Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini
A quale titolo si possano comprendere tra i filosofi del Novecento personalità intellettuali versatili ed elusive come Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini è questione aperta da quando Eugenio Garin incluse nelle Cronache di filosofia italiana figure «di scrittori considerati comunemente al margine della filosofia in senso tecnico» (Garin 1966, p. XI). La stessa polemica fra Benedetto Croce e Giovanni Gentile si rivela oggi nella sua natura di opposizione fra due modi di intendere e comunicare la filosofia, tra un pensiero narrativo e una techne teorica, e quindi tra due linguaggi assai differenti. Entro i termini di tale polarizzazione Prezzolini e Papini occupano uno spazio peculiare, individuato da Croce quando definiva Prezzolini «un artista della filosofia», espressione di rilevante significato che può considerarsi valida per entrambi i dioscuri fiorentini.
Giovanni Papini nasce a Firenze il 9 gennaio 1881, primo di quattro figli, in Borgo degli Albizi, dove il padre Luigi, artigiano del legno, ha una piccola bottega. Il padre aveva combattuto con Giuseppe Garibaldi nella battaglia del Volturno e sull’Aspromonte; repubblicano, carducciano e massone, Luigi Papini possiede un gruzzolo di libri che Giovanni legge prestissimo: tra gli altri, l’inno A Satana di Giosue Carducci, naturalmente, e le satire di Giuseppe Giusti, e poi Voltaire, Vittorio Alfieri, il volgarizzamento delle Vite parallele di Plutarco e quello dell’erasmiano Elogio della follia. La madre, Erminia Cardini, secondo una non infrequente modalità ottocentesca, rappresenterà, all’interno della famiglia, un cattolicesimo ‘femminile’ di tipo stoico-patetico, opposto al ribellismo e ateismo ‘maschile’, e farà battezzare di nascosto i figli. Si tratta di una duplicità costitutiva, fra trasgressione e conversione, che organizza a monte la psicologia dell’intellettuale Papini, il quale, non a caso, ripeterà quel modello quando nel 1907, al culmine della stagione leonardiana, sposerà con matrimonio religioso Giacinta Giovagnoli, una giovane di Bulciano, paesino minuscolo della val Tiberina, in seguito sua piccola patria e dimora esistenziale.
Papini frequenta, dopo un biennio di scuola tecnica, la scuola normale di via Sangallo dalla quale uscirà nel 1899 con il diploma di maestro. A questa formazione molto circoscritta tenterà di ovviare con una passione enciclopedica da autodidatta, di lettore onnivoro e disordinato. Una data importante è segnata dall’incontro, nel 1898, con un altro geniale autodidatta quale Giuseppe Prezzolini, che gli sarà accanto nella fondazione e direzione nel 1903 a Firenze del «Leonardo», la prima rivista di filosofia militante e di divulgazione filosofica italiana, e poi della «Voce», periodico rilevantissimo, nella sua breve e tormentata vicenda (1908-1914), della storia della cultura italiana del Novecento.
Fino alla Prima guerra mondiale e in particolare fino al 1918, anno della conversione di Papini a un cattolicesimo oltranzista e predicatorio, l’itinerario biografico dei due amici si presenta organicamente intrecciato. Sul «Leonardo» Papini, con lo pseudonimo di Gianfalco, si afferma come il portavoce del pragmatismo di William James, in una particolare versione ‘magica’ e con connotazioni ‘mefistofeliche’ (G. Papini, L’altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica, 1911). Del 1906 sono i racconti metafisici e fantastici della raccolta Il tragico quotidiano mentre al 1907 risale Il pilota cieco, dove si registra il dato innovativo del Papini scrittore, vale a dire la tematizzazione lirico-narrativa della filosofia.
Nel 1906 il Crepuscolo dei filosofi raccoglie gli scritti del «Leonardo» dove Papini aveva condotto la sua battaglia filosofica più efficace, quella contro il positivismo e contro i «professori» italiani del positivismo, da Pasquale Villari a Roberto Ardigò; seguono nel 1913 il romanzo Un uomo finito; dello stesso anno sono i volumi 24 cervelli e Sul pragmatismo. Del 1913 è la fondazione, insieme con Ardengo Soffici, della rivista d’avanguardia «Lacerba» e la partecipazione all’esperienza futurista. Gli articoli pubblicati su «Lacerba» saranno poi raccolti nel 1919 dallo scrittore nel volume L’esperienza futurista (1913-1914), vero precipitato finale di quella ‘liquidazione della filosofia’ da sostituire con l’azione, o il mito dell’azione. Nel 1915 viene riformato per la forte miopia e non partecipa, a differenza degli amici Prezzolini e Renato Serra, alla Prima guerra mondiale.
Del 1918 è il volume Giorni di festa, uno dei capolavori del Papini scrittore, con una particolare prosa lirico-narrativa, da collegare agli apologhi di Gog (1931) e anticipazione delle Schegge (scritti brevi) dell’ultima stagione. Dopo la conversione al cattolicesimo, ci sono la Storia di Cristo del 1921, che con le sue numerose traduzioni determinerà la fama mondiale dello scrittore; l’Antologia della poesia religiosa italiana, del 1923, lavoro complementare all’antologia Poeti d’oggi del 1920, realizzata con Pietro Pancrazi e da collegare a quella delle Prose di cattolici italiani d’ogni secolo del 1941. Nel 1929 ci sarà la partecipazione alla rivista cattolica integralista «Frontespizio», che rappresenta il primo tentativo di aggregazione di intellettuali e artisti cattolici militanti. E il fascismo lo porta a essere nel 1937 Accademico d’Italia, e nel 1938 Presidente del Centro Nazionale di Studi sul Rinascimento (che nel 1942 acquisirà la denominazione di Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento). Del 1939 è il libro Italia mia, un esempio imbarazzante di apologia del regime.
