p. 41; il riferimento è alla carica già tenuta da Rossini tra il 1815 e il 1822). Pacini aveva l’obbligo di comporre due opere all’anno e di sedere nel consiglio d’amministrazione in assenza dell’impresario. Il contratto portò con sé scritture con la Scala e col teatro di Porta Carinzia a Vienna, giacché tra il 1823 e il 1828 Barbaja fu impresario di tutti e tre i teatri, e dunque faceva girare compositori e intere compagnie di canto fra le tre capitali. Pacini fu a Vienna nel 1827, per darvi quattro opere (tra le quali Gli Arabi nelle Gallie, appena creata alla Scala, che ebbe poi enorme diffusione); come Rossini cinque anni prima, fece la conoscenza del principe di Metternich.
Pacini dichiara nelle Memorie che, dopo il successo dell’Ultimo giorno di Pompei, «la nostra amicizia [con Barbaja] divenne santissima, e sempre conservai per lui un affetto e stima che non han parole»; in più d’un’occasione lo chiama «il mio Sultano» (p. 43). È possibile che Barbaja apprezzasse la sua velocità e facilità di scrittura. Ma forse l’intesa derivava anche da una comune spregiudicatezza. Secondo Vincenzo Bellini, negli anni del contratto napoletano Barbaja diede a Pacini il permesso di scrivere per altri teatri al prezzo di una percentuale sul guadagno (lettere a Francesco Florimo del 16 febbraio e del maggio 1828; Cambi, 1943, pp. 48-51, 96). Nelle Memorie Pacini invero dà un’immagine bonaria di sé stesso, sempre amichevole e generosa nei confronti dei colleghi. Due esempi: a proposito di Gaetano Donizetti, conosciuto a Roma nel carnevale 1822: «ci stendemmo la mano e da quell’epoca in poi da buoni colleghi ci siamo sempre l’un altro stimati ed amati» (p. 28); quanto a Bellini, Pacini dice d’averlo raccomandato a Barbaja in occasione del Pirata alla Scala nel 1827 (p. 53). Ma le lettere coeve degli interessati dicono l’esatto contrario. Secondo Donizetti, «dopo Rossini nessuno ha più disimpegnato bene gli affari» nei reali teatri di Napoli; «egli sbaragliava i nemici colle opere ed al contrario Mercadante e Pacini li accrescevano, poiché il pubblico dice che il Direttore manda a soqquadro tutte le opere d’altri per figurare egli solo» (lettera del 21 ottobre 1828; in Zavadini, 1948, p. 262). Ancor più velenosa una lettera di poco precedente: «De’ giornalisti poco mi preme, non voglio comperare la lode come Pacini che fa un’opera a S. Carlo [Margheritaregina d’Inghilterra] appena rappresentata 4 sere, ed i giornali la chiamano capo d’opera» (2 febbraio 1828; ibid., p. 257).
Che Pacini corrompesse i giornalisti per avere recensioni favorevoli lo sostiene anche Bellini: scrivendo a Florimo il 2 gennaio 1828 (Cambi, 1943, pp. 32-34) riferisce che I teatri, primo periodico milanese dedicato esclusivamente alla musica, il 21 aprile 1827 aveva aperto le pubblicazioni proprio con un ritratto di Pacini, annunciato peraltro dalla rivista come collaboratore, al pari di Pietro Lichtenthal, Giovanni Simone Mayr, Alessandro Rolla e altri. Bellini dichiarò inoltre che Pacini lo avrebbe plagiato nei Cavalieri di Valenza (Gaetano Rossi, Milano, Scala, 11 giugno 1828), attingendo a piene mani dal suo Pirata. Scrisse inoltre a Florimo: «Non dubitare che avrò ancor io il felice momento di farmi vero onore con i cantanti e la musica, senza Combattimenti, Vesuvi, Ballabili ed altri spettacoli, che l’insieme attira il gran mondo al teatro» (l’allusione è all’Ultimo giorno di Pompei: ibid., pp. 104 s., 9 giugno 1828). L’episodio più celebre circa l’inimicizia Bellini/Pacini furono i tumulti in occasione del ‘fiasco’ di Norma (26 dicembre 1831, Milano, Scala), fomentati, a detta di Bellini (lettera del 28 dicembre 1831; ibid., pp. 291 s.), dalla cabala organizzata dalla nuova amante nobildonna di Pacini, la contessa Julija Pavlovna Samojlova (nelle tante lettere a Pacini custodite nel fondo Pacini di Pescia costei si firma Giulia Samoyloff; la moglie di Pacini, Adelaide Castelli, era morta di parto nelle settimane che precedettero il debutto dei Cavalieri di Valenza). Ci sarà stato qualcosa di vero, se nell’autografo della sua Messa da Requiem del 1864, composta in occasione della traslazione del feretro di Bellini a Catania, Pacini scrisse: «Dedicato all’anima di quel Benedetto / Perché n’ottenga da Dio Il perdono de’ miei peccati / Firmato = G. Pacini» (Gallo, 2008, p. 19).
