Giovanni Paolo I
Albino Luciani nacque il 17 ottobre 1912 a Forno di Canale (oggi Canale d'Agordo), in provincia di Belluno, da Giovanni Battista e da Bortola Tancon. Trascorse i primi anni, in condizioni di povertà, sotto la cura della madre, perché il padre, muratore di orientamento politico socialista, a lungo operò all'estero come emigrante stagionale.
Sulla prima formazione religiosa e culturale di Luciani incise profondamente il parroco di Forno di Canale don Filippo Carli, che nell'estate 1923 lo aiutò a conseguire privatamente (aveva appena finito la quarta elementare) la preparazione necessaria per entrare nel Seminario Minore di Feltre. In seguito da Carli il chierico Luciani acquisì l'abitudine di interrogare i ragazzi sulla catechesi durante la messa, un metodo che mantenne nel corso di tutto il suo ministero, da ultimo durante le udienze generali dei mercoledì 6 e 27 settembre 1978. Ai suggerimenti di Carli rimonta anche la prima adozione da parte di Luciani di uno stile discorsivo e scritturale piano, articolato su un periodare breve, intriso di immagini e aneddoti, nelle occasioni in cui si rivolgeva alla popolazione.
Nell'ottobre 1928 Luciani passò nel Seminario Maggiore "Gregoriano" di Belluno. Durante questi anni cominciò a manifestare una particolare predilezione per la letteratura italiana e straniera, di cui si trova eco frequente nei testi dei suoi interventi. Il 7 luglio 1935, con dispensa dall'età canonica, ricevette l'ordinazione presbiterale. Due giorni dopo fu nominato cappellano a Forno di Canale, e il 18 dicembre 1935 cappellano della più popolosa parrocchia di Agordo. Furono questi i soli incarichi di "cura d'anime" che Luciani ebbe prima dell'episcopato. Ad Agordo insegnò anche religione nell'Istituto minerario e nell'annessa scuola professionale.
Il 6 gennaio 1936 aderì all'Unione apostolica. Avrebbe voluto entrare nella Compagnia di Gesù, ma vi rinunciò per l'opposizione del vescovo di Belluno Cattarossi che non intendeva privarsi del giovane prete. Dal luglio 1937 al 1947 fu vicerettore del Seminario Maggiore. Docente dall'autunno 1937, secondo una prassi diffusa nei seminari delle diocesi più piccole, si vide attribuire nell'arco di ventidue anni un ampio ventaglio di insegnamenti che impartì in modo prevalentemente manualistico e tra i quali spiccavano quello di dogmatica (per diciassette anni), di diritto canonico (per dodici) e di arte sacra (per dieci). Nel 1941, ottenuta dalla Santa Sede la dispensa dalla frequenza, si iscrisse alla Pontificia Università Gregoriana. Nel 1942 vi conseguì la licenza in teologia "magna cum laude"; e il 27 febbraio 1947 la laurea con una tesi su L'origine dell'anima umana secondo Antonio Rosmini, pubblicata nel 1950 (riveduta e ampliata nel 1958), nella quale confutava le tesi del filosofo roveretano sulla base dei principi della scolastica.
Dopo l'8 settembre 1943 Luciani dal Seminario di Belluno fornì informazioni alla brigata cattolica del fratello Edoardo e svolse opera di pacificazione tra le diverse forze impegnate nel conflitto bellico. Nell'immediato secondo dopoguerra partecipò al dibattito politico attraverso la pubblicazione di alcuni articoli sul settimanale diocesano "L'Amico del Popolo". Soprattutto in prossimità delle elezioni politiche dell'aprile 1948 collaborò alla campagna di propaganda contro il fronte socialcomunista, sottolineando l'impossibilità di aderirvi per i cattolici. Nel 1947 G.B. Bortignon, nuovo vescovo di Belluno e Feltre, nominò Luciani segretario del sinodo diocesano, che fu celebrato dal 28 al 30 ottobre 1947. Un mese dopo lo promosse procancelliere e nel febbraio 1948 provicario generale. Lo stesso anno Luciani fu nominato direttore dell'Ufficio catechistico e assistente diocesano della Gioventù Femminile di Azione Cattolica. L'8 febbraio 1954 G. Muccin, successore di Bortignon, nominò Luciani vicario generale e nel 1956 canonico della cattedrale.