La guerra lo vede appartato, prima a Bulciano poi nel convento di La Verna, dove si fa terziario francescano. Nel periodo dopo il 1946 lavora al volume Il giudizio universale, che uscirà postumo nel 1957; sempre più malato agli occhi, detta pagine assai belle di Schegge per il «Corriere della Sera». Sono di questi anni libri di intonazione dimessa come il sorprendente Passato remoto, 1885-1914 del 1948 («Questo libro non è e non vuol essere un’autobiografia»). Muore l’8 luglio 1956. Escono nel 1966, nella collana I classici contemporanei italiani di Mondadori, i due tomi degli Scritti postumi (10° vol. di Tutte le opere di Giovanni Papini), che raccolgono il Giudizio universale e Pagine di diario e di appunti.
Mentre la vita di Papini può essere ricondotta a una personale mitografia, regional-popolare, paesana alla maniera di Ardengo Soffici e in anticipo sul «selvaggio» di Colle val d’Elsa, Mino Maccari, la biografia di Prezzolini configura un itinerario nomade, fra Italia, Francia, Stati Uniti e infine Svizzera.
Giuseppe Prezzolini nasce a Perugia, da famiglia senese, il 27 gennaio 1882. Il padre, Luigi, compagno di scuola di Giosue Carducci, amico di Edmondo De Amicis, è prefetto del Regno d’Italia: la famiglia deve seguirlo nei suoi continui spostamenti. A tre anni perde la madre Elena Pianigiani e rimane con il padre e il fratello maggiore Torello (nato nel 1873), in un pellegrinaggio che lo rende presto inquieto e sradicato. In una lettera al ministro Ferdinando Martini, Carducci chiede nel 1892 che il prefetto Prezzolini possa essere trasferito da Macerata in altra sede meno disagevole perché «ha un piccolo figliuolo molto malato di nervi, per la cui esistenza egli trema».
Nel 1899 il giovane abbandona il liceo senza terminarlo e dall’anno seguente, perso anche il padre, prende a trascorrere lunghi periodi in Francia, dove ha modo di conoscere Georges Sorel ed Henri Bergson. Con l’amico Papini («la sua università», scriverà in una «succinta autobiografia scherzosa» del 1957), fonda il «Leonardo», firmando i propri articoli con lo pseudonimo Giuliano il Sofista. Tra il 1903 e il 1905 collabora anche al settimanale nazionalista di Enrico Corradini «Il Regno». Risale a questo torno d’anni la conoscenza, decisiva, con Benedetto Croce. Nel 1905 sposa Dolores Faconti, dalla quale ha due figli: Alessandro (1911) e Giuliano (1915). Nel 1908 fonda, sempre con Papini, la rivista «La Voce», che ha anche una casa editrice (la Libreria della Voce); la dirigerà, con interruzioni, sino al 1914. Lasciatane la direzione, si stabilisce nel dicembre 1914 a Roma, come corrispondente de «Il Popolo d’Italia», da poco fondato da Benito Mussolini.
Rientrato a Firenze nel maggio 1915, vi dirige «La Voce. Edizione politica»; alla fine di luglio si arruola come volontario. Prima istruttore delle reclute a Pisa, Novara e Vercelli, poi chiamato a Roma all’Ufficio storiografico della mobilitazione, chiede dopo Caporetto di essere mandato al fronte, e combatte con gli Arditi sul Monte Grappa e sul Piave, acquisendo il grado di capitano del Regio esercito. L’esperienza di combattente sarà rievocata nei memoriali Dopo Caporetto (1919) e Vittorio Veneto (1920). Dopo la guerra Prezzolini si stabilisce a Roma, riprendendo nel 1919 l’attività editoriale con la Società anonima editrice «La Voce», alla quale affianca l’Istituto bibliografico italiano.
Chiamato nel 1923 per la prima volta dalla Columbia University di New York per un corso estivo, si trasferisce nel 1925 a Parigi, come rappresentante dell’Italia presso l’Istituto internazionale della cooperazione intellettuale, nomina non avallata dal governo fascista; diviene responsabile delle sezioni letteraria e d’informazione dell’Istituto.
Dal 1929 si stabilisce a New York, dove dirige la Casa italiana della Columbia University (carica mantenuta sino al 1940, anno in cui diviene cittadino statunitense), ricoprendovi anche un incarico annuale come professore; dal medesimo ateneo sarà nominato professore emerito nel 1948. Frequenti i viaggi in Francia, nel sanatorio di Cambo-les-Bains, dove il primogenito Alessandro, accompagnato dalla madre, è in cura per una forma insidiosa di tubercolosi, e dove muore nel 1934. È un dolore che contribuisce a separare definitivamente la famiglia. Prezzolini rimarrà a vivere da solo nella «soffitta newyorkese». In questi anni operosi lavora, tra l’altro, alla compilazione del Repertorio bibliografico della storia e della critica della letteratura italiana dal 1902 al 1942 (4 voll., 1937-1948). Agli scritti americani (tra i quali Come gli americani scoprirono l’Italia (1750-1850), 1933, e l’autobiografico L’italiano inutile, 1954), Prezzolini affianca la collaborazione a giornali e periodici italiani (è dal 1945 corrispondente de «Il Tempo» per gli Stati Uniti; e va segnalata la collaborazione assidua, dal 1950, al «Borghese» di Leo Longanesi). Tornato in Italia nel 1955, per una serie di conferenze e per vagliare la possibilità di pubblicare o ristampare i propri libri, vi rientra all’inizio degli anni Sessanta, stabilendosi a Vietri sul Mare con la seconda moglie, Gioconda («Jakie») Savini, a lungo segretaria della Casa italiana, sposata dopo la morte di Dolores (1962). Nel 1968, infine, a conclusione di una vita nomade, si trasferisce nella Svizzera italiana, a Lugano. Nel 1981 muore Jakie; l’anno seguente, il 14 luglio, Prezzolini muore, lasciando l’imponente archivio, anche epistolare, alla Biblioteca cantonale di Lugano.