Nelle Memorie Julija Samojlova viene definita «fautrice d’ogni arte bella, generosa dama, benefattrice di mia figlia Amazilia», da lei adottata in tenera età (p. 64). La nobildonna d’origine russa era un personaggio in vista nei salotti milanesi, chiacchieratissima non solo per i tanti amanti vuoi musicisti (fra cui i tenori Giovanni David e Antonio Poggi) vuoi artisti (fra cui il pittore russo Karl Brjullov, che nel 1830 la ritrasse seminuda insieme con la piccola Amazilia al centro di un dipinto dal soggetto idealmente riconducibile a Pacini: L’ultimo giorno di Pompei, oggi al Museo statale russo di Pietroburgo), ma anche per le simpatie austriacanti (secondo alcuni era addirittura una spia), e dunque detestata nei circoli nobiliari e intellettuali avversi allo straniero: donde le contestazioni alle opere di Pacini quando costoro si coalizzavano a teatro.
L’accusa di plagio formulata da Bellini non era certo nuova per Pacini: solo che di solito gli si rinfacciava di imitare Rossini, non Bellini. Pacini stesso riconosceva il debito nei confronti dello stile rossiniano, riferendosi agli anni 1820: «Quanti in allora erano miei coetanei, tutti seguirono la stessa scuola, le stesse maniere, per conseguenza erano imitatori, al pari di me, dell’Astro maggiore. Ma, Dio buono! come si faceva se non vi era altro mezzo per sostenersi?» (Memorie, p. 54). Tale dipendenza dallo stile di Rossini fu riconosciuta dai periodici coevi, di solito con sottolineature negative. A proposito del Vallace scaligero, la Gazzetta di Bologna scrisse che la «musica [è] nuova di Paccini se nuova può dirsi una pressoché continua immitazione dello stile Rossiniano, in ciò che è meno pregevole. Fra lo strepito dei timpani e tamburri v’è stato quello pure dei battimani, ma non si è sentito fra un dolce silenzio quel bravo che a tempo e luogo parte spontaneamente dal labbro mandato dal cuore veramente soddisfatto» (24 febbraio 1820). Un commento straniero, velenoso quanto significativo: «Mercadante is not so servile an imitator of the master of Pesaro as the bareface Pacini» (The Harmonicon, V, London 1827, p. 234). Ancor più acuminati gli strali dei colleghi: nei suoi diari Meyerbeer afferma, a proposito di Adelaide e Comingio, che vi si trovano tanti motivi orecchiabili, ma aggiunge che, se si togliessero quelli che Pacini ruba o copia, rimarrebbe poco o niente di originale (Becker - Becker, 1960, I, p. 346).
Nell’estate 1830 Pacini si recò a Parigi per porre in scena L’ultimo giorno di Pompei al Théâtre Italien, ma la Rivoluzione di luglio ritardò la première, avvenuta solo a ottobre e senza l’autore, nel frattempo ripartito per Roma per onorare un altro ingaggio. Il musicista aveva cercato invano di ottenere l’appoggio di Rossini, come prova una lettera di questo, non propriamente lusinghiera nei confronti di Pacini, col quale pure rimase in amichevoli rapporti epistolari per tutta la vita. Così il 29 giugno Rossini scrive a Carlo Severini: «Pacini scrisse a me pure una lettera alla quale non risposi, poiché, come voi pure dite, riguarderei la sua venuta a Parigi come rovinosa per il Teatro e di nessuna utilità musicalmente parlando: L’Ultimo giorno di Pompei potrà (forse) con Lablache e Mad. Lalande avere qualche successo, in quanto agli Arabi ne dubito assai: siate cauti nel promettere poiché la scelta degli spartiti è molto delicata» (Cagli - Ragni, 2000, p. 681).