In diocesi Luciani contribuì alla preparazione di un congresso catechistico (1949), dei festeggiamenti mariani del 1950 e del congresso per l'anno eucaristico (1956). Nel 1951 su incarico di Bortignon, ormai vescovo di Padova, collaborò all'organizzazione del terzo concilio provinciale veneto. Nel 1949 Luciani aveva pubblicato Catechetica in briciole (edito a Belluno dalla Tipografia vescovile e nello stesso anno anche dalle Edizioni Paoline, che ne avrebbe curato le edizioni successive), un breve manuale di catechesi caratterizzato dalla semplicità espositiva e dall'introduzione di alcune novità stilistiche nella presentazione dei contenuti tradizionali della dottrina cattolica. Il testo, che ebbe sei edizioni tra il 1949 e il 1965 più alcune ristampe postume (G.P. però, interpellato nei giorni del pontificato, giudicò non ne fosse opportuna la ristampa fino a quando non ne avesse potuto rielaborare la struttura), esprimeva la cura particolare di Luciani per la catechesi, che rivestì sempre un posto centrale nella sua azione di governo a Vittorio Veneto, a Venezia e nel breve periodo romano, e a cui dedicò un ampio intervento in vista del sinodo del 1977. Infatti una volta promosso all'episcopato Luciani avrebbe ritenuto necessaria un'istruzione catechetica capillare, senza limiti nel tempo, estesa agli adulti, ispirata agli elementi essenziali della dottrina cattolica postridentina ma anche alla presentazione della Bibbia (su cui il concilio Vaticano II aveva richiamato l'attenzione della Chiesa); caratterizzata dallo stile piano e da adattamenti mirati ai diversi destinatari.
Nel 1956 Muccin propose il nome di Luciani per la promozione all'episcopato, senza successo: la Concistoriale ne lamentò il precario stato di salute e la voce fievole. Ma il 15 dicembre 1958 Giovanni XXIII, su suggerimento diretto del vescovo di Padova Bortignon, nominò Luciani vescovo di Vittorio Veneto. Secondo una prassi tradizionale di derivazione postridentina, a Vittorio Veneto (come poi anche a Venezia) Luciani indisse quasi subito la visita pastorale, il 17 giugno 1959. Nella primavera del 1962 esplose il caso "Antoniutti", una vicenda di fallimentari speculazioni finanziarie che si concluse con il suicidio del protagonista principale. Vi risultarono coinvolti anche un parroco e il vicedirettore e tesoriere dell'ufficio amministrativo della diocesi vittoriese. Quando venne a conoscenza dello svolgimento dei fatti Luciani sollevò dall'incarico i due preti, invitando però la popolazione a non infierire nei confronti dei due e a non ingigantire l'eco dello scandalo; e decise che la diocesi si facesse carico della restituzione degli ammanchi ai creditori (pur senza che vi fosse tenuta a termini di legge) per allontanare l'ombra del sospetto dalla Chiesa vittoriese. Tra il 1962 e il 1965 partecipò al concilio ecumenico Vaticano II, senza prendere mai la parola durante i lavori in aula. Invece depositò un intervento scritto a favore della collegialità episcopale e presentò ai vescovi italiani, fuori dell'aula conciliare, il capitolo VIII della Lumen Gentium (sulla figura di Maria nella Chiesa), esprimendo un parere positivo.
L'esperienza conciliare portò Luciani a compiere un prolungato lavoro di revisione della propria formazione teologica di stampo tradizionale, che lo indusse a valorizzare la Bibbia nella teologia per rendere "possibile il prevalere di una teologia induttiva sulla teologia troppo deduttiva fin qui prevalsa" ("Bollettino Ecclesiastico della Diocesi di Vittorio Veneto", 55, 1967, p. 596). Tuttavia rimase convinto che il rinnovamento teologico promosso dal concilio fosse più una questione di metodo che di contenuti. Negli anni seguenti si adoperò per un'applicazione del concilio senza fughe in avanti né chiusure nel passato, sottolineando che esso avrebbe dovuto favorire un cambiamento delle strutture nella Chiesa, ma soprattutto una riforma nell'atteggiamento interiore dei cattolici. Il pensiero espresso da Luciani, soprattutto negli scritti rivolti ai suoi diocesani, su alcuni dei temi principali trattati dal concilio ne rivela la posizione intermedia tra le opposte interpretazioni progressista e conservatrice. Aderì con convinzione ai diversi aspetti della riforma liturgica stabilita dalla costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. Contro le posizioni integriste sostenne il diritto alla libertà di professione religiosa per tutti in campo sociale e civile, prestò attenzione all'ecumenismo, ma ribadì che solo il cattolicesimo costituiva la vera religione. Si mostrò pienamente convinto delle disposizioni conciliari sulla vocazione alla santità dei laici cattolici nell'ambito temporale e sull'azione di apostolato nella società che veniva loro affidata come missione peculiare. Per quanto riguarda l'ecclesiologia sottolineò l'importanza del Collegio episcopale, auspicando l'elezione di un consiglio di vescovi rappresentativi delle diverse Chiese del pianeta che avrebbe dovuto collaborare con il papa, vescovo di Roma, per la soluzione dei problemi di carattere straordinario (un progetto che G.P. intendeva realizzare nel corso del suo pontificato, secondo la testimonianza del teologo veneziano Pattaro riportata da Bassotto [pp. 121-47], allo stato attuale non verificabile criticamente, ma su questo punto verosimile); e una conseguente riforma della Curia romana, che sarebbe stata ridotta a organismo esecutivo, non più in grado di prevaricare sui vescovi. Luciani chiarì che l'infallibilità del papa, capo e componente del Collegio episcopale, non andava esercitata separatamente dalla Chiesa o allo scopo di conseguire l'uniformità al suo interno, ma piuttosto a tutela dell'unità dottrinale ed ecclesiale. Lo stesso magistero ordinario dei vescovi uniti col papa, secondo la tradizione della Chiesa, doveva essere considerato infallibile. Ma riaffermò anche che questa prospettiva di rapporti tra papa e Collegio apparteneva alla dimensione gerarchica della Chiesa determinata da Cristo, respingendo ogni tentativo di lettura storica dell'evoluzione delle istituzioni ecclesiastiche che inclinasse a una loro democratizzazione.