L’itinerario intellettuale di Prezzolini attraversa tutto il Novecento e si presenta, nelle sue scansioni decisive, come un modello di nomadismo ideologico, prima ancora che geografico, nel senso di un sempre rivendicato «dilettantismo» e di una conseguente mobilità di posizioni, tra spregiudicatezza e radicalismo, organica ai nuovi processi, inaugurati nel primo Novecento, della produzione e del consumo delle idee. Nell’Ideario, istruttivo dizionario dei lemmi prezzoliniani preparato per le edizioni del «Borghese» nel 1967, non a caso nell’indice suppletivo, alla voce Cultura, si leggerà: «vedi Avventura» (Ideario, 1967, p. 239). Da questo punto di vista il fondatore del «Leonardo» e della «Voce» rappresenta l’esemplare originario del «tecnico dell’organizzazione culturale», interprete di un pensiero funzionalmente rivoluzionario, tale da apparire ‘sempre-nuovo’, non tanto determinato nei contenuti quanto agile e leggero, comunicabile con efficacia immediata. Straordinario freelance della cultura italiana, egli anticipa modalità di lavoro intellettuale «all’americana», per es. nella capacità di valutare e mettere a frutto la cultura stessa come spettacolo agonistico e per l’attenzione a temi tipici di società avanzate, come la réclame e la persuasione delle masse. La svolta, in questo percorso pionieristico, è indicata dallo stesso Prezzolini, nel momento in cui, negli anni Venti, inizia a farsi storico della sua prima stagione, da lui presto individuata come instauratrice delle linee portanti della cultura italiana del Novecento. C’è il passaggio dall’Italia agli Stati Uniti; ma preliminare e determinante risulta la soglia testuale, rivelata sia da una nuova e diversa disposizione biografica, già nel libro Amici del 1923, sia, soprattutto, dalla seconda redazione, nello stesso anno, del libro del 1906 La coltura italiana, scritto con Papini. Qui, alla battaglia militante frontale, per una nuova cultura nazionale, della prima edizione, si sostituisce, come ha osservato Marino Biondi, la distanza, «un’altra identità», quella di un «ascoltatore d’occasione, nei panni di un osservatore straniero, un persiano del nord, passabilmente anarchico» (Biondi 2005, p. 45). Prezzolini, d’ora in poi, sarà l’Apota, colui che non la beve, come scrive a Piero Gobetti nel settembre 1922.
Questo taglio netto con il passato più vitale, del quale diventa il cronachista e l’usufruttuario, grazie alla pubblicazione di antologie, memorie e carteggi, rende poco agevole al critico la considerazione della reale presenza nel primo Novecento del Prezzolini ideologo e filosofo, impegnato con serietà nel rinnovamento della cultura italiana. Bisognerà ricordare che un vecchio maestro dell’hegelismo, Donato Jaja, aveva potuto scambiare il «Leonardo» con «La critica». In particolare, in una lettera di Jaja al giovane Gentile dell’aprile 1903, il professore mostrava di aver individuato in «Gianfalco» e in «Giuliano il Sofista», cioè nell’uccello rapace e nell’Apostata, due eteronimi del suo allievo prediletto (Carteggio Gentile-Jaia, in Opere di Giovanni Gentile, a cura di M. Sandirocco, 1969, p. 256). L’errore di Jaia testimonia la vicinanza d’intenti e persino di in flessioni, nel 1903, fra due organi culturali che si sarebbero poi sempre più differenziati nel tempo. «La critica», cioè la rivista di Croce in veste di finanziatore, direttore e redattore, e il «Leonardo», il vivace organo del pragmatismo italiano, e subito dopo la stessa «Voce», la rivi sta di Prezzolini appoggiata alla struttura finanziaria della società per azioni e all’esperimento cooperativistico della Libreria della Voce, rispondono, sia pure in maniera differente, a una esigenza comune: quella di produrre idee-forza capaci di determinare la realtà.
«Pensiero in azione», «filosofia in azione» e «agire sul pubblico»: queste saranno, per Croce come per Prezzolini, le parole d’ordine di una battaglia decisiva per la formazione del modello culturale primonovecentesco, connesso all’affermarsi di un tipo sociologico, l’intellettuale, destinato a scompaginare l’ottocentesca sociologia delle classi attraverso strategie e canali comunicativi nuovi. Sono gli anni fervidi della «Voce», della battaglia duplice contro i «professori» e contro i «giornalisti», gli anni dei numeri unici dedicati di volta in volta alla questione sessuale, alla questione meridionale, allo stato della filosofia italiana, alla riforma della scuola. Prezzolini vi scrive capitoli di storia del giornalismo contemporaneo, sia nell’ambito culturale, sia come analisi dei maggiori quotidiani del tempo (Il giornalismo e la nostra cultura, «La Voce», 1909, 7, 11). Sullo sfondo, c’è l’urgenza della questione politica, intesa e proposta come «problema di coltura (tecnico) e come problema morale» (B. Croce, G. Prezzolini, Carteggio 1904-1945, a cura di E. Giammattei, 2° vol., 1990, lettera del 18 ottobre 1911, p. 340). Questa ‘nuova’ cultura, insieme regionale e nazionale, vernacolare e cosmopolita, verrà diffusa dai numerosi circoli di cultura e dalle biblioteche nate su iniziativa della «Voce»; e risulterà davvero innovatore l’esperimento della Libreria della Voce, luogo di produzione e di vendita di una cultura omogenea nonché luogo di incontro fra gli scrittori della «Voce» e il pubblico. Per le medesime ragioni la piccola «Biblioteca del Leonardo» si era configurata come la prima realizzazione di un’autonoma imprenditoria editoriale (Luti 1983; L. Brogioni, La Rivista che volle farsi editore. L’editoria de «La Voce», in «La Voce» 1908-2008, 2010, pp. 295-316).
Nel configurare un ritratto del Prezzolini da giovane e al fine di misurare la quotazione residua del suo limitato ma effettivo contributo alla filosofia italiana di primo Novecento, risulta centrale, com’è noto, l’incontro e il rapporto intenso con Croce. Prezzolini è l’unico dei fiorentini a intrattenere con il filosofo una corrispondenza cospicua e, fino alla Prima guerra mondiale, costante. Intorno a questa relazione privilegiata si dipana una rete di incontri che apporteranno suggestioni e sollecitazioni altrettanto rilevanti. Da questo punto di vista, il contingentismo rappresenta l’atteggiamento antropologico costitutivo di un grande nomade della cultura, un «ebreo errante» (Luti, in Giuseppe Prezzolini. Gli anni americani, 1929-1962, 1994, p. 64), pieno di curiosità e di ironia, come nella brillante recensione sulla «Critica», nel novembre 1903, del libro di Jules-Henri Poincaré La science et l’hypothèse (1902). Qui il giovane direttore del «Leonardo» offriva una serie di riflessioni sulle convenzioni linguistiche elaborate dalla scienza sotto forma di «leggi» che risultano di straordinaria attualità, come ha mostrato il rinnovato interesse, da Thomas Kuhn ad Hans Blumenberg, per il rapporto fra consensus e ipotesi scientifica.