Nel complesso, la recezione delle opere di Pacini al di fuori dei teatri italiani non ebbe straordinaria rilevanza: fu in effetti il solo fra i maggiori operisti italiani del secolo a non creare neppure un’opera in un teatro d’Oltralpe. All’estero, come in Italia, ebbe enorme fortuna una singola aria, Il soave e bel contento, cavatina di Licida nella Niobe, il cui primo interprete fu il tenore Giovanni Battista Rubini; l’aria, trasposta, fu cantata anche da soprani e contralti fino agli anni 1840.
Franz Liszt ne fece un Divertissement sur la cavatine ‘I tuoi frequenti palpiti’ (1835-36), che è la cabaletta della cavatina, e suonò questo pezzo nel famoso duello all’ultimo tasto contro Sigismund Thalberg nel salotto della principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso il 31 marzo 1837 (Poriss, 2009). Molti anni dopo, non senza malignità, la Revue et Gazette musicale de Paris (2 dicembre 1866) poté scrivere: «Rossini avait fait Guillaume Tell, et Pacini la cavatine de Niobe» (in Gallo, 2008, p. 16).
Come molti altri compositori dell’epoca, Pacini s’infervorò per i soggetti romantici più o meno alla moda. Nacque così Il corsaro per l’Apollo di Roma nel carnevale 1832, dal poema di lord Byron. Prima della scelta definitiva, Pacini e il librettista Jacopo Ferretti presero in considerazione altri soggetti romantici, come Hernani di Victor Hugo, La promessa sposa di Lammermoor di Walter Scott e Maria Stuarda di Friedrich Schiller, tutti di lì a pochi anni illustrati in melodrammi fortunatissimi di Donizetti e Verdi (anche Bellini, qualche mese prima, aveva progettato un Ernani); l’anno prima Pacini aveva musicato Giovanna d’Arco, da Schiller. Come spesso accadeva, all’entusiasmo dei compositori per i soggetti romantici non corrispondeva quello dei librettisti; Ferretti, nella prefazione al Corsaro, dichiarò, con non celata costernazione: «Ho dovuto scrivere un Melo-Dramma Romantico. Gli avvenimenti vi s’incalzano fra loro». Pur tuttavia certe vetuste convenzioni melodrammatiche erano dure a morire: la parte dell’eroe eponimo fu affidata a un contralto en travesti. Il corsaro fu ripreso alla Scala il 10 gennaio 1832 in una versione rinnovata, a ruota della première di Norma. Ma l’assegnazione della parte di Corrado a una donna anziché al tenore cominciava a essere sentita come desueta: la circostanza forse contribuì a frenare la circolazione dell’opera paciniana. Il giovane Felix Mendelssohn vide Il corsaro a Roma, e scrisse alla famiglia che la musica di Pacini era «unter aller Kritik jämmerlich» (17 gennaio 1831, in Elvers - Loos - Seidel, 2009).
Soggetto romantico era anche Ivanhoe (da Walter Scott), andato in scena alla Fenice nel 1832. Nel 1833 Pacini lasciò ancora il segno a Napoli, tanto da accaparrarsi le ricorrenze borboniche del 12 gennaio (Gli Elvezi, melodramma di Gaetano Rossi), 30 maggio (Fernando duca di Valenza, melodramma di Paolo Pola), 30 novembre (Irene ossia L’assedio di Messina, tragedia lirica di Rossi), quest’ultima con Maria Malibran protagonista: Pacini la definì «genio unico», e la frequentò per sei mesi in casa Barbaja, dove abitavano tutti insieme (Memorie, p. 68). Nel decantare le meraviglie di Malibran, di punto in bianco Pacini afferma: «Principiai a conoscere ch’io doveva ritirarmi dalla palestra. – Bellini, il divino Bellini, e Donizetti mi avevano sorpassato» (p. 69). Guardando le cronologie teatrali, ci si può spingere ad affermare che di fatto l’avevano sorpassato anche Luigi Ricci nell’opera comica e Mercadante nell’opera seria (Conati, 2003, p. 13). La fine (momentanea) della carriera fu sancita dal tonfo di Carlo di Borgogna, alla Fenice di Venezia nel 1835 (libretto di Rossi).