L'incontro al concilio con vescovi dei diversi Paesi convinse Luciani ad avviare un'intensa campagna di sostegno finanziario e umano (attraverso l'invio di preti diocesani) delle Chiese che operavano nel Terzo Mondo. Con un breve intervento al sinodo dei vescovi del 1971 suggerì che si formasse nei cattolici "una mentalità e un'ascesi solidaristica imbevuta dello spirito della 'Populorum progressio'" e che le diocesi più agiate procedessero a un'autotassazione "non come elemosina, ma come un qualcosa che è dovuto […] per compensare le ingiustizie che il nostro mondo consumistico sta commettendo verso il mondo in via di sviluppo e per riparare in qualche modo il peccato sociale, di cui dobbiamo prender coscienza" (cfr. Opera omnia, V, p. 281). Nel 1967 fu incaricato dal patriarca di Venezia cardinal Urbani di preparare, a nome dell'episcopato veneto e lombardo, una relazione destinata a Paolo VI sul problema della regolazione delle nascite. Luciani in materia era favorevole a un impiego dei contraccettivi, a determinate condizioni, e a un continuo aggiornamento dell'insegnamento morale cattolico alla luce dei progressi delle varie scienze. Ma dopo la pubblicazione dell'Humanae vitae, pur ammettendo la sua diversità di pensiero e auspicando che l'enciclica non rappresentasse un pronunciamento definitivo, si mostrò pienamente obbediente alle direttive papali, richiamando con fermezza clero e laici al loro rispetto. Il 15 dicembre 1969 Paolo VI lo promosse patriarca di Venezia. Il 14 gennaio 1970 Luciani fu eletto presidente della Conferenza Episcopale Triveneta. Dal giugno 1972 al giugno 1975 fu vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
In quegli anni si moltiplicarono le manifestazioni di stima di Paolo VI nei suoi confronti: nel 1971 papa Montini lo nominò direttamente membro del sinodo; il 16 settembre 1972, in visita a Venezia, gli pose sulle spalle la propria stola, quasi a precorrere l'elevazione al cardinalato, che avvenne il 5 marzo 1973. Nel 1974 e nel 1977 Luciani partecipò al sinodo come rappresentante dei vescovi italiani.
A Venezia raccolse la successione di Urbani in anni di crescenti tensioni sociali ed ecclesiali. Di fronte alla grave crisi di rapporti tra imprenditori e sindacati verificatasi nell'area di Porto Marghera Luciani cercò più volte di mediare personalmente tra le controparti, per scongiurare o almeno procrastinare il ricorso ai licenziamenti; incontrò gli operai nelle fabbriche per svolgere la propria azione pastorale e per conoscerne più approfonditamente le problematiche; compì alcuni gesti di solidarietà personali e, secondo una prospettiva che non superava i limiti della posizione paternalistica della Chiesa preconciliare, esortò le parrocchie veneziane alla carità nei confronti dei lavoratori messi in mobilità. Familiarmente coinvolto nel problema dell'emigrazione, compì un viaggio in Svizzera tra il 12 e il 14 giugno 1971 per incontrare gli emigrati a Mariastein e partecipò alla "Giornata del lavoratore italiano all'estero" celebrata a Magonza nel maggio 1975.
Volle che fosse data priorità alla pastorale del lavoro per sottolineare l'importanza che la civiltà industriale aveva assunto nella società, per sostenere come Chiesa l'autonoma ricerca dei lavoratori di soluzioni ai vari problemi, e "perché i lavoratori soffrono, quando dei cattolici fratelli si rifiutano di riconoscere che il capitalismo ha gravi colpe e con molta leggerezza chiamano 'comunista' ogni lavoratore, che si batte con energia per il riconoscimento dei propri diritti" (ibid., V, p. 481). Fu favorevole alla presenza del clero in mezzo agli operai, ma secondo una modalità tradizionale di formazione e assistenza religiosa e morale (già nel 1967 aveva avanzato una proposta simile alla Conferenza Episcopale Italiana). Invece rifiutò l'approccio che caratterizzava l'esperienza dei preti operai, che in diocesi contavano un nucleo tra i più attivi d'Italia. Respinse con fermezza l'adozione da parte dei cattolici delle metodologie di critica economica e politica propugnate dai movimenti di ispirazione marxista, e si oppose pubblicamente a ogni ipotesi di "apertura a sinistra" o di rottura dello schieramento cattolico a favore dei partiti socialista o comunista in occasione delle scadenze elettorali. Polemizzò con i tentativi di apertura ai cattolici intrapresi dal Partito Comunista Italiano (PCI) nel corso degli anni Settanta e ribadì più volte l'inconciliabilità tra cattolicesimo e marxismo, in cui, pur riconoscendo qualche merito, scorgeva un programma di radicale scristianizzazione: "Il marxismo conculca la libertà personale e spazza via tutti i valori religiosi; non gli si può tuttavia negare il merito di aver fatto aprire gli occhi a molti sulle sofferenze dei lavoratori e sul dovere della solidarietà. […] Esso sta oggi cercando di penetrare nelle file dei cattolici attraverso una sottile distinzione. 'Altro - si dice - è l'analisi che Marx ha fatto della società, altro è l'ideologia che ha guidato Marx. L'analisi è cosa rigorosamente scientifica, illuminante, utile per risolvere i problemi e noi l'accettiamo; l'ideologia materialista la respingiamo'. […] Paolo VI aveva ammonito nell'Octogesima Adveniens, n. 34: 'Sarebbe illusorio e pericoloso […] accettare gli elementi dell'analisi marxista senza riconoscere i loro rapporti con l'ideologia'" (ibid., I, pp. 395-96).
