Giovanni Pascoli: Opere, Tomo I
Scopo primario di questa antologia non è introdurre all'apprezzamento della 'poesia' del Pascoli o, peggio ancora, analizzare il suo sistema simbolico mediante la sovrapposizione arbitraria di categorie con le quali il critico moderno è solito prevaricare le intenzioni comunicative del poeta. Essa, più semplicemente, si propone di determinare il messaggio pascoliano sulla base degli stessi significati che l'autore intese, a torto o ragione, conferirgli: impresa finora snobbata dagli addetti ai lavori eppure tanto più urgente, mi sembra, in quanto forse mai nessuno come il Pascoli ebbe cura di defilarsi dietro travestimenti, e poetici e biografici, che la sorella, dopo la sua morte, si incaricò - senza dubbio ottemperando a una volontà testamentaria più o meno esplicita - di perfezionare, riuscendo a un'opera d'imbalsamazione di tutto rispetto quanto a spessore e operatività. Sollevare questo velame mi è apparso compito imprescindibile alla corretta comprensione, filologica prima che estetica, della produzione pascoliana; oltre che un debito da saldare se il Pascoli, come qualsiasi altro imputato, ha l'inalienabile diritto di essere ascoltato e capito prima che giudicato.
La natura di questo approccio determina, nell'antologia, una serie di caratteristiche (tutte, o in buona parte, non so quanto gradevoli per il lettore e la soave lettrice) che cercherò di puntualizzare per sommi capi.
1. L'antologia spesseggia, rigurgita, scoppia di citazioni estratte dagli scritti danteschi: e questo non tanto per ribadire che essi non sono - come del resto era ragionevole supporre - una mostruosa enfiagione formatasi a deturpare un organismo di cui, per altri versi, si riconosce più o meno l'innegabile compattezza e coerenza, e che quindi hanno anch'essi diritto, alla pari dei carmi latini, delle prose e delle poesie in volgare (anche di quelle più «insopportabili »), ad essere considerati parte integrante dell'espressione pascoliana. No, non è stato un deprecabile amor di polemica ad attribuire tanto spazio a pagine poco lette e peggio comprese. Il fatto indubitabile è che questi scritti, frutto di un lavorio travagliato e silenzioso che in non minima parte precede le stesse opere in verso, esprimono con sorprendente chiarezza le direttive destinate a informare tutta, si può dire, la produzione poetica, non solo successiva, ma anche anteriore.1
Queste direttive, che rimangono immutabili fino agli ultimi grandi poemi, si collocano a un duplice livello, estetico-morale ed euristico. Negli scritti danteschi si trovano definite tutte le categorie 'filosofiche' che il Pascoli utilizzò per razionalizzare, in una trasparente parabola di successivi ritorni su sé stesso (ciascuno dei quali è un passo avanti verso la progressiva conquista della verità), una vicenda di autobiografia poetica di cui è noto, perché già vissuto, lo scioglimento, ma non ancora conquistata è la catarsi. Sul piano euristico, gli scritti danteschi sono un originalissimo manuale di logica simbolica che prevede tutti i tipi di equazioni e trasformazioni puntualmente impiegati nel processo di formalizzazione poetica: e, come tali, allo stato attuale delle nostre conoscenze (senza dubbio minime) del pensiero pascoliano, sono l'unico strumento atto a descrivere l'apparato di cifrazione utilizzato, e a decrittare con sufficiente correttezza dei messaggi consapevolmente redatti sulla base di un codice ben preciso.
2. Il materiale sottoposto a questo processo di simbolizzazione è esso stesso organizzato secondo una tecnica combinatoria che ha pochi paralleli nella letteratura europea, e per la quale il termine di sincretismo sarebbe un'etichetta non solo ingiustamente riduttiva, ma soprattutto profondamente erronea. Raramente, come in questo caso, si ha l'impressione che la nascita - l'essere balestrato nel mondo, come direbbe Dante, il Dasein, nella terminologia degli esistenzialisti - sia nell'universo un evento sostanzialmente casuale. L'uomo Pascoli si è ritrovato in un ambiente civile, sociale e culturale che è quello dell'Italia di fine secolo: e la casualità degli strumenti che questa cultura (ulteriormente determinata dai personali condizionamenti biografici) gli mette a disposizione è pari alla puntigliosa consequenzialità con cui essi vengono digeriti, analizzati secondo i tratti pertinenti e schedati in unità lessico- tematiche minimali. Pertanto, come Dante è il testo più adatto per elaborare i meccanismi di cifrazione, così la materia da cifrare viene sostanziata da una spessa filigrana nella quale la convergenza a livello di elementi distintivi - riconosciuti come funzionalmente equipollenti - determina la formazione di ircocervi sorprendenti, quali un frammento di Cornelio Severo dietro un caratteristico endecasillabo myriceo, o uno stornello marchigiano, di quelli raccolti dal Gianandrea, nel latino rustico mutuato da Catone, o un famoso epitalamio di Catullo associato all'anglosassone sensiblerie di Coleridge, o un versaccio tratto dal più frusto dei libretti operistici deputato a innervare una citazione, poniamo, shakespeariana. Gli ingredienti sono sempre gli stessi, dichiarati con disarmante candore nelle antologie (solo più avanti negli anni si nota la preoccupazione di allargare il proprio raggio d'intervento) e pertanto facilmente predicabili: ma di questa relativa povertà (frutto, lo ripetiamo, più del caso che di una scelta consapevole; e del resto perfettamente in linea con la seletta chiusura - da trobar leu - che informa il rimario) Pascoli si vale per costruire un sillabario tematico elementare, e dunque meravigliosamente congruo con le esigenze di programmazione inerenti al suo dispositivo di cifrazione.
Tutto questo significa - e l'esperienza condotta sul Pascoli latino, ossia in una zona più di ogni altra proclive alle tentazioni di un positivismo tuttora imperante in filologia classica, ha in proposito valore paradigmatico - che per il Pascoli, più che per qualsiasi altro autore, è assurda e fuori luogo una critica volta al mero reperimento delle fonti, visto il consapevole e costante impiego della citazione come rimando a un codice predigerito e precostituito, ossia come segnale provvisto di un significato ben preciso, dove la funzione denotativa prevale su quella connotativa.
3. Questo processo di analisi e selezione preventiva, che privilegia la pertinenza a livello di comunicazione disinteressandosi completamente di qualsiasi giudizio di valore o di situabilità spaziotemporale, è del resto implicitamente dichiarato sul piano sia della teoria, là dove Pascoli configura una poesia uguale a sé stessa e immutabile al di sopra delle differenze linguistiche, culturali e cronologiche; sia della prassi, posta la disinvoltura con cui il poeta rimette in circolo i detriti della più frusta tradizione librettistica e accademica, e l'antologista non si fa scrupolo di allineare i mostri sacri della letteratura italiana (debitamente ritagliati da una forbice che ha lame affilatissime) a contatto di gomito con esponenti della prosa giornalistica e scientifica, o addirittura con poetucoli dalle quotazioni più che modeste. Conseguenza immediata di un simile atteggiamento operativo è la singolare (eppure logica, e del tutto in linea con le premesse) capacità del Pascoli di emettere messaggi propri esclusivamente utilizzando materiale altrui: come lettere e sillabe di carattere il più disparato, ritagliate dalle fonti cartacee più diverse e allineate a comporre uno scritto di cui non si vuol tradire l'identità calligrafica. Ecco perché si troveranno in quest'antologia lacerti estratti da differenti autori e messi l'uno di seguito all'altro a comporre un messaggio che non è di nessuno di loro, ma che deve entrare con pieno diritto a far parte della produzione dell'autore. Egli, pur senza essere direttamente rappresentato, li ha disposti in stringhe portatrici di un significato che non appartiene, né individualmente né sommatoriamente, a nessuno dei costituenti (dai quali è stato alienato il significato originario), ma che è proprio e soltanto suo: certo a voler saggiare e indicare il grado di sfasatura fra un'espressione linguistica solo parzialmente e desultoriamente congrua (per analogia ma anche per antinomia), e un contenuto ideologico che resta universalmente e immutabilmente valido anche, e soprattutto, al di là delle intenzioni proprie in origine all'autore del lacerto utilizzato.