Così Pacini definì lo stile della prima parte della sua carriera: «In questa mia prima epoca mi si dava il nome di Maestro delle cabalette, poiché in generale avevano qualche pregio di spontaneità, di eleganza e di forma» (Memorie, p. 70). Ma fa anche autocritica, in particolare riguardo alla strumentazione. Quanto alla critica (escludendo le lodi sperticate, sospette quanto le stroncature), questi i rilievi più frequenti, tutto sommato ancor oggi plausibili: buona padronanza del linguaggio rossiniano (a livello tanto macro quanto microformale); una vena melodica felice, capace di dare un’impronta icastica al profilo ritmico-motivico; una scrittura belcantistica di grande virtuosismo; di contro, non eccelsa capacità di caratterizzazione drammatica, collegamenti armonici talvolta pretenziosi e audaci.
La battuta d’arresto nella carriera teatrale indusse Pacini a dedicarsi all’insegnamento: aprì un Liceo musicale a Viareggio intitolato a Carlo Lodovico di Borbone, suo patrocinatore (ibid., p. 72). Nominato dallo stesso Carlo Lodovico direttore della Regia Cappella di Lucca, si dedicò indi alla musica sacra, componendo decine di messe e d’altri lavori ecclesiastici.
Il mondo teatrale comunque non si era dimenticato di Pacini. Lo testimonia Ferretti che, da critico musicale, scrisse sulle romane Notizie del giorno: «Tranne Donizetti e Mercadante, o, se pur vogliasi, Pacini, che dorme sovra i suoi allori, non vi sono compositori di musica che confortino un impresario con un nome utile sul cartello» (11 aprile 1839; in Antolini, 1999). La ripresa della carriera operistica si ebbe all’Apollo di Roma nel carnevale 1840, con Furio Camillo, libretto dello stesso Ferretti. Ma la vera svolta avvenne il 29 novembre 1840, quando al S. Carlo andò in scena Saffo, tragedia lirica di Salvatore Cammarano, in assoluto il massimo successo della carriera di Pacini, superiore anche all’Ultimo giorno di Pompei: per decenni Saffo fu rappresentata dappertutto in Italia e all’estero. Fu l’inizio della sua ‘seconda epoca’: «nell’autunno 1840 io venivo dunque battezzato dalla pubblica opinione, non più come compositore di facili cabalette, ma bensì di elaborati lavori e di meditate produzioni» (Memorie, p. 78); e aggiungeva che il genere appassionato era il suo prediletto (p. 94). Secondo una tendenza generale dei compositori coevi, lo stile vocale si volse verso il canto declamato. Tra le innumerevoli riprese di Saffo, quella del gennaio 1842 alla Scala fu recensita in termini entusiastici da Alberto Mazzucato: «Voi vedete in somma nell’autore di questa Saffo l’uomo nuovo che mira a novello scopo» (Gazzetta musicale di Milano, 16 gennaio 1842). Anche grazie a quest’opera si può affermare che Pacini occupa, accanto a Mercadante, il gradino d’onore al di sotto dei quattro grandi operisti italiani dell’Ottocento (Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi).