Che cosa sono dunque gli assiomi? Che origine hanno? Sono pure e semplici convenzioni dello spirito - Tale è la risposta del Poincaré, che in termini matematici, dà una soluzione elegante, la quale anche toglie di mezzo ogni questione sulla verità delle geometrie non-euclidee, perché altrettanto vale quella di chiedere se mai il metro sia più vero delle vecchie misure. La geometria euclidea è soltanto, come il metro, la misura più adatta al nostro mondo; le altre non sono né più, né meno vere, ma soltanto disadatte […]. Se fin qui Poincaré si mostra un puro contingentista, nel passare dallo studio delle scienze matematiche alle fisiche si mostra assai più moderato, ed accetta e cerca di mostrare che le leggi abbiano una parte innegabile di obiettività, rivelandoci non le cose, ma i rapporti immutabili fra quelle («La critica», 1903, 6, p. 476).
E sul «Leonardo» del novembre 1903, nell’articolo La filosofia della contingenza, scriveva che le leggi scientifiche forniscono la conoscenza «dei rapporti fra le cose; non delle cose, però che di queste nessuna conoscenza è possibile». L’anno seguente Croce, che aveva già recensito la prima annata del «Leonardo», avrebbe scritto intorno al saggio prezzoliniano Il linguaggio come causa d’errore. Henri Bergson una recensione densa di critiche ma anche di consonanze. La riflessione sul linguaggio, sul rapporto problematico tra le parole e le cose, e sulla necessità di una ridefinizione della lingua filosofico-scientifica, era per entrambi tanto determinante che Croce concludeva: «Innanzi al positivismo, al neocriticismo e a somiglianti manifestazioni di impotenza e di senilità mentale, si può gridare, e gridiamo anche noi: − Viva la Contingenza!». Prezzolini, da parte sua, adotterà la variante feconda dell’idealismo militante, sintagma che si presenta del resto in forma di ossimoro, figura davvero significativa della contraddittoria vitalità di quell’inizio di secolo.
Per intendere il posto che il Prezzolini giovanissimo intellettuale occupa nei primi anni del Novecento nella battaglia decisiva (anche nell’ambito della riflessione sul linguaggio) dei «dilettanti» contro «i professionisti», si deve partire dal ruolo che egli, attraverso la maschera di Giuliano il Sofista, si va attagliando in pubblico sul «Leonardo». «Sofista − si legge, per es., nella sua suggestiva Lettera ad uno scettico − è colui che di un filo sa fare una rete», è colui che ritiene di poter possedere tutte le filosofie, dal momento che tutto è vero, se la verità, grazie alla sofistica, può essere continuamente inventata («Leonardo», 1903, dicembre, pp. 9-15). La completa e, per certi aspetti, provocatoria fiducia nella retorica come «pensiero in azione», arte di persuadere (sarà questo uno dei suoi titoli più originali) si converte poi in un’elegante mordacità verso i rappresentanti della cultura positivistica, in una prosa che mette al servizio della divulgazione filosofica incisività polemica e piacevolezza del te sto, come testimonia l’arguzia degli epiteti adoperati nel «Leo nardo»: «Augusto Comte, questo Napoleone della filosofia»; oppure «L’Assoluto, questo deus ex machina di tutte le commedie filosofiche». Questa posizione, certo efficace nella battaglia che i giovani autodidatti del «Leonardo» conducevano contro il formulismo dei «professori di filosofia», si apriva però, in prospettiva, alla negazione globale della filosofia. Nonostante ciò Croce, a differenza di Gentile, decise di dialogare con questo ‘dilettante’ così sensibile al problema del rinnovamento della prosa concettuale e all’esigenza, che condivideva appieno, di una «oggettivazione linguistica» dei concetti filosofici perennemente adeguata alla storicità dei problemi e al «tono nazionale del discorso» (B. Croce, Libri italiani di filosofia, «La critica», 1905, 6, p. 510). È certo, in ogni modo, che si deve ai leonardiani se la filosofia uscì dai circoli ristretti dei ‘competenti’ per diventare argomento più largamente accostabile. Si pensi al volume di Prezzolini su Bergson, ancora di recente ritenuto dagli studiosi del filosofo francese pionieristico e, di fatto, per l’attenzione al problema del linguaggio, isolato nella cultura italiana.
La costante attenzione alle parole, alle cattive metafore dei positivisti, e soprattutto alla mutevolezza delle convenzioni linguistiche che sottendono e nello stesso tempo producono ogni modello conoscitivo, rappresenta il momento precursore di filosofie sofisticate, da una parte del pensiero analitico, da Bertrand Russel a Paul K. Feyerabend, dall’altra della ‘retorica-della-scienza’ (Chaïm Perelman, Blumenberg, Kuhn), vale a dire di indirizzi che segneranno la ricerca teorica del secondo e ultimo Novecento. In quella davvero decisiva battaglia di idee, Prezzolini non è un semplice ripetitore ma una figura intellettuale nuova, lo scrittore di filosofia, un «artista della filosofia», come Croce appunto lo individua in una lettera a Papini del 13 agosto 1904. E allora il contingentismo di Boutroux, l’idea di linguaggio di Bergson, il rapporto fra conoscenza ed errore di Ernst Mach, il pragmatismo di James, diventano il materiale da cui nascono sia articoli che assumono spesso la forma della lettera aperta, di volta in volta versus Mario Calderoni, Croce, Ferdinand Schiller, sia di suggestive variazioni in prosa. Accanto all’Arte di persuadere, c’è innanzi tutto Il sarto spirituale, risultato estremo della stagione del «Leonardo» e apertura al cli ma della «Voce» attraverso il capitolo intitolato appunto La Voce che trova posto in quel volumetto, poi caro al gobettiano Edoardo Persico, pro motore dell’edizione torinese del 1927. Se ne cita l’incipit, per mostrare che nei primi anni del Novecento le identità stilistico-tematiche di Prezzolini e di Papini sono inizialmente indistinguibili e si manifestano con sorprendente immedesimazione di pronuncia metaforica:
Io sono la Voce. Tutte le volte che il bisogno di fiorire sulla terra mi rimpicciolisce nella matrice di un ingegno umano, non posso manifestarmi che col tormento di quelli in cui abito. Angustie, tumulti, follie, visioni agitano i poeti, i filosofi e i maghi nei quali mi sforzo di ingrandirmi, di allargarmi, di rendermi più profonda e di manifestarmi più ricca. L’unica volta che sia stata abbastanza bene fu nel corpo di uno che mi ignorava e allora potei riccamente cantare; era un grosso omaccione di Stratford, un commediante nel cui cuore feci germogliare ogni più leggiadro e profondo pensiero, ogni ritmo virgineo ed eroico (Il sarto spirituale, 1907, p. 74).