Tuttavia Luciani distinse la posizione dei vertici del PCI (nei cui confronti riteneva continuasse a operare la scomunica sancita dal Sant'Uffizio nel 1949) da quella di gran parte dei suoi aderenti che a suo avviso condividevano il programma sociale del partito, ma non facevano professione di ateismo. Perciò puntò a una diffusione dei dati essenziali del cristianesimo tra le masse operaie, nella speranza che in questo modo esse si distaccassero dall'ideologia marxista senza perdere la tensione alla trasformazione della società che le permeava. Inoltre Luciani esortò al superamento dei gravi difetti presenti nel sistema capitalistico: "Il capitalismo, secondo l'insegnamento della chiesa, per essere a posto, dovrebbe essere profondamente modificato. È buona la ricchezza prodotta, a patto che non vi si attacchi troppo il cuore, che ad essa partecipi quanta più gente è possibile, che non dia più origine ai gravi squilibri di oggi. Il guadagno è buono solo se raggiunto con mezzi giusti, cioè senza sacrificare la dignità di alcuna persona umana. Anche la concorrenza può essere buona, a patto che non degeneri in lotta feroce, senza risparmio di colpi. La chiesa, ad esempio di Cristo, deve amare tutti, circondando però del suo amore preferenziale i poveri e i più sfortunati" (Illustrissimi. Lettere del Patriarca, Padova 1976, p. 283). Ricordò altresì l'obbligo morale degli imprenditori di migliorare le condizioni di lavoro e la retribuzione dei loro dipendenti e invitò questi ultimi a non eccedere nelle rivendicazioni e a svolgere con maggiore dedizione le proprie mansioni.
Nell'aprile 1974 indusse alle dimissioni, senza poi sostituirlo, l'assistente diocesano della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI) e sciolse la "Comunità studentesca di San Trovaso", il centro universitario del patriarcato. Tutte e due queste realtà erano caratterizzate da una vivace iniziativa culturale tesa al confronto critico con le istanze della società laica. In particolare la FUCI aveva preso posizione contro la cancellazione della legge sul divorzio, con la motivazione che occorreva rispettare la laicità del Paese, manifestando un aperto dissenso verso la linea assunta dalla CEI, favorevole al referendum abrogazionista del 12 maggio 1974. Nelle settimane precedenti non pochi preti della diocesi si erano schierati contro l'abolizione del divorzio, suscitando la reazione di Luciani, che peraltro, pur contrario al divorzio, riservatamente giudicava fallimentare per la Chiesa l'iniziativa referendaria. In un clima di montante tensione ben presto si venne consolidando una significativa frattura tra il patriarca e quella parte del clero e del laicato cattolico veneziani che erano più inclini a sperimentare nuovi criteri di azione nella pastorale e nella liturgia. Sul versante ecclesiale, preoccupato di favorire un rinnovamento della teologia in linea con il concilio, polemizzò con le posizioni progressiste che a suo avviso ne travisavano il dettato e denunciò il "complesso antiromano" di non pochi teologi che minacciava l'unità della Chiesa e la fede della popolazione. Dal punto di vista pastorale anche a Venezia, come già aveva fatto a Vittorio Veneto, Luciani sottolineò la centralità della parrocchia e sollecitò l'impegno sociale dei cattolici, seguendo la tradizione del cattolicesimo veneto rivisitato alla luce del concilio Vaticano II. Impresse alla visita pastorale compiuta nel patriarcato un andamento al di fuori del comune, "di nuovo stile, come lui amava definirla, informale, atipica, senza lo schema usuale, o quello nuovo, che alcuni pastoralisti locali stavano elaborando con grande impegno; una Visita patriarcale, nel senso etimologico della parola, vale a dire di un padre" (A. Niero, A Venezia, p. 23). Mostrò una particolare cura nei confronti dei meno abbienti, dei sofferenti, dei malati e dei carcerati, che visitò con frequenza. Nel 1976 autorizzò i parroci e i rettori di santuari ubicati nella diocesi veneziana "ad alienare - a meno che non si tratti di oggetti d'arte - ori, collane, anelli offerti dai devoti a Dio o alla Madonna e ai santi come atto di omaggio od 'ex voto'" a vantaggio di un centro per disabili (cfr. R. Kummer, p. 447).