4. Ho parlato di stringhe : termine evidentemente mutuato dalla linguistica trasformazionale, e da me impiegato attraverso tutta l'antologia per abusionem. Me ne scuso: mi ha fatto comodo; e spiego perché. Ho usato stringa per indicare qualunque serie di poesie in una raccolta pascoliana (in coincidenza o no coi sottotitoli dati dal Pascoli stesso), ma anche di composizioni latine ordinate in Lyra ed Epos secondo un criterio preciso, e di lacerti in poesia o prosa ugualmente ricuciti insieme dall'antologista di Sul limitare e di Fior da fiore (e per la consapevolezza inerente a tale strategia compositiva basti rinviare alla Prefazione di Fior da fiore). qualunque di queste serie, dicevo, provvista di senso compiuto a livello di insieme, cioè trascendente i singoli individui (dal che si ricava, per inciso, uno dei criteri che hanno informato la scelta presente). È rarissimo che una poesia del Pascoli esaurisca in sé stessa la propria portata significativa: quasi sempre la compiutezza del messaggio risorte dalla compresenza degli individui immediatamente precedenti e successivi, producendo appunto stringhe funzionalmente equipollenti e ricorrenti secondo un preciso e caratteristico ritmo ripetitivo.
Il rapporto che collega due o più individui all'interno di una stringa è di natura essenzialmente metonimica: valga per tutti l'esempio di PP Italy, che scinde a distanza i propri costituenti immediati nei dittici formati da CC Per sempre e La nonna e OI Gli eroi del Sempione e Al Serchio. Il rilievo è di grande momento perché costituisce una flagrante deroga alla celebre opposizione, posta dallo Jakobson, fra poesia-metafora e prosa-metonimia: il Pascoli si muove essenzialmente sull'asse della combinazione, e la consapevolezza di questo procedimento traspare a più riprese dagli scritti danteschi. La proiezione di un rapporto di causa-effetto, o di corrispondenza analogica, sul piano della contiguità costituisce nel Pascoli una norma provvista di grande automatismo: e del resto proprio le Myricae, almeno nella parte più estesa e caratteristica, ne costituiscono la dimostrazione più cospicua.
5. Chiamo d'altra parte stringa, e questa volta con maggiore ossequio al significato originario, il rapporto di trasformazione che lega due poesie di regola divaricate topograficamente e cronologicamente. Ancora una volta riproducendo un istituto dantesco, e genericamente medievale, Pascoli usa rispondere per le rime a sé stesso, impiegando il sistema dell'autocitazione (non necessariamente coincidente con l'esposizione in rima) di solito per comunicare lo spostamento di significato operato a carico di una stessa unità ipostatica o tematica. Un esempio classico in proposito è la stringa che parte da PV Jago, passa attraverso PV Sera e si conclude in M Notte. Questa tecnica è operativa soprattutto in corrispondenza del periodo massese: in seguito Pascoli preferirà procedere attraverso la ripresa di singole rime o parole-chiave, prescindendo dall'organismo metrico e tematico complessivo.
Un ovvio corollario di questa legge è l'esistenza di un codice estremamente compatto a livello non solo rimatico (donde l'imprescindibilità, per qualunque indagine di questo tipo, di un rimario, che del resto sarà pubblicato fra breve dall'autore di queste righe) ma anche e soprattutto lessicale: praticamente ogni parola significativa è provvista di uno spessore determinato dalla compresenza di più livelli di lettura. Su un vocabolario formatosi attraverso gli apporti più differenti (e spesso non sospettabili: quanto ciarpame genericamente metastasiano e tardo-romantico sta a monte della classica perspicuità di Myricae!), e già di per sé autosufficiente sul piano dei rapporti interni al sistema, Pascoli innesta i contenuti allegorici elaborati negli scritti danteschi, abbandonandosi a virtuosismi che talvolta hanno dell'incredibile: come quando, soprattutto nei Poemi Conviviali, sollecita in questa direzione il formulario omerico e genericamente classico, attraverso una ricerca puntigliosa e inesausta dei possibili punti d'intersezione e di contatto.
E per questa via siamo tornati a Dante, croce e delizia del Pascoli prima che dell'autore di questa antologia. L'incidenza degli scritti danteschi è tale che permette di tracciare un preciso diagramma cronologico dell'intera produzione pascoliana: cronologico, ben inteso, in senso ideale, perché il Pascoli stesso dichiara a più riprese l'abitudine di riporre in frigorifero i propri effati destinandoli alla collocazione che di volta in volta gli pareva più opportuna (non forse l'intera sua vicenda poetica è un continuo ritorno sul déjà vu, nell'intento di elevarne progressivamente il grado di formalizzazione?). E il diagramma, a grandissime linee, è questo. La myrica tipica, cioè il 'quadretto' più o meno impressionistico, è come la metà di un foglio recisa con un colpo netto di forbice dall'altra metà, su cui era scritta l'elaborazione allegorica (in senso non sempre dantesco); oppure, per usare un'immagine più pascoliana, una moneta di cui è visibile soltanto una faccia; o anche, se si vuole, una delle Poesie varie in cui la raggiunta 'determinatezza' linguistica (di solito perseguita attraverso un classicismo frammentato, che funziona da controcanto parodico) è in ultima analisi la cifra esteriore dell'organizzazione conseguita a livello sovrasensoriale. L'inconfondibile univocità del rimando allegorico impedisce fin da ora di parlare di simbolismo (nel senso di un Mallarmé o anche di Barthes); e d'altra parte il colpo di forbice che è necessario postulare toglie autonomia al prodotto, perché il messaggio non è compiuto senza l'integrazione mentale con un termine correlativo il cui rapporto non è, lo ripeto, di compresenza, ma di contiguità, sia pure virtuale, nello spazio bianco che separa tipograficamente una poesia dall'altra. Le Myricae sono un sillabario lessico-tematico che in fondo non differisce molto dalle antologie latine e italiane, messe assieme in epoca più o meno contemporanea.
L'estensione massiva degli schemi allegorici danteschi alla pagina scritta avviene nei Poemetti didascalici che intervallano l'epos garfagnino: in questi il momento allegorico è preminente e dà luogo a un discorso metalinguistico non esente da prove di virtuosismo francamente patologico (si pensi a II cieco). Il sillabario, da lessico-tematico, è diventato ipostatico: è il Pascoli che conferisce piena cittadinanza nel proprio codice alle immagini emblematiche e seriali amorosamente escusse negli scritti danteschi (Il vischio, Il torello, Il libro). Contemporaneamente, nell'epos garfagnino le unità myricee, svincolate dal rapporto con una formalizzazione allegorica che ora si è attualizzata (le serie di poemetti didascalici che inframezzano gli episodi dell'epos corrispondono agli spazi bianchi di Myricae finalmente riempiti: il che non toglie, anzi implica, una correlazione - questa volta dichiaratamente metonimica - sul piano del messaggio complessivo), conquistano autonomia e organicità a livello cronologico e linguistico: le stringhe isolate e ripetitive di Myricae si compongono in un'affabulazione che, pur restando esternamente discreta, è ordinata secondo una progressione coerente e διηνεχής, con un inizio e uno scioglimento della vicenda: come singoli canti di un unico poema farciti in margine e nell'interlinea di glosse. Contemporaneamente il lessico e lo stile eleva il proprio grado di 'determinatezza', sostituendo il precedente classicismo quintessenziale e parodico col garfagnino che, mentre cifra - in chiave di alienazione linguistica - l'estremo grado di decomposizione cui è giunto l'ideale rustico-familiare, saggia d'altra parte lo strumento che è alla base della lingua, perfetta, dei Canti di Castelvecchio.