Nella prospettiva di questa peculiare letteratura della filosofia, il discorso che Prezzolini conduce verte dunque intorno a due questioni: il linguaggio e la temporalità. In particolare, il rapporto tra retorica e struttura temporale dell’azione costituisce il centro nevralgico dell’Arte di persuadere: se è vero che «l’animo è già nell’azione quando sta inventando i motivi dell’azione»; se «mentre l’animo discute, la decisione è già presa» e dunque «agire agisce sul credere» (L’arte di persuadere, 1991, p. 67), risulta allora evidente l’omogeneità profonda tra bugia e previsione, da cui discende il carattere di convenzione di ogni «norma scientifica», che diventa vera in virtù del consenso. Questo percorso parrebbe portare al postulato di rinunzia ai fondamenti; ma Croce, che in quegli anni si confronta, anche attraverso l’elaborazione «artistica» del Prezzolini, con le ragioni del contingentismo, segnalerà l’affinità tra queste critiche e quel le che Hegel muoveva all’intelletto astratto. Si sa d’altronde che il termine pseudoconcetto si trova per la prima volta in una lettera a Giovanni Vailati (G. Vailati, Epistolario, a cura di G. Lanaro, 1971, p. 627); e pseudoproblema è termine di James ricorrente nelle pagine del «Leonardo», anche nella variante polemica di pseudo-idea, per es. nel saggio prezzoliniano su Giuseppe Sergi («Leonardo», 1904, marzo, p. 17).
Nel 1907 Croce illustrava sia i possibili stili della filosofia − dal dialogo al pamphlet, dalla forma «narrativa dell’autobiografia» a quella «immaginosa del romanzo» − sia gli opposti modelli letterari della scrittura filosofica: l’uno espressione della «solenne calma di chi annuncia, quasi sacerdotalmente, la verità», l’altro fondato invece sulla polemica, anzi sulla «satira», di chi ha sempre la visione degli avversari e degli ostacoli empirici che si op pongono al dispiegarsi dell’attività filosofica (G. Bovio e la poesia della filosofia, «La critica», 1907, 5, p. 338). Questa definizione multipla, opposta alla gerarchia dei generi filosofici sembra attagliata ai tanti modi espressivi delle filosofie di inizio secolo, collegati al grande progetto degli intellettuali dell’età giolittiana di determinare la realtà attraverso un’arte «capace di persuadere altrui». L’impegno in un’assidua opera di ridefinizione dei significati, realizzata naturalmente in modi e a livelli diversi, è infatti, come ha sottolineato Eugenio Garin, il tratto che accomuna personaggi tra loro molto differenti: da Croce a Serra, da Prezzolini a Carlo Michelstaedter, da Vailati a Papini.
Il serrato dialogo fra il convenzionalismo linguistico dei leonardiani e lo scetticismo «progressivo» di Croce rappresenta, in vista di una teoria dell’argomentazione, un momento importante non soltanto della storia della filosofia ma anche della cultura italiana, e del rapporto fra prosa filosofica e modelli letterari. La guerra contro il dominio della parola insufficiente costituisce infatti, nel primo Nove cento, una vera koinè intellettuale.
Il Prezzolini esegeta di Bergson illustrava i meccanismi sociali del linguaggio e la rilevanza delle lingue settoriali, ma proiettava questo discorso positivo su di un sostanziale pessimismo linguistico: il linguaggio è l’errore, depauperamento rispetto al pensiero, intendere è fraintendere. Già nella recensione del 1904 a Il linguaggio come causa d’errore Croce replicava legando in un nodo organico paro la, storia e consensus: «Ma se l’incomunicabilità fosse assoluta, addio storia, addio critica, addio qualunque tentativo per afferrare il pensiero altrui, e qualunque influenza del pensiero altrui sul nostro». E, d’altra parte, la «guerra contro la parola» intrapresa dal contingentismo gli sembra non solo ammirevole, se confrontata con l’impotenza e la senilità mentale del positivismo, ma riconducibile, pur nelle sue esagerazioni, all’attività precipua di ogni vera filosofia. Ma se Prezzolini passava drasticamente dalla critica al linguaggio alla rinuncia alla filosofia, nella Logica Croce continuava a difendere il «criterio della simmetria» non come pregiudizio, ma «riscontro alla ricerca compiuta» e «in quanto procedimento euristico, alla ricerca da compiere» (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, 1947, pp. 176-77). Diversamente dalle convinzioni del Prezzolini − semmai utili, in una prospettiva secondonovecentesca, per intendere i linguaggi della pubblicità e l’universo dei media − secondo Croce la persuasione non è inganno, il fatto che non esista una Verità, e dunque una definizione immutabile, non deve gettare discredito sul ragionamento giustificativo. Anzi, l’organizzazione del consenso, inteso come sistema per fare accettare e per difendere un’autoconcezione formata o formantesi, è il lavoro filosofico per eccellenza, il cui risultato è esattamente la convenzione linguistica. Ancora una volta, gli avversari non sono i pragmatisti come Prezzolini, il quale va visto anzi come un «collabora tore» del pensiero crociano nel suo farsi, ma i positivisti e, in prospettiva, i loro eredi novecenteschi: quelli che adoperano parole come fossero cose, valori, anche attraverso il ricorso a un linguaggio specialistico da «addetti ai lavori».