Già da giovane prete si era mostrato incline al giornalismo come mezzo per l'attuazione di una catechesi allargata a un pubblico più vasto di quello che poteva raggiungere direttamente. A Venezia iniziò a scrivere sul quotidiano locale "Il Gazzettino", e poi sul mensile "Messaggero di Sant'Antonio", alcuni articoli a personaggi della storia o della letteratura, che vennero successivamente raccolti sotto il titolo di Illustrissimi. Lettere del Patriarca: questi interventi offrirono a Luciani l'occasione per trattare alcuni dei principali temi ecclesiali e sociali del momento con uno stile rapido e vivace destinato ad attirare l'attenzione di un pubblico popolare. Inoltre promosse la creazione di un nuovo settimanale diocesano, "Gente Veneta", che nei limiti consentiti dalle disponibilità finanziarie del patriarcato volle ispirato a moderni criteri di realizzazione. Analogo interessamento mostrò nei confronti del cinema e dei progetti di creazione di un'emittente televisiva privata di ispirazione cattolica, che riteneva dovesse essere condotta con piena responsabilità gestionale dai laici. Il 27 luglio 1978 Luciani, che in precedenza aveva governato in modo accentrato le diocesi a lui affidate, nominò tre vicari episcopali (per la Caritas; per il coordinamento pastorale, i mezzi di comunicazione sociale e i giovani; per il clero) che avrebbero dovuto iniziare il loro mandato l'8 settembre successivo. Il 6 agosto 1978 morì Paolo VI. Il conclave che avrebbe dovuto eleggere il suo successore iniziò diciannove giorni più tardi, alla presenza di centoundici cardinali, in gran parte (novantanove) nominati da Montini e perciò alla loro prima esperienza come elettori papali, con alle spalle limitate occasioni di contatto diretto tra loro e in cifre non trascurabili provenienti anche da Paesi dell'America Latina, dell'Africa, dell'Asia.
Tutto ciò faceva propendere gli osservatori per uno svolgimento del conclave almeno inizialmente incerto ed esposto all'influenza dei cardinali più esperti per anzianità di nomina o per l'appartenenza ai dicasteri della Curia romana. Eguale incertezza accompagnava le ipotesi sull'origine geografica del futuro papa. Altri più indiscutibili elementi di incertezza erano dovuti alla mancanza di precedenti sulla funzionalità delle nuove regole per il conclave introdotte da Paolo VI, tra cui l'esclusione dal voto (ma non dalle Congregazioni generali) dei cardinali ottuagenari e la necessità di una maggioranza superiore ai due terzi dei suffragi per l'elezione (in questo caso essa ammontava a settantacinque voti). La discussione sulle caratteristiche e sui compiti del nuovo papa fu avviata nel corso delle quattordici Congregazioni generali preparatorie al conclave (7-24 agosto), nonché durante incontri informali tra i cardinali. I sostenitori di un'interpretazione "progressista" del concilio Vaticano II si orientarono alla ricerca di un candidato che avesse a cuore i temi della giustizia e dei diritti umani e lo sviluppo della collegialità episcopale e del sinodo dei vescovi, del quale si auspicava fossero allargate le competenze per trasformarlo in organismo deliberativo. Invece l'ala più "conservatrice" del Collegio cardinalizio puntò decisamente verso un candidato in grado di garantire una restaurazione dell'ortodossia sul piano dottrinale che ponesse freno al processo di rinnovamento della teologia sviluppatosi nel postconcilio, capace di assicurare il ristabilimento dell'ordine disciplinare nella Chiesa, che si giudicava fosse stato gravemente compromesso nel corso degli ultimi anni di Paolo VI soprattutto a causa della contestazione delle forme gerarchiche da parte di numerosi preti.
La maggioranza degli elettori desiderava un papa caratterizzato dall'esperienza pastorale, in grado di continuare l'applicazione del concilio Vaticano II, però secondo una linea di moderazione che avrebbe dovuto mettere in risalto l'unità visibile della Chiesa cattolica, favorire il superamento delle divisioni interne, richiamare all'osservanza della disciplina ecclesiastica e dell'obbedienza da parte del clero. Quasi tutti i cardinali latinoamericani, in qualche modo coordinati da Lorscheider (presidente della Conferenza dell'episcopato latinoamericano), aggiungevano la preferenza per un italiano, non coinvolto negli affari della Curia e di età non troppo giovane: un profilo che avrebbe trovato piena corrispondenza nella figura di Luciani.