Questa fase, viscerale e delicatissima, di sperimentazione non impedisce al Pascoli di dar fuori prodotti finiti di grande eccellenza, come il dittico di Digitale purpurea e Suor Virginia, senza dubbio la codificazione più matura e perfetta delle categorie centrali dell'excessus mentis e dell'(anti-)vergine; o come Italy, un capolavoro di compresenza e armonia reciproca fra i quattro sensi : letterale, allegorico, anagogico e politico-morale; mentre non altrettanta felicità di risultato arride agli individui più impegnati e ambiziosi di NP: I filugelli, un autentico esercizio di commento pascoliano alla pagina di Dante, per la puntigliosa ricerca e catalogazione di segnali lessico-tematici dispersi eppure legati da un preciso rapporto di pertinenza (ed è l'unico episodio dell'epos garfagnino informato da un dantismo trascendentale, come quello che è deputato a esplicitare il contenuto allegorico dell'intera vicenda); Gli emigranti nella luna, di grande rilevanza perché l'unico punto di contatto con la giovanile poesia cavalleresca; Pietole, rispondente più che altro all'esigenza compositiva di provvedere un pendant a Italy (allo stesso modo che CC Tra San Mauro e Savignano, anch'esso non compreso in questa raccolta, risponde a M Il giorno dei morti).
Il senso letterale di Myricae e il senso allegorico dei Poemetti si coniugano, infine, nell'armoniosa unità e perfezione dei Canti di Castelvecchio. senza dubbio la più eccellente raccolta del Pascoli in rapporto ai postulati da cui muove la sua indagine estetica e conoscitiva. Il definitivo superamento della vita attiva quale via non vera (che pur tuttavia sopravvive come fantasma da esorcizzare periodicamente) coincide col ricupero dell'affabulazione per scatti discreti e stringhe equivalenti, propria della prima raccolta: ma la parola è paradossalmente più spessa e più leggiera, perché il 'quadretto' myriceo, il garfagninismo dei Poemetti, la sarcina allegorica mutuata da Dante hanno ormai depositato ogni residuo in fondo alla provetta e si fondono in una quintessenza sublimata e profumata che non opprime, no, il piano letterale, ma gli conferisce una compattezza, una profondità, una bellezza insospettata e piena di fascino e di sofferto, quanto robusto, contenuto gnoseologico e morale: senza il quale Pascoli sarebbe, sì, ugualmente un grande poeta, ma poeta delle lacrime e dei morti, dell'Italia povera e rustica, di Valentino e di La cavalla storna, eternamente incompresi ed equivocati tra infantilismo e psicologismo, sussidiario per le elementari (è il destino di quasi tutti i grandi libri per l'infanzia: da Gulliver a Treasure Island e a Pinocchio) e al tempo stesso banco di prova per esperimenti psicanalitici. La raccolta dei Canti di Castelvecchio è 'mitizzazione' dei reperti folclorici garfagnini e romagnoli, in cui si precisa il filone 'popolare' introdotto con lo sperimentalismo un po' disordinato di Myricae; è fissazione del «quid speciale e intraducibile» proprio alla lingua italiana, in ciò che l'apparenta alle predilette lingue «turaniche», dove il radicale fa aggio sulla terminazione;2 è 'drammatizzazione', sul modello dantesco, di grandi miti e concetti filosofici in cui il poeta si riconosce (si pensi al dittico L'usignolo e i suoi rivali e II fringuello cieco, che ha un'evidenza perentoria e quasi scolastica) e si firma (Il croco). La metrica, dopo la sclerosi didascalica delle terzine dantesche nei Poemetti, ricupera la varietà e ricchezza (da satura latina) di Myricae, però locupletata alla luce delle teorie sul ritmo e la mistificazione metrica esposte nella lettera al Chiarini: donde l'eccezionale flessibilità e la compresenza, all'interno della stessa poesia, di più sistemi metrici concorrenziali, autentica e geniale cifra emblematica della possibilità di lettura a più livelli.
Un posto a sé occupa Ritorno a San Mauro, vera e propria discesa in un oltretomba para-dantesco, quando il pellegrino, perduta la speranza dell'altezza, spera, ossia è illuminato dalla grazia che opera occultamente. Il processo di sublimazione linguistica raggiunge vette non più attinte in seguito3: il garfagnino, ormai depurato da ogni residuo effetto di macchia e operativo a uno stadio non più che virtuale, lascia distinguere, in trasparenza, le venature di una sorta di romagnolismo trascendentale, appena suggerito dalle increspature sintattiche. La vocazione al controcanto di sé completa il lucido quanto disperato jeu de massacre perseguito con ostinata coerenza nelle raccolte precedenti, e attinge i risultati più belli e più fecondi per la letteratura successiva. E una poesia come La tessitrice resta forse il capolavoro dello «stil nuovo» quale l'aveva ridefinito il Pascoli dantista: si legge d'un fiato, ma occorrono pagine e pagine per dipanare la rete di implicazioni sovrasensoriali. Ammirazione per il virtuosismo del facitore di allegorie, magari accompagnata dal compiacimento perverso del critico che ammira, rigirandoselo fra le dita, il modello appena costruito ? Macché: piuttosto un piacere estetico quale raramente, o forse mai, è dato provare. Estetico? Sì.
Al margine di questo diagramma, la cui continuità è dichiarata dallo stesso Pascoli, si collocano i Poemi Conviviali e Odi e Inni. I Conviviali, come immediatamente suggerisce l'endecasillabo impiegato in proporzione maggioritaria, corrispondono a una fase sperimentale che porta alle estreme conseguenze l'esperienza classica, non parodiandola come in Myricae, ma sollecitandone le virtualità tematiche e linguistiche in direzione allegorica. Il sonetto vitanovistico del «gabbo», che traspare in filigrana nel «dileguare» pronunciato da Saffo, e l'alba medievale e gravida di sovrasensi, che offusca la luminosità mediterranea di un mattino a Itaca, comunicano un'emozione che non si dimentica: certi effetti di montaggio ce li ha resi familiari il cinema, ma negli scritti danteschi sono teorizzati a più riprese. La vicenda, cronologicamente ordinata, dei Poemi Conviviali è, come l'epos garfagnino, una lucida conferma dell'equazione tra vita attiva e via non vera : in questo senso porta avanti l'uno dei due filoni principali di Myricae (l'altro è quello attinente all'idillio rustico-familiare: l'amore accanto alla gloria, secondo il binomio in cui si articola la categoria dantesca e pascoliana di vita attiva) che, attraverso l'arcaico manipolo dei sonetti raccolti in Ricordi, si aggancia alla giovanile poesia cavalleresca di PV Echi di cavalleria e Astolfo, per passare quindi attraverso il filtro isolato di NP Gli emigranti nella luna e convogliarsi in Odi e Inni. Quest'ultima raccolta abbraccia un arco di tempo molto esteso (il Pascoli, a differenza di Dante, non abbandona mai a mezzo nessun filone della propria indagine: magari lo lascia decantare, per poi concluderlo, anche après coup), e senza dubbio la piena comprensione di poesie come Chavez, Il ritorno di Colombo e Andrée (tutte varianti funzionalmente equipollenti dell’Alexandros conviviale) non è possibile senza tener conto dell'esperienza finale consegnata ai Poemi Italici e ai Poemi del Risorgimento.