Nel saggio su Croce, Prezzolini, da parte sua, adoperava Bergson per illustrarne la filosofia come «lo gica del divenire» capace di penetrare infinitamente la realtà e ne indicava il pregio di filosofia-in-azione (Benedetto Croce. Con bibliografia, ritratto e autografo, 1909). Costituisce allora dato significativo che proprio l’incontro con Croce coincida con l’addio alla filosofia, e con il riconoscimento della propria missione nel che fare, pur nella crescente consapevolezza dell’asimmetria fra il conoscere e l’agire. Proprio al centro della stagione più operante della «Voce», il direttore offriva una definizione suadente della filosofia come dialogo e come tormento, come intreccio di verità ed errore, da districare in comune in una «cooperazione morale». Il contributo di Prezzolini alla cultura italiana del suo tempo è forse adombrato, in tutto il suo potenziale, in passaggi come questo:
Questo senso attuoso della filosofia manca oggi a quasi tutti i professori: ed è poco male. Manca nel pubblico: ed è gran male. Non ultimo sintomo: sovente m’arrivan lettere che mi chiedono un libro breve e chiaro, di cento o duecento pagine, ben diviso e stampato, che non costi troppo, non usi termini di mestiere e insegni la filosofia, non già questo o quel problema filosofico, ma la filosofia addirittura dall’a alla zeta, senz’altro, senza ulteriori discussioni, informazioni e riflessioni. E io non mi arrabbio perché non mi arrabbio che con la malafede… (Il due in uno, «La Voce», 1909, 36, 19 agosto).
È l’articolo ultimo di un moralista, dove il crocianesimo si stemperava in un sentimento commosso di inadeguatezza: fra gli errori Prezzolini includeva quello di essersi creduto filosofo. Si intende bene che in seguito, per tutta la sua lunga vita attiva, di professore di letteratura, di giornalista scintillante e di intellettuale radicale, lo scrittore abbia reso funzionale il ruolo di scrittore postumo, di fatto mettendo a frutto ciò che presenta come fallimento: «“Giuseppe Prezzolini” è uno pseudonimo che adopero ancora, qualche volta» scriverà nel Diario nel 1931 (Diario, 1978, p. 484). L’impasse era nella natura stessa del progetto di partenza − il partito leggero degli intellettuali − e del corrispondente modello teorico, il pragmatismo come «gioco», secondo una soluzione, nel senso di un discioglimento dalla filosofia, che investirà in modi più clamorosi l’amico Papini.
Fino alla Prima guerra mondiale, le due biografie intellettuali si presentano strettamente intrecciate e, nella cooperazione antagonistica, complementari e affiatate, come attestano i libri scritti a quattro mani, La coltura italiana e, soprattutto, Nazionalismo (1914), importante per la discussione con Vilfredo Pareto su vecchio e nuovo nazionalismo. Intorno all’avventura comune delle riviste, «Leonardo» e «La Voce», si coagula infatti un lavoro che risulta dichiaratamente finalizzato al risveglio e alla guida della vita nazionale, in una prospettiva ideologica contigua alla battaglia intrapresa, in quel medesimo scorcio di anni, da Croce e Gentile. E all’inizio c’è una consentaneità effettiva, oltre le ragioni di una implicita strategia consensuale, fra le avanguardie dei «giovini», l’intraprendenza e capricciosità del «gioco» antifilosofico a colpi di pragmatismo e contingentismo, di Gianfalco e di Giuliano il Sofista, e l’operazione strutturale e pesante condotta dai neohegeliani, i quali mentre sbaragliano la cultura positivista della vecchia Italia, ricostruiscono e riorientano una tradizione italiana, con studi e ricerche. Croce e Gentile si fanno «riannodatori di fili» rispetto al passato (A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano, C. Vivanti, 4° vol., Dall’Unità a oggi, t. 2, 1975, p. 1114). In particolare, nell’ambito di una socioantropologia delle forme filosofiche, questo «pathos per la storia», la polemica contro l’astrattezza, e quindi «il carattere di pedagogia politica assunto dalla dialettica nelle sue vesti storicistiche» avrebbe avuto il senso – ha sostenuto Remo Bodei – di «individuare tortuose aperture in direzione dello sviluppo, di insegnare l’operosità» (R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, 1987, p. 338). Diversa la funzione sulle pagine del «Leonardo» del pragmatismo di James, che commisura la filosofia al risultato e la connette strettamente alla vita; da questa postazione ideologica del pensiero «quasi-ultimo» la pars destruens, cioè la polemica contro Ardigò, Augusto Conti, Gaetano Negri, lo stesso Villari, costituisce un risultato decisivo della lotta delle idee e dell’instaurarsi di un nuovo modello culturale.
Si possono ormai leggere in maniera contestuale i carteggi disponibili negli archivi o in via di pubblicazione, a cominciare dal carteggio lungo cinquant’anni della Storia di un’amicizia oggi consegnato a una lettura correttamente storicizzata (G. Papini, G. Prezzolini, Carteggio 1900-1915, a cura di S. Gentili, G. Manghetti, 2003-2008 ), le lettere del giovane Papini a Croce e a Gentile, il carteggio tra Croce e Prezzolini e, sullo sfondo, la corrispondenza – non ancora unificata in dialogo organico – tra i due maggiori filosofi del Novecento italiano. L’intensa comunicazione epistolare rende immediatamente visibile la rete della geografia della cultura, come circuito intertestuale verificabile nelle sue dinamiche, sia nelle compatibilità che nei dissapori e poi, a partire dal 1913, nelle dissimilazioni.