Con il passare dei giorni, nel corso delle discussioni precedenti il conclave due candidature assunsero maggiore credibilità rispetto ad altre, pur senza precludere un esito diverso: quella dell'arcivescovo di Genova cardinale Giuseppe Siri, avanzata dal gruppo più conservatore; e quella del patriarca di Venezia Luciani, una candidatura meno prevedibile e relativa a una persona non particolarmente nota tra i cardinali al momento della morte di Paolo VI. A tale proposito diverse testimonianze di cardinali convergono nel dichiarare che questa candidatura non fu preparata prima del conclave. Durante le Congregazioni generali preparatorie se ne fece sostenitore il cardinale Benelli, arcivescovo di Firenze e già sostituto della Segreteria di Stato fino al 1977, che abilmente individuò in Luciani una figura in grado di contrastare l'elezione di un esponente del gruppo conservatore, perché personalmente sensibile al tema della collegialità episcopale e al contempo capace di assicurare il ristabilimento dell'ordine dottrinale e disciplinare nella Chiesa cattolica auspicato dalla maggioranza moderata. Inoltre Luciani godeva delle simpatie di alcuni cardinali extraeuropei, come l'arcivescovo di Dakar Thiandoum, che lo avevano conosciuto in precedenza ricavandone un'impressione favorevole.
Le prime due votazioni furono svolte la mattina di sabato 26, la terza e la quarta (quella decisiva) nel pomeriggio. Secondo le indicazioni riferite dal cardinale M. Casariego, peraltro non vagliabili criticamente, al primo scrutinio G. Siri ebbe venticinque voti, Luciani ventitré, S. Pignedoli diciotto, S. Baggio nove, F. König otto, P. Bertoli cinque, E. Pironio quattro, A. Felici due, A. Lorscheider (per il quale tempo addietro Luciani aveva espresso il proprio favore) due. Sostenuto dai cardinali africani e da alcuni tra quelli brasiliani, il nome di Luciani raccolse nuovi consensi al secondo scrutinio, giungendo a cinquantatré voti. Siri scese a quota ventiquattro e Pignedoli a quindici. Il sostegno di Benelli al patriarca di Venezia fece sorgere la preoccupazione in alcuni elettori che l'arcivescovo di Firenze mirasse all'ufficio di segretario di Stato, dal quale si temeva avrebbe potuto imporsi al nuovo papa; ma Luciani, interpellato in merito, assicurò che, pur non essendosi ancora posto il problema, Benelli non rientrava tra i nomi che avrebbe preso in considerazione per il delicato incarico. Intanto alcuni dei più significativi esponenti dell'ala "progressista", che fino a quel momento non avevano sostenuto Luciani, si riunirono decidendo di spostare i loro voti a suo favore, cosicché nel terzo scrutinio egli sfiorò il quorum raggiungendo settanta suffragi, seguito a distanza da Siri (dodici) e da Pignedoli (una decina). Nell'ultima votazione della giornata anche gran parte dei rimanenti elettori si allineò alla maggioranza, cosicché Luciani venne eletto papa, con una cifra imprecisata di voti ma oscillante, stando alle diverse testimonianze, tra gli ottantanove e i centouno. Dopo Sarto e Roncalli fu il terzo patriarca di Venezia eletto papa nel Novecento.
G.P. chiese ai cardinali di ritardare la conclusione del conclave fino alla mattina di domenica 27 agosto, per avere modo di rivolgere loro un discorso programmatico, e nel frattempo fece entrare nella clausura anche i cardinali ottuagenari che non avevano potuto prendere parte all'elezione.
Il suo brevissimo pontificato si svolse all'insegna di alcune novità, relative soprattutto alle forme della gestione dell'ufficio papale, e di una ipotetica continuità con il proprio predecessore nella realizzazione del concilio Vaticano II. Primo tra i papi nella storia della Chiesa, Luciani decise di assumere un doppio nome per esprimere la volontà di coniugare l'eredità di Giovanni XXIII con quella di Paolo VI. In realtà il richiamo a Roncalli aveva una dimensione prevalentemente affettiva, invece G.P. fece di Montini il proprio punto di riferimento, accingendosi a continuarne il programma, pur con alcuni significativi aggiustamenti.
Da subito G.P. decise di liberare l'ufficio papale da quei segni esteriori che appartenevano all'esaltazione della sovranità temporale e del potere sulla Chiesa e sugli Stati: abolì l'incoronazione, rinunciò alla tiara e al trono e preferì inaugurare il pontificato con una messa. Altrettanto immediato fu l'abbandono del plurale maiestatico in quasi tutti i suoi discorsi. In questa prospettiva si inseriva anche l'iniziale rinuncia alla sedia gestatoria, poi riadottata per consentire una migliore visuale al pubblico. A questo processo di riconduzione dell'ufficio papale a una dimensione di carattere prevalentemente pastorale G.P. affiancò le ripetute sottolineature del legame che intercorreva tra il papa, vescovo di Roma, e gli altri vescovi, che egli sollecitò in modo non formale alla collaborazione nel governo della Chiesa: si tratta di interventi che preludevano alla sua intenzione di rinforzare l'esercizio della collegialità episcopale.