Il ritorno nell’agone operistico fu ancor più clamoroso dopo i trionfi di Maria regina d’Inghilterra (tragedia lirica di Leopoldo Tarantini) e di Medea (Benedetto Castiglia) a Palermo nel 1843: la prima, dalla Maria Tudor di Hugo (1833), ebbe enorme successo nonostante i seri problemi di censura (al pari di molti altri soggetti romantici di provenienza francese), a causa dei versi «Morte, strage, sterminio, sciagura, / Londra tutta oggi un rogo sarà», coro nell’atto III (Commons, 1988). Tali trionfi valsero a Pacini un monumento in marmo a Palermo, accanto a quello di Bellini. Il ritorno da protagonista negli anni 1840 fu corroborato dal successo dell’Ebrea (1844; Giacomo Sacchero), di Bondelmonte (1845; Cammarano) e di Lorenzino de’ Medici (1845), su un libretto di Francesco Maria Piave che anche Verdi avrebbe voluto mettere in musica.
Il dato che forse più colpisce il lettore delle Memorie riguarda proprio la mancata menzione di Verdi: Pacini, che pure dedica spazio a molti colleghi, lo ignora quasi del tutto, salvo qualche cenno («il celebre Verdi», p. 86); ed è superfluo sottolineare che Verdi era il dominatore assoluto delle scene operistiche all’epoca delle Memorie (1864-65). L’ostilità nei confronti di Verdi emerge in alcune lettere di Pacini all’amico Gaetano Somma, come quella del 14 marzo 1857: «Sappi dunque ch’io fui a porre in iscena a Firenze nel mese di Gennaio la mia Medea, e che questa surclassò il Giullare verdiano [allusione al Rigoletto], e così pure il Trovatore, il quale cadde come corpo morto cade. Tu vedi dunque, mio Gaetaniello, che io principio ora di bel nuovo la mia carriera! Il verde moderno non fa ombra al verde antico! Fuochi di paglia! Deliri di mente riscaldata! Verrà il tempo in cui l’oro rialzerà il valore, che gli altri metalli furono sempre inferiori» (in Coppotelli, 2003).
Del pari scarseggiano i cenni a Pacini nell’epistolario verdiano. Secondo Gino Monaldi (1929), Verdi avrebbe detto di lui: «Un fecondissimo improvvisatore. Felice negli spunti, ma a sproposito. Egli può dirsi sia stato in musica quello che in letteratura si chiama un verseggiatore, non un poeta. Fabbricava con immensa facilità i suoi motivi, poco curandosi del senso, del pensiero e della situazione drammatica che dovevano rivestire. Sotto questo aspetto egli ha molti punti di contatto col Petrella, al quale rimane però superiore per forza drammatica. Difatti il Petrella, in tutte le sue opere, non ha un pezzo da reggere il confronto col finale della Saffo» .
Un contatto diretto forse ci fu: in data 23 febbraio 1861 Pacini stilò (ma probabilmente non spedì) una lunga e retorica lettera indirizzata a Verdi, per invitare il neodeputato, oltre che il musicista, a sottoscrivere un’iniziativa in favore dei giovani compositori (Pescia, Museo civico, Pacini, Corrispondenza, 22-36). La proposta puntava a una legge che costringesse teatri e impresari a rappresentare una percentuale di lavori di compositori esordienti. Più di due anni dopo (dicembre 1863), avendo Pacini reso pubblico il proprio utopistico progetto su un periodico, Verdi incaricò la moglie, Giuseppina Strepponi, di scrivere a Pacini che si riservava d’appoggiare solo chi ritenesse degno di merito (Luzio, 1935).
La richiesta di Pacini poteva apparire paradossale oltre che velleitaria, visto che a formularla era un compositore che, ormai da anni avviato al tramonto, non si decideva a lasciare le scene e di fatto faceva concorrenza ai giovani compositori. Un esempio, sintomatico anche della (scarsa) considerazione di Pacini negli ultimi anni della sua vita: Angelo Mariani, direttore del teatro Carlo Felice di Genova, scrisse il 15 novembre 1864 a Mazzucato: «Debbo avvertirti che il Pacini chiese, fino dall’anno scorso, di dare al Carlo Felice, nella primavera ventura, una sua opera nuova. [...] A dirti il vero (e te lo dico in tutta confidenza) mi fido poco dei lavori di quel venerando vegliardo, molto più poi dopo che sentii quella famosa Cantata di miseranda memoria che egli compose per le feste Rossiniane di Pesaro [22 agosto 1864]; perciò io vorrei che un giovane di tante belle speranze qual è il Faccio avesse la preferenza» (in Abbiati, 1959). La dura verità l’aveva scritta già qualche anno prima Giacomo Sacchero allo stesso compositore (5 aprile 1855): «I tempi sono difficili molto; ed il vento tira contrario a tutto ciò che non appartiene a Verdi» (in Mascari, 2003).