Tra Firenze e Napoli si forma comunque un campo di forze, singolarmente ricco di sfumature e differenze, dal momento che vi convergono tutte le sollecitazioni e le idee che sono fuori del positivismo accademico, nell’apertura problematica alla vita e all’azione. È un fronte vasto quanto al suo interno frastagliato, dove il Papini ‘leonardiano’ emerge anche in virtù di una pronuncia letteraria ardita, aggressiva, affatto spuria, liberata proprio dall’ambiguità del pragmatismo come filosofia ultima. In questo spazio discorsivo di confine, il «pragmatismo magico» prefigura infatti la dissoluzione di ogni filosofia professata, a favore semmai di una comunicazione letteraria della filosofia «che è poi il grande tentativo del primo Papini» (G. Invitto, Papini e l’idealismo italiano, in Giovanni Papini, a cura di P. Bagnoli, 1982, pp. 54-76): «Molti problemi metafisici non si risolvono che con l’azione» – scrive nel 1903 – «per farsi una filosofia è bene farla adatta al nostro io». Ecco allora, risultato di siffatto percorso, «la teoria dell’io, l’Egologia» (G. Papini, Morte e resurrezione della filosofia, «Leonardo», 1903, dicembre, pp. 11-12). D’altra parte, l’interesse iniziale per l’antropologia e insieme per il valore della previsione, come misura della relazione fra concetto e scienza, nonché per l’errore linguistico nel rapporto fra parola e «credenza», rivela un’innegabile capacità di individuare in anticipo gli snodi teorici delle filosofie del Novecento, come risulta soprattutto dal dialogo con Giovanni Vailati.
La prefazione – dotata di notevole suggestione letteraria – a L’altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica (1911), forse il libro più probante della tensione filosofica del Papini, dà conto del grado di complessiva autocoscienza intellettuale nel momento in cui lo scrittore si congeda di fatto dal pragmatismo, «mentre si inaugura a Bologna il IV Congresso Internazionale di Filosofia» (come si legge alla fine della prefazione intitolata Prima di tutto e datata appunto 1911). Sono pagine scritte ormai «contro il metodo» e a favore di «tutte le avventure». Vale la pena di leggerne il passo centrale:
Io sono ancora pragmatista (pragmatismo n° 1, pragmatismo chiaro, prudente e per bene). Quando si tratti di fare scienze o descrivere alla meglio, con l’approssimazione che permette il vocabolario e la profondità che concede la testa, quelle matasse di fatti sempre nuovi e sempre gli stessi che danno origine ai cosiddetti “problemi della filosofia” il canone pragmatistico è di rigore (p. 8).
A questo punto Papini si chiede: «Ma si può esser solamente pragmatisti quando non si è scienziati?». Ecco allora l’esigenza delle avventure concettuali: su questo versante «le formule son miste, le espressioni insufficienti, ma indicano una linea di movimento, suggeriscono terre vergini di realtà» (p. 10). È il 1911; risulta evidente che l’inquietudine indica altre vie, altre fughe in avanti. L’«esperienza futurista» preciserà l’insoddisfazione, come impazienza verso la storia, il passato, come liberazione permanente dalla temporalità. «Questo ripudio del vecchio, quest’odio per l’antico – scrive nel 1913 – non è che una faccia del grande amore futurista per la libertà» (G. Papini, L’esperienza futurista (1913-1914), 1919, p. 25). Le parole d’ordine dell’esperienza futurista saranno infatti ritmo, movimento, dinamismo. Quanto esse abbiano segnato la cultura italiana ed europea stanno ad attestarlo forse la virulenza e la costanza dell’opposizione crociana, se si pensa che un saggio importante come Antistoricismo, relazione tenuta da Croce al Congresso di filosofia di Oxford nel 1930, prenderà l’abbrivo proprio dal fenomeno italiano del futurismo come forma genetica di «antistoricismo», tanto più capziosa in quanto venuta fuori non in sede teorica ma dall’immaginario artistico-letterario (E. Giammattei, Croce, Oxford 1930, «Intersezioni», 2007, 2, pp. 193-214).
In luogo della storia e dello storicismo, subentra, com’è stato felicemente sintetizzato, «l’ossessione del tempo», un tempo «da riempire o da bruciare» (G. Galasso, Storia d’Europa, 3° vol., L’età contemporanea, 1996, p. 335). Alla fede positivistica nell’avvento della modernità auspice il progresso scientifico, subentra un atteggiamento in parte sganciato dalla ragione dialettica della conoscenza scientifica. È l’ideologia del nuovo, organica a quella «metafisica della gioventù» della quale si dirà più avanti, a sua volta corrispettivo psicologico della sempre dichiarata novità delle idee che di volta in volta entrano in scena. Il fondamentale tema del tempo viene portato subito sulla scena dall’inquieto uomo novecentesco, il quale per tollerare la vita, il non poter essere se non se stesso, deve mirarsi nello «specchio che fugge», cioè nella proiezione, sempre elusiva, del futuro in fuga (G. Papini, Il tragico quotidiano, 1906). Si comprende bene, infine, la prospettiva di partenza, la curiosità per l’hegelismo e insieme la riluttanza ad accettare la formula della dialettica, nella consapevolezza, si vorrebbe dire energetica, dei propri limiti e dei propri pregiudizi. La forza del giovane Papini sta tutta nell’analisi distruttiva della filosofia accademica, anzi nella liquidazione di ogni teoria:
Il pensiero è diventato una professione. Si fabbricano delle teorie, colla stessa indifferenza colla quale si mettono insieme degli abiti. Si smerciano delle metafisiche stagionate, delle morali soffici, dei sofismi economici, secondo i bisogni e le richieste del mercato. Si fanno degli affari ma non degli atti d’amore. Si espongono le dottrine ma non si vivono. L’idea è un mezzo per vivere ma non è una forma di vita. Prima di tutto i filosofi d’oggi son prudenti. […] La loro viltà la chiamano positivismo, la loro impotenza sentimentale, obiettivismo. […] Gli è che i filosofi non son più giovini e hanno perduto tutto l’orgoglio e tutto lo sdegno della giovinezza.
Così nell’articolo La filosofia che muore («Leonardo», 1903, novembre, p. 17). È che Papini non intende che «philosopher c’est apprendre à mourir», come aveva stabilito uno degli instauratori europei del moralismo moderno, Montaigne; che pensiero, triste scienza e senilità vanno di pari passo; che la gioventù, insomma, non ha diritto di cittadinanza nel nietzschiano «paese della sera». Questo significa che egli non può e non vuole intendere tutta la tradizione che procede da Giambattista Vico.