Inoltre G.P. diede un'impronta meno ascetica e sacrale al papato rispetto a quella che era stata trasmessa da Paolo VI grazie a una facile comunicativa che si fondava soprattutto sull'eloquio semplice e arricchito di episodi e immagini, sui modi dimessi e sul franco riconoscimento dei limiti umani che segnavano anche la sua persona: uno stile che creò qualche sconcerto all'interno della Curia romana. Nel suo discorso "urbi et orbi" del 27 agosto 1978 G.P. tracciò le linee portanti di quello che sarebbe stato il suo governo - collocato in un quadro in cui si alternavano luci (l'inizio del pontificato, Cristo unica luce) e ombre (attribuite alla situazione politica internazionale e alle tensioni interne alla società civile) -, volto a una ripresa della linea tracciata da Paolo VI, sulla quale egli inseriva delle accentuazioni frutto in parte della propria sensibilità pastorale, in parte della volontà di rispondere alle urgenze ecclesiali e sociali di quegli anni. Vi si ritrovavano i tratti principali di quell'interpretazione "moderata" del concilio Vaticano II che ne aveva caratterizzato l'episcopato vittoriese e veneziano.
Ribadì l'"insostituibilità della Chiesa Cattolica, la cui immensa forza spirituale è garanzia di pace e di ordine, e come tale è presenza nel mondo, come tale è riconosciuta nel mondo". Ne indicò la missione peculiare nell'evangelizzazione, ricordando che essa era chiamata a dare un "'supplemento d'anima' […] che solo può assicurare la salvezza" al mondo moderno, tentato "di sostituirsi a Dio con l'autonoma decisione che prescinde dalle leggi morali". Come precisò successivamente a proposito dei rapporti della Chiesa con gli Stati e la società civile, G.P. riconosceva le limitate possibilità d'intervento della Santa Sede sul piano internazionale per facilitare, se richiesta, la soluzione dei grandi problemi dell'umanità (disarmo, pace, sviluppo, giustizia); ma, evidenziando la peculiare natura pastorale dell'azione della Chiesa, riprendeva il concetto elaborato da Paolo VI di una Chiesa maestra in umanità, che aveva per missione la formazione delle coscienze dei cristiani e l'educazione di tutti gli uomini di buona volontà e dell'opinione pubblica "al rispetto di quei principi fondamentali che garantiscono una vera civiltà e una reale fraternità fra i popoli". Perciò anche con G.P. proseguiva il tentativo da parte della Chiesa di assumere la guida morale dell'umanità e di mantenere un ruolo centrale nell'enucleazione dei principi etici a cui si sarebbero dovuti ispirare la costruzione della convivenza civile e i rapporti internazionali tra gli Stati. Inoltre G.P. invitò i cattolici alla testimonianza di fede senza compromessi e al rafforzamento dell'unità della Chiesa. Per il superamento delle tensioni interne propose di recuperare la grande disciplina della Chiesa e annunciò la revisione del Codice di diritto canonico sia per la Chiesa latina che per le Chiese orientali.
Del programma di Paolo VI dichiarò di volere proseguire la realizzazione del concilio Vaticano II, secondo una linea di equilibrio, "vegliando a che una spinta, generosa forse ma improvvida, non ne travisi i contenuti e i significati, e altrettanto che forze frenanti e timide non ne rallentino il magnifico impulso di rinnovamento e di vita"; "continuare lo sforzo ecumenico […] senza cedimenti dottrinali, ma anche senza esitazioni"; sostenere con pazienza e fermezza il dialogo "da uomini a uomini" con coloro che non condividono la fede cristiana; favorire le iniziative di pace. Il vescovo Luciani aveva guardato ad alcuni modelli propri della tradizione cattolica tridentina, come Carlo Borromeo (di cui assunse il motto episcopale, "Humilitas") e Francesco di Sales. Accanto a quei modelli, in G.P. era presente un'altra figura meno scontata, quella di Gregorio Magno. Sulla sua opera egli stesso richiamò più volte l'attenzione allo scopo di indicare uno dei temi su cui intendeva centrare il suo governo: la disciplina ecclesiastica. L'allora monsignor A. Silvestrini ha notato: in G.P. si trova "il riferimento ampio, costante e quasi naturale a un papa come Gregorio Magno. A questa luce fontale occorre cogliere il senso […] della 'grande disciplina' della Chiesa che forma uno dei punti dell'intesa del nuovo pontificato: la vera disciplina è quella che risale alle fonti della fede. Luciani appare intriso di Sacra Scrittura (l'aveva insegnata) e cita correntemente la Regula pastoralis di San Gregorio benché sia un testo poco comune" (G. Zizola, p. 285 n. 20). Occorre considerare che in G.P. vigeva uno stretto legame tra umiltà, vissuta come fiducioso abbandono a Dio, e obbedienza, intesa come superamento delle convinzioni e della volontà personali e sottomissione piena ai superiori gerarchici in quanto rappresentanti di Dio all'interno della Chiesa (un concetto di obbedienza che per Luciani rimaneva strettamente circoscritto all'ambito religioso e non doveva essere messo in opera con la stessa estensione totalizzante in campo civile). A tali criteri cercò di conformarsi fin dagli anni del seminario ed essi ripropose al clero affidato al suo governo a Vittorio Veneto e a Venezia. Su questa linea si sarebbe mosso verosimilmente nell'applicazione dei richiami alla disciplina che ebbe modo di formulare durante il suo breve pontificato. Tra gli atti di governo compiuti da G.P. la decisione di confermare nella carica di segretario di Stato il cardinale Villot, che aveva già ricoperto l'incarico sotto il suo predecessore, fu un'altra significativa espressione della volontà di G.P. di continuare, negli aspetti principali, il programma di Paolo VI. Il 30 agosto confermò che la presidenza della III Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano sarebbe stata demandata ai cardinali Baggio e Lorscheider e a monsignor Ahumada, contrariamente a ciò che fece poi Giovanni Paolo II, recatosi personalmente a Puebla per conseguire un maggiore controllo dei lavori. Nelle udienze generali del mercoledì diede inizio ad un breve ciclo catechetico, commentando l'umiltà e le virtù teologali. Il 5 settembre 1978 Nikodim, metropolita ortodosso di Leningrado, morì improvvisamente durante l'udienza privata con G.P., che era rimasto positivamente impressionato dallo slancio ecumenico del suo interlocutore.