Il vecchio Pacini si cimentò anche in un genere estraneo alla tradizione italiana: nel 1864 compose una Sinfonia Dante, che inviò a Franz Liszt, autore nel 1857 di una Dante-Symphonie (il compositore rispose gentilmente l’11 maggio 1865; Roma, Biblioteca nazionale, V.E. 822/262). Se Liszt si era fermato alle soglie del Paradiso (la Dante-Symphonie, su consiglio di Wagner, fu articolata in due tempi, Inferno e Purgatorio), Pacini varcò la soglia, mise in musica pure il Paradiso, e addirittura raddoppiò, aggiungendo un quarto tempo, Il trionfo di Dante. La sinfonia fu eseguita il 15 maggio 1865 a Firenze per il sesto centenario dantesco. Pacini, che nel 1863 aveva aderito alla Società del Quartetto di Firenze, compose inoltre 6 quartetti, richiestigli da Abramo Basevi, che peraltro l’incoraggiò a redigere un’autobiografia artistica. Compose anche un ottetto per archi e fiati, fu dunque partecipe del rinnovato interesse per la musica strumentale nell’Italia di metà secolo e oltre.
L’ultima opera fu Berta di Varnol (libretto di Piave), rappresentata il 6 aprile 1867 al S. Carlo, pochi mesi prima della morte, avvenuta a Pescia il 6 dicembre dello stesso anno.
Le mie memorie artistiche uscirono alla spicciolata a partire dal 1864 sul periodico fiorentino Boccherini, poi raccolte in volume nel 1865 dall’editore Guidi e ristampate dopo la morte di Pacini nel 1875 da Le Monnier, per volere della vedova Scoti, che autorizzò Ferdinando Magnani a completare la biografia degli ultimi tre anni di vita e ad aggiungere documenti inediti tratti dall’archivio privato del defunto. Un altro dato emerge dall’autobiografia, oltre a quelli di cui s’è parlato: Pacini era uomo profondamente legato alle istituzioni e alle strutture sociali dell’Italia preunitaria. Si spiega così, nelle Memorie, la palpabile nostalgia di un passato irrimediabilmente perduto, dal canto dei castrati alla munificenza dei mecenati. Le querimonie del vecchio Pacini non sono così diverse da quelle del vecchio Rossini, e non a caso è Pacini il destinatario della famosa lettera in cui Rossini impreca contro la modernità rappresentata dal vapore, dalla rapina e dalla barricate (27 gennaio 1866, in appendice alle Memorie, p. 259). Pacini deplora inoltre lo stato dei teatri italiani, dove si rappresentano sempre più opere straniere a scapito delle italiane; segue immancabile, secondo un topos diffuso, l’elogio della melodia come vera essenza di italianità in musica. Indicativa un’esortazione ai giovani compositori: «Lasciate i Wagner ed i loro seguaci fra le tenebre di quel bello ch’essi decantano, ma che non sanno trovare né definire. Percorrete le classiche opere di tutte le scuole [...] ma poi siate sempre Italiani. La melodia [...] è la regina, la vera fonte del bello» (ibid., p. 184).
L’archivio privato di Pacini, donato dagli eredi al Comune di Pescia (oggi è nel Museo civico), attende d’essere studiato a fondo: oltre a lettere, documenti personali, contabilità ecc., comprende molti manoscritti musicali autografi. Un catalogo esauriente dell’intera produzione (circa 80 opere, circa 15 cantate, musiche sacre a decine) dev’essere ancora compilato. Un secondo fondo Pacini, 3900 manoscritti tra lettere e documenti di varia natura, anch’esso studiato solo in minima parte, si trova nella Biblioteca nazionale di Roma (cfr. Coppetelli, 2003). Nell’epoca delle tante renaissances operistiche, poche opere di Pacini sono tornate in scena o sono state incise in disco, nessuna è rientrata stabilmente in repertorio.
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