Con Papini Croce dialoga, ascolta, è attratto dalla suggestiva scrittura ‘leonardiana’, salvo poi, con il tempo, spazientirsi – e l’occasione sarà costituita appunto dal suo libro su Vico (B. Croce, Il pensiero di Giambattista Vico, 1911), liquidato con audacia coerente dal Papini, il quale mostra di profanare con futuristica buffoneria l’origine stessa del canone filosofico italiano e occidentale (La novità di Vico, «L’Anima», sett. 1911; poi in 24 cervelli, 1913). Gentile rimane lontano, nella sua innegabile destrezza teoretica, nel dichiarato privilegio attribuito al linguaggio filosofico, contro ogni concessione a letterati e scrittori-artisti. Papini e Gentile si avvicineranno solo nella seconda metà degli anni Trenta come intellettuali di regime, anche in seguito alla fondazione del Centro sul Rinascimento presso il quale Papini invita il Senatore per convegni e conferenze. Si legga qualche passo di lettera dell’inizio della corrispondenza:
Confesso – scrive Papini a Gentile nel 1905 – che per quello che conosco dell’Hegel non so persuadermi ch’egli rappresenti davvero la suprema conciliazione di cui parlo […]. Cosa vuol dire, di grazia, far coincidere l’individuo col concetto concreto o viceversa? Scusi la mia ignoranza e, se ha tempo, m’illumini (Arch. Fondazione Gentile).
E l’anno dopo, a proposito delle pagine intorno a Hegel raccolte nel Crepuscolo dei filosofi, avrebbe chiarito a Croce, il quale ne aveva dato una bonaria ma netta stroncatura sulla «Critica» nel fascicolo del marzo 1906:
Mi sembra però che non avete dato abbastanza peso alla mia dichiarazione – molto esplicita – che fa del “Crepuscolo” un’autobiografia spirituale. Io non mi son preoccupato, perciò, di scrivere su Hegel delle cose vere, ma di descrivere la mia personale riluttanza a capire e a gustare le sue schiumose bevande. Nel mio libro non bisogna cercare Kant Hegel ecc. ma una confessione ideologica di un giovane dell’anno 1905.
La rilevanza ideologico-filosofica del fondatore del «Leonardo» va, dunque, cercata altrove, lontano da argomentazioni e concettualizzate proposte: e semmai nel privilegio attribuito alle tematiche dell’Io e della temporalità, a quella «metafisica della gioventù» che consiste nel «tenere in riparazione lo strumento che si dovrebbe suonare, il Tempo» (W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, a cura di G. Agamben, 1982, pp. 98-99), e che si manifesta come il carattere più evidente della sindrome artistico-intellettuale del nostro, impegnato in perenni rinascite, ri-conversioni, auto-rivoluzioni.
Quando Papini avrà, finalmente, concluso la stagione di «disossatore e scuoiatore» di miti invecchiati, di vero apache (come ricorderà nel luglio 1953 al Prezzolini newyorkese), rimarrà, infatti lo scrittore grande e talora grandissimo, narratore di apologhi filosofici letti e amati da Jorge Luis Borges, e insospettabile fonte di scritture argomentanti e fantastiche del secondo Novecento, di opposto segno politico. Si pensi, in particolare, alle Città invisibili di Italo Calvino (1972), da leggere insieme con i racconti di città abbandonate e di incontri immaginari di Gog, uno dei libri più interessanti del Papini degli anni Trenta, dove il protagonista è un originale americano, ricco e potente, figlio di una madre Maori. Qui, ad es., nell’intervista immaginaria a James G. Frazer, l’autore di The golden bough (1890), sarà possibile leggere, come residuo, l’antica passione per l’antropologia e la magia, ormai, se non storicizzata, certo poeticamente oggettivata:
Gli uomini moderni – farà dire a Sir J. Frazer – considerano con troppo disprezzo la magia e gli spiriti scientifici e pratici guardano con pietà ironica i vecchi stregoni e perfino quelli che oggi li studiano. Sono ingrati. E mancano di rispetto alla madre. Tutta la civiltà moderna – e per moderna intendo quella che comincia colla Grecia di Socrate e, dopo un’interruzione di alcuni secoli, ha fiorito e fruttificato dal Rinascimento fino a noi – è figlia legittima della Magia (p. 296).
E concludeva, stringendo insieme arte, filosofia (pragmatista) e magia: «Creare un’immagine, per il mago, significa acquistare un potere sulla cosa rappresentata» (p. 297). Si tratta di conclusione utile, forse, per individuare la casella, peculiare e ancora controversa, sul discrimine e ai margini tra differenti pratiche discorsive, da assegnare a Papini nella storia culturale del Novecento.
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Il crepuscolo dei filosofi, Milano 1906.
Il tragico quotidiano. Favole e colloqui, Firenze 1906.
Il pilota cieco, Napoli 1907.
L’altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica, Ancona 1911.
Sul pragmatismo (saggi e ricerche). 1903-1911, Milano 1913.
Un uomo finito, Firenze 1913; rist. con un’appendice di inediti, documenti e annotazioni, a cura di A. Casini Paszkowsky, Firenze 1994, 20112.
24 cervelli, Ancona 1913.
Stroncature, Firenze 1916.
Gog, Firenze 1931.
Passato remoto, 1885-1914, Firenze 1948.
Scritti postumi: t. 1, Giudizio universale; t. 2, Pagine di diario e di appunti, Milano 1966.
Lo specchio che fugge, a cura di J.L. Borges, Parma-Milano 1975.
Opere. Dal «Leonardo» al futurismo, a cura di L. Baldacci, Milano 1977.
Il non finito. Diario 1900 e scritti inediti giovanili, a cura di A. Casini Paszkowsky, Firenze 2005.
A. Viviani, La maschera dell’Orco. L’intima vita di Giovanni Papini, Milano 1955.
R. Ridolfi, Vita di Giovanni Papini, Milano 1957.
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