Le canzoni di re Enzio
Due, delle tre Canzoni di re Enzio, realizzano l'impresa notevolissima di comporre a livello di codice il discidio finora irrisolto fra le categorie dantesche di vita attiva e vita contemplativa. Fior d'uliva cumula in sé gli attributi di Phidyle, di Psyche, della servetta di monte, della tessitrice, della pargoletta di Rossini, ed è quindi la definizione più esaustiva - se non la più bella - dell'archetipo femminile pascoliano: la Rachele di Digitale purpurea, si sa, ha più fascino; la morte ha impedito al Pascoli di rifinire e migliorare. Quanto all’excessus mentis di Enzio perduto dietro la cantilena lunga di un giullare, si tratta dell'espressione più sublime di un 'incanto' (o 'incantamento') perseguito a partire dall'eccellenza pseudo-popolare di M Fides, e poi nella domestica ambiguità di PC Alexandros e nel tam-tam selvaggio di OI La sfogliatura (Propp? Ma sì: quello di Morfologia della fiaba). A Le canzoni di re Enzio si rimprovera, si sa, il «fil di ferro»: ma senza mai tener conto dello spesso e irto reticolato che cinge la perfezione dei Canti di Caste vecchio. Pascoli, si è detto, ha concluso il suo ciclo: ora ricomincia da capo. È inevitabile sognare su quale grandissima poesia avrebbe prodotto se la vita gli fosse stata più larga di anni. Per ora saggia, con lucida e perentoria cautela (come il suo Dante: «si affrettava lentamente»), il terreno: gli si aprono, grosso modo, tre piste. La prima è quella delle Canzoni di re Enzio : una summa dell'esperienza poetica e gnoseologica precedente, che prevede il ricupero di ritmi medievali accanto allo sperimentalismo tradizionalmente connesso all'endecasillabo (sciolto, però, e sollecitato in base a una flessibilità metrica che prosegue sulla linea tracciata dai Poemi Conviviali e dai Canti di Castelvecchio)-, la funzionalizzazione di dati folclorici il cui trascendentalismo è affidato alla ricostruzione filologica (le «medesine e benedizioni» di Fior d'uliva proiettano nel medioevo la sapienza ambigua dei Canti di Castelvecchio. e prima ancora della Rosa dei Poemetti; quanto all'innesto di elementi arturiani, automatico è il rinvio alla splendida trilogia di Merlino ospitata in Sul limitare); il tentativo di 'determinare' il romagnolismo strisciante di Ritorno a San Mauro attraverso la sospetta dolcezza di nessi consonantici in -l- ricavati dal manuale di fonetica del Gaudenzi.
Le altre due piste sono senza dubbio meno seducenti o meno conosciute, ma probabilmente più futuribili e feconde: avrebbero condotto il Pascoli, lontano. L'una è tracciata da PR Napoleone, un poema la cui indecifrabilità estetica è pari all'impressionante sapienza combinatoria. Alle spalle c'è la concentratissima tensione morale dell'ultimo Pascoli: vuol completare la parabola lasciata a metà da Manzoni e Carducci; vuole trasfondere nella produzione poetica le categorie politiche e morali elaborate nelle prose e nei discorsi: e si sa che Napoleone non è se non un capitolo di una raccolta appena agli inizi. Pensiamo a quell'altro capolavoro di arte combinatoria che è CC La tessitrice, dove la rarefatta ed esile perfezione linguistica e metrica cifra, a livello sovrasensoriale, un sistema di rapporti limpido e armonioso nella rispondenza reciproca fra le parti. Qui, al contrario, il bersaglio si sposta: la relativa trascuratezza del metro e della lingua, farcita di movenze prosastiche e incondite, corrisponde a un impegno quasi esclusivamente dedicato a moltiplicare i piani di lettura e a complicare i rapporti interni all'armatura allegorica. Non sorprende tanto il consueto effetto di montaggio, che utilizza l'oltretomba virgiliano quale tramite fra Omero (ed Eschilo) e la Commedia; ma piuttosto la fittissima trama di contatti metonimici che solo un'indefessa ricerca delle note disperse in Epos e Lyra è in grado in qualche modo di ritessere (questa mente che uncina luoghi similari, tematicamente e topograficamente divaricati, ha indubbiamente qualcosa di dantesco) ; e la fuga all'infinito di un ubriacante giuoco di specchi per cui, poniamo, dietro Napoleone si vede e svede il repellente moncherino di Deifobo (e, dietro lui, dell'Anticlo conviviale) che accenna, nell'ombra sempre più fitta, al profilo piangente di Elissa - dell'anima prigioniera; e della donna gentile. Questo bilancio conclusivo dei filoni culturali che sostanziano il dispositivo pascoliano di cifrazione, non può che significare un contemporaneo sforzo di allargare gli orizzonti: e in questo senso l'immagine del Brahma, impiegata anche nelle prose dedicate al Carducci, riceve una controprova inconfutabile dal progressivo affollarsi, in questi ultimi anni, nella biblioteca di Castelvecchio, di volumi - spesso intonsi - relativi alla poesia e alla filosofia indiana. Pascoli andava in cerca di un nuovo modello, prima sapienziale che epico, per rivitalizzare il proprio occidentalismo culturale: non è proprio lui a consumare l'innesto inaudito e violento, nella letteratura europea di fine secolo, dell'esegesi patristica e prima ancora biblica, dalle inequivocabili radici mediorientali? E ad esempio, nella seconda edizione di Sul limitare, aveva già accolto la canzone di Vӓinӓmöinen nella traduzione di Pavolini. Sia come sia, Napoleone è un'opera anch'essa preparatoria, e quindi fatalmente riuscita solo in parte (come se dell'altro Pascoli, quello precedente, ci restassero soltanto le Myricae)-, ma è soprattutto un'opera di cui è attualmente impossibile la piena comprensione, per mancanza di strumenti critici e categoriali adeguati: conviene ammirare, e sospendere il giudizio, come ancora - in certa misura - per il Paradiso di Dante.