Il 10 settembre una affermazione di G.P. sulla maternità di Dio ("È papà; più ancora è madre") suscitò una certa eco nella stampa, che si interrogò sulla "novità" della definizione trascurandone il fondamento veterotestamentario. Lo stesso giorno G.P., che da poco aveva espresso riservatamente l'intenzione di recarsi in Libano per contribuire al ristabilimento della pace, plaudì alle trattative in corso a Camp David, evocando "candidamente l'ispirazione monoteistica dei tre protagonisti" Carter, Sadat e Begin (cfr. P. Rossano, I papi, la Chiesa e il mondo delle religioni, in Chiesa e papato nel mondo contemporaneo, a cura di G. Alberigo-A. Riccardi, Roma-Bari 1990, pp. 528-29).
Con lettera agli episcopati argentino e cileno pubblicata il 20 settembre ne incoraggiò gli sforzi tesi a evitare un conflitto tra i due Paesi per la questione del canale di Beagle. G.P. morì nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1978, quasi certamente per una patologia dell'apparato cardiocircolatorio, in circostanze che non sono state ancora chiarite completamente.
fonti e bibliografia
La documentazione inerente a Luciani, quasi tutta fuori consultazione, è conservata principalmente negli archivi delle diocesi di Belluno e Feltre e di Vittorio Veneto, del patriarcato di Venezia, e nell'A.S.V. Fonti edite: "Bollettino Ecclesiastico Interdiocesano di Belluno e Feltre", dal nr. 14 del 1935 al nr. 49 del 1959; "Bollettino Ecclesiastico della Diocesi di Vittorio Veneto", dal nr. 46 del 1958 al nr. 58 del 1970; "Rivista Diocesana del Patriarcato di Venezia", dal nr. 54 del 1969 al nr. 63 del 1978; "Acta Apostolicae Sedis", 70, 1978, pp. 677-775, 797-903; A. Luciani Giovanni Paolo I, Opera omnia, a cura del Centro di spiritualità e di cultura Papa Luciani, I-IX, Padova 1988-89.
Biografie:
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L. D'Orazi, Impegno all'umiltà: la vita di papa Luciani, presentazione di M. Ducoli, Roma 1987.
R. Kummer, Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I. Una vita per la Chiesa, Padova 1988.
C. Bassotto, "Il mio cuore è ancora a Venezia". Albino Luciani, Venezia 1990².
A. Acerbi, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, XXV, 1, Cinisello Balsamo 1994, pp. 101-17.
A. Tornielli-A. Zangrando, Papa Luciani. Il parroco del mondo, Udine 1998.
Sull'episcopato a Venezia:
A. Niero, A Venezia. Gli anni del Patriarcato, in Papa Luciani 1912-1978. Itinerario di una vita, "Gente Veneta", nr. unico, 1979, pp. 12-26.
Id., Il postconcilio nel patriarcato di Venezia (1965-1978), "Rivista del Clero Italiano", 71, 1990, nr. 1, pp. 18-36.
Sul conclave:
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G. Zizola, Il conclave. Storia e segreti. L'elezione papale da San Pietro a Giovanni Paolo II, Roma 1993, pp. 266-96.
P.E. Arns, Un'intuizione confermata, "30 Giorni nella Chiesa e nel Mondo", 16, 1998, nrr. 7-8, p. 32 (intervista raccolta da S. Falasca).
A. Lorscheider, Un'umanità non di facciata, ibid., pp. 24-8 (intervista raccolta da S. Falasca).
H. Thiandoum, Tre papi e un orientamento fondamentale comune, ibid., pp. 30-3.
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