Parlavo di una lingua più prosastica che poetica (Pascoli, non si dimentichi, opera essenzialmente sull'asse della contiguità): e l'osservazione vale per introdurre la terza e ultima pista, quella degli abbozzi di drammi teatrali pubblicati postumi da Mariù nel volumetto Nell'anno mille. E questa è un'emozione ancora più dirompente e profonda di quella comunicata dai poemi precedenti. Se ne ricava l'impressione invincibile che proprio nel teatro l'ultimo Pascoli avrebbe trovato la sua strada. La vocazione in questo senso, è antica: è lui stesso che, in nota all'epodo li di Orazio, suggerisce di recitare le Myricae più caratteristiche col falsetto stridulo e amaro di Alfius fenerator; e che in certi episodi dell'epos garfagnino insinua le note del duetto pucciniano; e che, in poesie come CC Casa mia o Mia madre, mette in bocca a quest'ultima - che funziona da «eco», cioè da alter ego - un controcanto ai propri intercalari preferiti, e ormai sclerotici, che deve essere pronunciato con l'inflessione nostalgica e ironica, e senza fine amara, del dialetto romagnolo. Negli ultimi suoi lavori, Pascoli andava a caccia di un rinnovamento completo sul piano linguistico e metrico, e la perfezione consumata, e dunque imbalsamata e stereotipa, dei vecchi strumenti non lo soccorre più: quando li maneggia per trarne nuovi accordi, suonano falso o a vuoto. Ma la lingua impiegata per gli abbozzi teatrali ha una flessibilità e una novità (viene in mente Pirandello: sì, ma un Pirandello che abbia alle spalle l'immensa indagine poetica e gnoseologica del Pascoli) insospettate quanto sorprendenti : una sorta di grado zero prosastico e parallelo a quello, poetico, che deve essere presupposto per Myrica; e l'apparente, l'ingannevole patina di trascuratezza corrisponde, in realtà, a un luogo scritturale in cui vegetano, come filugelli, potenzialità nascoste e inespresse, ma pronte - attraverso un'opportuna sollecitazione - a esplicarsi in un ventaglio di direzioni appena immaginabili. È forse il critico che si compiace, sollecitandola, della condizione preterintenzionale sempre inerente a un lavoro non finito ? Credo di no : c'è la versificazione delle prime scene di AM Gretchen's Tochter a dimostrare che, dietro il solito ballon d'essai sotto la specie di un ricupero filologico (l'endecasillabo, nell'anno mille, era ancora di là da venire: sì; proprio l'endecasillabo che, spremuto sino al fondo delle sue possibilità, ora non può dare altro al Pascoli, e gli si sfalda tra le dita), si cela la precisa intenzione di rinnovare sul piano lessicale e prosodico il verso breve di Myricae, costruendo uno strumento nuovo di zecca che non è più poesia o prosa, ma sì ritmo, e come tale posto al servizio di un genere - quello drammatico - al confine tra poesia e prosa, tra testo e didascalia, tra la formalizzazione della realtà e la sua attualizzazione, sempre nuova e diversa, in uno spazio virtuale che è pura potenzialità di scrittura e di rappresentazione : così che la neutralizzazione pascoliana dell'opposizione fra metafora e metonimia, operata proiettando la prima sull'asse della seconda, lascia indovinare un'estensione extratestuale e pone il problema, nel Pascoli, del passaggio da un sistema di segni verbale a un altro, non esclusivamente verbale. L'elaborazione critica è ancora agli inizi, e chi scrive si propone di svolgerla in altra sede. Allo stesso modo non più che un cenno cursorio può essere dedicato a un'area della letteratura europea, quella tedesca, con cui il Pascoli si conquistò una familiarità senza dubbio maggiore di quella che si è finora supposto. Qui basti il solito accenno alla straordinaria capacità di appropriarsi anche di un testo in apparenza estraneo e vischioso: a parte l'equiparazione di Ghita all'archetipo di Molly, si osservi come la concentrazione del dramma di Goethe sul personaggio di Mefistofele risponda al disegno ben preciso di trasporre in linguaggio teatrale l'esegesi biblica di san Bernardo, nella quale « Le caverne di macerie sono i luoghi degli angeli che per la superbia caddero, lasciati quasi vuoti da loro: «le quali hanno a essere riempite d'uomini, come rovine da rifarsi con pietre vive»» (SV L'altro viaggio I). È ragionevole quindi concludere che proprio per questa via Pascoli avrebbe emulato e perfezionato la capacità del suo Dante di 'mitizzare', di 'drammatizzare' concetti filosofici e teologici.
In margine alla compattezza di questo diagramma, che abbiamo ripercorso a grosse linee, si collocano le attività di poeta latino e di prosatore, non mai intermesse e dunque per forza connotate da una maggiore assenza di sistematicità. L'elaborazione dell'archetipo oraziano, per esempio, spazia da Phidyle - strettamente connesso alla problematica della donna gentile, quale è svolta nell'arco da Myricae ai Canti di Castelvecchio - a Fanum Vacunae (non è casuale che la produzione latina del Pascoli si apra e si chiuda nel segno della satura polimerica), che presuppone e supera le conclusioni raggiunte nei Canti di Castelvecchio. trascrivendo in terminologia 'pagana' la ricuperata dimensione della vita attiva e presentando un bilancio conclusivo che implica una trasposizione, puntigliosa e perfino pedissequa (nel riprodurre la disposizione stessa, a fini didascalici, della materia), di Sotto il velame. È una resa dei conti analoga a quella svolta negli ultimi poemi, con la differenza che qui la chiusura del codice (il quale, anch'esso, cominciava ad andare stretto al Pascoli: non per nulla gli ultimi due carmi, gli inni in Romam e in Taurinos, sono bilingui) consente di attingere vette di perfezione analoghe a quelle toccate in CC La tessitrice-, ma sono testi che chiudono un'epoca, accanto ad altri che, pur nella parziale e inevitabile infelicità del risultato, ne aprono - o meglio, erano destinati ad aprirne - un'altra.
Anche le prose, nell'opposizione sostanziale che correla Pensieri e Discorsi e Patria e Umanità, riflettono con grande precisione il differente rapporto fra vita attiva e contemplativa che distingue i due principali periodi (uno concluso, l'altro prematuramente troncato dalla morte) in cui è divisibile la produzione pascoliana. La prima raccolta inizia con le grandi formulazioni teoriche, affidate a II Fanciullino e alle prose critiche leopardiane, prosegue con la formulazione di un simbolo centrale dei Canti di Castelvecchio.(Il settimo giorno) e termina, con La messa d'oro e Una festa italica, nella messa a punto di un itinerario di purificazione spirituale che, modellato su Virgilio e Dante, approda alla confezione di un dispositivo etico-politico (prima e più che poetico) atto a razionalizzare ed esorcizzare il male del secolo. La seconda raccolta è dominata dalle grandi figure di Carducci e Garibaldi, che teorizzano in prosa prima che in poesia il definitivo ricupero della dimensione di vita attiva a livello nazionale e universale: in questo senso La grande proletaria si è mossa ... è veramente l'estremo, lucido, disperato tentativo di sussumere e sublimare per entro il proprio universo categoriale e simbolico una materia sempre più sorda a rispondere, una realtà ormai divenuta incontrollabile, un codice - quello della presente realtà storica - che ormai si rifiuta di essere analizzato e formalizzato nei consueti tratti pertinenti e gerarchizzabili.
Questa Introduzione doveva terminare con una guida per il lettore: termina, invece, con un'apologia dell'antologista nei suoi riguardi. Non è colpa di altri, se non della casualità connessa al tempo che regola le vicende umane, se al momento delle mie attuali conoscenze gli scritti danteschi provvedono il grimaldello più efficace per scardinare il compatto dispositivo di cifrazione costruito dal Pascoli. Tutto il resto attende di essere conosciuto o approfondito (ed è un impegno preciso dell'autore di queste pagine proseguire nell'opera di esplorazione e allargamento dell'indagine conoscitiva)4: è un fatto che, in questo momento, sembra indispensabile spazzar via, nella maniera più clamorosa possibile, la spessa vischiosa resistente patina di superfetazioni critiche che si è venuta depositando su una produzione della quale sono state ignorate, o misconosciute, le intenzioni primarie e consapevoli. Qualunque modello critico, che non tiene conto della precisa, e sia pure implicita, volontà dell'autore è fatalmente destinato ad abbracciare l'aria, a cacciare la lepre col bue, a nuotare contro corrente. Perciò la massima ambizione di questa antologia non è migliorare la comprensione della poesia pascoliana (il filologo non può, non è capace di aspirare a tanto), bensì riprodurre con la maggiore approssimazione possibile ciò che il Pascoli - da una sola, beninteso, e non di necessità la più importante, delle sue tre scrivanie - avrebbe detto intorno alla sua opera complessiva.
«Oh! potessi evocare Dante!»; e «quanta sottigliezza non si deve invero a Dante!»; e «oh! sublime gioia, pensare il pensier di Dante!»: perché il dispositivo di decifrazione messo a punto negli scritti danteschi è lo stesso che il Pascoli ha immutabilmente e pervicacemente utilizzato per cifrare i suoi propri messaggi poetici. Ecco perché ci vorrebbe davvero una guida per il lettore, che sin dalla Prefazione a Myricae si trova alle prese con un codice che, solo desultoriamente impiegato in Myricae (a indiretta riprova della stratificazione che connota la raccolta), invade con massiccia protervia il proscenio dei Poemetti didascalici e diventa successivamente chiave imprescindibile a comprendere la poesia dei Canti di Castelvecchio e delle raccolte che seguono. Questa guida dovrebbe avere le caratteristiche di un manualetto di logica simbolica, e dovrebbe fare l'una di queste due cose: o spiegare alla buona, con approssimazione inevitabilmente correlata alla faciloneria e al ridicolo, che nel Pascoli il piccolo morto di M I due cugini e la piccola dama di CC Notte d'inverno sono funzionalmente una cosa sola, a prescindere dalla differenza di sesso; e che la maternità corrisponde a una benedizione di grazia e a un excessus mentis che è buono e non buono al tempo stesso; e che la donna amata è insieme sé stessa e un attributo dell'anima dell'amatore, perché è «l'uomo rimasto giovinetto», e dunque coincide anche con l'anima semplicetta di Marco Lombardo e col fanciullino. O, viceversa, formalizzare queste trasformazioni alla lunga, tutto sommato, prevedibili e predicabili (per esempio, il processo di base è l'oggettivazione ipostatica di un attributo inerente al soggetto o, al contrario, la sua reintegrazione in esso), e ridurle a un complesso di formule oppositive e correlative (giusta l'insegnamento del de Saussure, contemporaneo - non si dimentichi - del Pascoli), atte a visualizzare i rapporti tra simboli logico-matematici, ciascuno dei quali dovrebbe corrispondere a una singola unità categoriale formulata sulla base di un insieme di luoghi paralleli estratti dagli scritti danteschi.
L'una e l'altra operazione, per quanto possibile, avrebbe condotto - per vie antitetiche - a un identico risultato: quello di avvilire, surgelare, liofilizzare un'opera di cifrazione che è bello, oltre che istruttivo, osservare in fieri. Come si fa a irrigidire nell'unità della cifra, del simbolo, della formula un organismo così delicato, e così difficilmente vivisezionabile (ne sa qualcosa chi scrive, perennemente alle prese con tagli e cuciture e parentesi tonde e quadre) com'è la prosa esegetica del Pascoli? Senza contare che spesso, a prescindere dal dato concettuale, è la singola frase, la singola unità sintattica o lessicale a permettere riscontri sorprendenti quanto preziosi. Sì: è senza dubbio un'operazione indispensabile, che un giorno dovrà essere compiuta (insieme, tanto per fare un esempio, alle concordanze complete degli scritti danteschi): ma dopo.5 Per il momento mi è sembrato irrinunciabile procedere alla completa scomposizione e valorizzazione di un testo poco o niente conosciuto, e mostrarne parte a parte l'imprescindibilità e la suprema utilità a una corretta e rispettosa intelligenza del messaggio pascoliano.
Tutto questo to play my own part e giustificarmi di fronte alla comprensibile e inevitabile irritazione del lettore, che si troverà a confrontarsi con un oggetto tutto sommato noioso, oltre che apparentemente, e magari inutilmente, dissacratore. Ma no: se è possibile, per un momento, prescindere dall'autore di queste pagine, e dalle sue connaturali insufficienze e manchevolezze, proviamo a mettere a confronto il Pascoli col suo lettore ideale, candido sì, ma non troppo. Perché - mi creda il lettore - massima, e pressoché unica, cura dell'autore di questa antologia è stata di trasformarsi in una specie di cassa di risonanza, imperfetta quanto si vuole, della voce del poeta ricuperato come critico di sé stesso : o si preferisce l'immagine dell»evocazione', del trance? In questa impresa egli ci ha messo tutta la buona volontà possibile, affascinato e via via soggiogato da questa voce, che sorgeva in lui, infinitamente più alta e autorevole della sua. Ha rinunciato, prima senza accorgersene e poi per scelta consapevole, ai suoi personali strumenti metodologici e critici; e ha finito per dar fuori un commento nel quale senza dubbio non si riconosce; e poi si è domandato: ma che razza di commento è questo?
È un commento di tipo (grosso modo) esegetico, medievale, dove il senso allegorico e anagogico fa aggio - giusta le esplicite e reiterate formulazioni del Pascoli - sul piano letterale. E tipica dell'evo medio è la corrispondenza meccanica e generalmente univoca della parola con l'allegoria che la trascende. Se vi si impiega, per comodità, il termine di simbolo, questo ha il mero significato etimologico di ipostasi, di rappresentazione, non l'altro - familiare al pensiero moderno - di entità creatrice a livello metatestuale, la quale non perviene mai a esaurire in sé il patrimonio di significati di cui è di volta in volta investita. Le uniche deroghe a questa corrispondenza biunivoca e meccanica sono quelle autorizzate e definite dal Pascoli stesso, quando parla di «polisenso». Questo vuol dire che nel Pascoli i simboli non esistono ? No:6 ma vuol dire semplicemente che questo tipo di approccio è prematuro e prevaricatore, finché non si sia completamente circoscritta e definita nel suo complesso giuoco di rapporti interni questa compresenza di piani di lettura che il Pascoli ha inteso consapevolmente attribuire al suo messaggio. Prima di razionalizzarla, storicizzarla, superarla - che è pure compito irrinunciabile di una critica degna di questo nome - bisogna descriverla: vale a dire che la modesta fatica del filologo deve, in questo come in ogni altro caso, essere presupposta a qualunque costruzione di modelli interpretativi.
Modesta fatica, e ingrata anche, e per il filologo e per il lettore. Chi scrive si è sentito spesso costretto, anche oltre, anche contro la sua volontà, a riprodurre nel commento le caratteristiche più vistose, e magari meno digeribili, del Pascoli prosatore dantista: soluzioni para-logiche quali «E già», «E sì», «vede . . . che cosa?»; disquisizioni interminabili e improbabili (ma vere: vere per il Pascoli) sulla pertinenza di una parola; soprattutto ripetizioni continue, anche a breve distanza, degli stessi luoghi esegetici, a cui obbligava una duplice motivazione: il ritorno, anche stilematico, su sé stesso è caratteristica non secondaria del Pascoli dantista, e non ultima causa della scarsa seduzione che esso a prima vista esercita sul lettore; d'altra parte era impossibile, ma soprattutto privo di significato, ricorrere a citazioni tachigrafiche di un testo tuttora vergine da commatizzazioni di sorta e di una prosa come poche altre colloidale e vischiosa,7 e dunque ostinatamente restia al riassunto ed al taglio. Ma chi scrive, purtroppo, non si è limitato a riprodurre, amplificandoli, i difetti dell'esegesi pascoliana (che è pur bella a una seconda o terza lettura: donde l'ospitalità, doverosamente concessa, ad ampi lacerti di essa nell'antologia): li ha rincarati, perversamente, con l'inaudita prolissità di alcune introduzioni e il ricorso continuato a incisi, a parentesi tonde e quadre, a proposizioni che s'incastrano l'una nell'altra come scatole cinesi. Ne è consapevole: spera di trovare pietà, nonché perdono: ma non è stato capace di riprodurre per altra via la lucida complessità delle operazioni combinatorie che presiedono alla codificazione del messaggio pascoliano.
E di te che dire, improbabile e malcapitato lettore? Tu non sei più quello candido e ingenuo, nonché soave, che il Pascoli si augurava con la sua inconfondibile, bifronte ironia mascherata di lacrime e di pietismo, e che Mariù e i tempi gli hanno garantito fino a tutt'oggi: ché allora rimarresti pago al senso letterale, condito magari di certi svolazzi un po' liberty di cui è talvolta capace la critica moderna, e un'antologia come questa non sarebbe mai stata messa insieme. No, tu non sei più quello: ma forse non sei neppure (o non sei ancora: chissà?) il lettore ideale che l'altro Pascoli, quello esoterico, avrebbe desiderato, per farsi comprendere nello stesso modo in cui egli aveva compreso Dante («La chiave era nella toppa. Bastava volgerla»). E questi è indubbiamente un lettore di tipo medievale, allenato e disposto a gustare la poesia più per la sapienza che il poeta vi ha profuso, che per la bella veste che la ricopre. Ora Pascoli auspicava proprio questo: che alcuno si meravigliasse e commovesse nello scoprire quale profondo e insospettato patrimonio filosofico e morale si celi nell'apparente, innocua, scorrevole facilità e festività dei suoi versi. Questa dimensione medievale, ricuperata non nei suoi aspetti più esteriori e vistosi, ma proprio a livello profondo di Weltanschauung, di modo di pensare e di leggere e di fare cultura, è del resto - come il lettore, se avrà la pazienza necessaria, si accorgerà scorrendo questa antologia - la risposta più originale e geniale del Pascoli ai problemi terribili e viscerali posti dal suo tempo: è, per usare una terminologia comoda quanto generica e fallace, la medicina da lui proposta contro il decadentismo suo e dell'epoca.
Ma questo lettore ideale, dicevamo, non esiste . .. ancora. E con ciò si deve continuare a tenere la testa sotto terra, a chiudere gli occhi di fronte a una realtà irrefutabile per quanto scomoda, a lasciare fra parentesi uno degli aspetti più notevoli e centrali (per quanto, ripetiamo, non l'unico, né forse il più rilevante) della produzione pascoliana, a etichettare come ridondante e supervacaneo, e magari dannoso, ciò che nei suoi limiti è pur provvisto di una pertinenza innegabile? Io penso che la verità, ancorché ingrata e incomprensibile al momento, non debba essere mai nascosta, ma al contrario sbattuta in prima pagina, con una unilateralità di visione direttamente proporzionale alla cura e alla pervicacia con cui è stata finora pretermessa o nascosta. C'è tempo, dopo, a rettificare il tiro, a smussare gli angoli, a ridurre le inevitabili esagerazioni, ad arricchire e articolare un'immagine ora senza dubbio monolitica, schematica, oltranzista.
Per il momento mi sia concesso, a titolo di conclusione, esporre alcune impressioni personali, così, a botta calda, dopo un'esperienza scioccante e dirompente come poche. Chi scrive è un grandissimo ammiratore, un innamorato della poesia del Pascoli. Ora il suo mestiere lo ha cacciato nella posizione ingrata e scomoda di dover rispondere a un'accusa che è fin troppo facile prevedere. E l'accusa è questa: tu, a misura che venivi costruendo il tuo modello interpretativo, che non si sa come catalogare (magari un cumulo esasperante di glosse, di testi ripetuti e allineati l'uno di seguito all'altro, senza un minimo di elaborazione critica, e condito - tanto per cercare di renderlo più digeribile - di qualche indicazione di fonte non dantesca, ma pur sempre ricavata dall'una o l'altra antologia pascoliana, e di qualche schema para-strutturale sulle rime e i registri timbrici): tu sei rimasto ipnotizzato dalla compattezza e organicità di un modello che era il tuo, non quello del poeta, senza curarti che quest'ultimo ne uscisse ridimensionato sotto la specie di una complessità che è soltanto apparente («Infatti a un enigma oscuro e fumoso si ridurrebbe in parole povere la Divina Commedia, un enigma che non si può risolvere senza la sapienza di Edipo, dunque una cosa scioccherella abbastanza come sono tutti gli indovinelli»: singolare fortuna del Fraccaroli, grazie alla citazione pascoliana!); e, peggio che ridimensionato, ingiustamente crocifisso a questo aspetto marginale, e in fondo patologico, del suo pensiero, che non ha altro effetto se non allontanarci dalla comprensione di una poesia che, essa sì, esiste davvero, a dispetto di questa orripilante cappa di piombo che tu hai inteso sovrapporgli! Non bastavano il solipsismo stizzoso, lo psichismo per più versi sospettabile, il rapporto ambiguo con le sorelle, il destino di essere diventato il poeta della lacrima facile e della Cavalla storna, della famiglia morta e del nazionalismo?
Io, queste obbiezioni me le sono poste, e ho creduto di dover rispondere così. Che il modello critico sia parziale, unilaterale e perciò indebitamente riduttivo, l'ho detto: e aggiungo in tutta tranquillità che questo non è se non il primo capitolo di un'antologia pascoliana che solo fra un certo numero d'anni sarà possibile scrivere. Che il Pascoli proceda per operazioni di logica simbolica e di tecnica combinatoria è un dato di fatto da lui stesso infinite volte dichiarato : la compattezza e organicità del suo universo poetico appartiene alla realtà sua prima che al modello, il quale si sforza - infelicemente, questo sì, e parzialmente e unilateralmente - di rifletterla. Quanto all'affermazione che il Pascoli, nonostante tutto, resti un grande poeta, ardisco rispondere com'egli rispose al Fraccaroli: «D'altra parte tutto quel che di nuovo o non prima veduto, ho veduto io nel poema sacro, in che menoma le altre bellezze che tutti (e anch'io) vi scorgono? [. . .] Ci perde davvero Dante? O non piuttosto ci acquista ? ». Io non parlo, s'intende, della maggior o (piuttosto) minore adeguatezza di Dante come strumento per mediare il messaggio pascoliano: la scelta del Pascoli era obbligata (e che magari non fosse la migliore possibile la sapeva lui per primo, con la ricerca, che negli ultimi anni diventa quasi affannosa, di nuovi e più congrui modelli di cifrazione): ma una volta compiuta, si risolve per lui come per noi in un dato di fatto di cui è impossibile, oltre che antiscientifico, non prendere atto. Né parlo della suprema, straordinaria, ineguagliabile capacità di memorizzazione e combinazione: che può muovere al massimo l'ammirazione («quanta sottigliezza non si deve invero a Dante!»), non il consenso.
Io parlo di quanto profitto ha saputo trarre il Pascoli dalla gabbia dorata in cui, con lucida consapevolezza, si era da sé rinchiuso. A sapere che dietro la «vaporiera», che propelle la struggente revérie della «piccola dama» in CC Notte d'inverno, ben al di là della facile citazione carducciana, si profilano gli occhi infocati e l'ansito mostruoso di Caronte navicellaio; a sapere che nel decadentissimo, sospirato «dileguare» di Saffo vibra il tremore vitanovistico della canzone del « gabbo » ; a sapere che il « languido origliere» su cui posa la mammina morta di M Vagito è allusione coperta al languor naturae di sant'Agostino: a sapere queste cose, io dico, ci perde davvero il Pascoli? O non piuttosto ci acquista?
Non avrei esitazione a rispondere che ci acquista, e sotto diversi aspetti. Prima di tutto la dimensione allegorica, confermando con dati di fatto inequivocabili le intuizioni più felici della critica precedente, conferisce insospettata, direi muscolare robustezza specialmente alle membra più fragili, e al tempo stesso più vistosamente conosciute, della poesia pascoliana. Un distico come «O mamma, mammina, hai stirato / la nuova camicia di lino?» siamo abituati ad associarlo alla recitazione balbettante, sillabata, garrula di uno scolaretto dalla voce bianca: e il Pascoli è il primo responsabile di questo equivoco (la voce di Alfius fenerator). Il critico moderno, sensibilissimo a certe mistificazioni, fiuta qualcosa di torbido e ricorda, magari, un titolo (è una traduzione) come La carnicina del morto. Ma quel critico non ha più ragione di quanta ne abbia lo scolaretto: tutti e due riproducono, ciascuno per conto proprio, una sola faccia del poliedro; e a questo punto interviene la considerazione allegorica che, senza pretendere null'altro se non illuminare un lato ulteriore del «polisenso», discopre una profondità insospettata sollecitando il patrimonio esegetico connesso a quell'epiteto «nuova». Si potrà scacciarlo, questo esegeta pedante, come una mosca fastidiosa, e tornare a goderci la poesia proprio nella sua affascinante ambiguità di adulto che giuoca, con una punta di perversione, a fare il bambino : ma non sarà più come prima: ora quell'adulto malato di infantilismo e di necrofilia è diventato un «parvolo d'animo», ed è lo stesso che ha profuso pagine e pagine di sottile erudizione a spiegare che, in Dante, ira non s'ha da confondere con fortezza o con matta bestialità. Si pensa a quelle pagine, compulsate perché non se ne poteva fare a meno, e con un sentimento crescente di compassione mista a fastidio; e ci si accorge, come per una folgorante illuminazione, che il Pascoli altro non intendeva se non esorcizzare, non reprimendolo ma valorizzandone il lato positivo (la «fortezza» di Enea, la «virtus» di Orazio, 1'«amore» di Psyche, la «spinta vitale» di La messa d'oro rispondono a un identico sforzo di razionalizzazione concettuale, prima che terminologica), il morbo spirituale che devastava, prima che la sua stessa anima, l'Europa.
O proviamo, viceversa, a rileggere «il fiore ha come un miele / che inebria l'aria; un suo vapor che bagna / l'anima d'un oblìo dolce e crudele». Quanti ricami, quante chiose, quante prevaricazioni a carico di questi versi fascinosi! Quante parole a vuoto sul 'decadentismo' del Pascoli! Il quale, se potesse, così avrebbe risposto: ma non capite, ciechi che siete, che il miele è l'illuminazione della grazia, che sant'Agostino vuole figurata nella copia del latte materno; e che bagna allude al terribile excessus mentis provato dal Poeta nel passaggio dell'Acheronte; e che dolce e crudele è un oxymoron, e come tale carico di sovrasensi allegorici e anagogici, e che nella specie intende definire un'estasi maligna, cioè la morte nel peccato anziché al peccato? Ma quale decadentismo? Il lettore ha lasciato che il Pascoli parlasse; e lo storicizza, ché deve: ma non leggerà più la poesia allo stesso modo di prima. Il decadentismo, sì, c'è, ed anzi è più grande nel momento stesso in cui viene superato; e in cui il lettore si accorge come queste parole, che parevano trascinate sull'onda di una soffusa e morbosa melodia, acquistano all'improvviso giustificazione d'impiego e nitida lucidezza di contorni: come un obbiettivo finalmente messo a fuoco, che conferisce luminosità e contrasto dove prima si diffondeva un alone fluttuante e fastidioso (come sol ora è chiaro) alla vista, che impediva di distinguere i contorni.
La parola leggiera e nitida, pari a un'essenza troppo sottile per offendere ma troppo concentrata per volatilizzarsi: questo è il sigillo inconfondibile dell'arte pascoliana, quando - come spesso - attinge la perfezione. «È forse anco un'ora di giorno. / C'è nell'aria un fiocco di luna. / Come è dolce questo ritorno / nella sera che non imbruna!»: chi ricorda più che anco è garfagnino, oltre che italiano antico, e imbruna è un dantismo; che i versi sono tendenzialmente composti da bisillabi e privi di elisioni per l'occhio, secondo precisi dettami teorizzati dall'autore; che giorno: ritorno è rima-chiave in tutti i Canti di Castelvecchio. e che allude per linea diretta al mito dell'anima prigioniera nel carcere terreno, e del viatore dantesco che anela al riscatto spirituale? Eppure provate a ripensare come quei versi suonavano al vostro orecchio interiore prima che leggeste il faticoso commento esegetico: e vi accorgerete che erano meno belli, che mancava loro qualcosa. Chiamatelo, questo qualcosa, come volete: spessore, nerbo, incisività, dignità: sì, una dignità austera e virile dove meno era sospettabile; un messaggio ispirato a un umanesimo sui generis, un umanesimo medievale, ma originale, profondo, sofferto, altissimo soprattutto in rapporto all'epoca in cui è stato formulato. E anche tu, critico formalista e sensibilissimo ai puri valori stilistici e lessicali (l'invito è rivolto al sottoscritto), anche tu potrai imparare qualcosa d'importante. Tu non immaginavi quanta precisione e legittimità tecnica appartiene a quell'epiteto dolce, che all'inizio ti era apparso pascolianissimo perché inflazionato e lacrimoso; né quanto immane travaglio euristico si è lasciato alle spalle quel fiocco di luna, che all'inizio ti sembrava una metafora trita, tutt'al più una macchia di colore (anch'essa pascolianissima), e invece si rivela innovazione geniale di quel lume di luna o di grazia (perché è lo stesso) che tanto spesso ha ammantato di tedio la tua lettura degli scritti danteschi.
Ma parliamo ancora di dati minuti, formali, ché la questione - perché à la page - è di grande momento. « Dal mite / suo cuore, ora, senza perché, / fioriscono»: già: il perché non lo so neppure io, ironizzava il Croce. Per forza, avrebbe risposto il Pascoli se avesse inteso proseguire in quel dialogo tra sordi: è un perché, dal punto di vista e della poesia e tuo, dottrinale. «Dormivano. Sì: anche la sorella / piccina »: quasi un capolavoro, Suor Virginia - sentenziano i delibatori di poesia -, non fosse per queste continue, fastidiosissime ripetizioni che 'raffreddano l'ispirazione': ma già: sono i soliti, immedicabili difetti del Pascoli. E come difetti si potrà anche continuare a reputarli: ma non prima di avere inteso che l'anafora di Dormivano segnala uno scarto da un piano letterale a uno allegorico (Dante, più candidamente, invitava ad aguzzare la vista); che Sì è tanto un'interiezione di meraviglia (ma come: l'anima della suora era davvero così offuscata?) quanto, e soprattutto, un nesso para-logico usitato dal Pascoli esegeta; che l'enjambement (che il Pascoli, almeno a livello teoretico, intende riscattare dall'inflazione manieristica, deputandogli una funzione segnica ben precisa) a carico di piccina è, per la soave lettrice (la quale è «l'uomo rimasto giovinetto»), un particolare delicato e affettuoso, ma per il lettore completa la proposizione a livello allegorico (sì, in Suor Virginia anche l'anima sensitiva, oltre a quella intellettiva, era oppressa dal languor naturae dell'umana colpa). Quante geminazioni, interiezioni, particelle scambiate per vezzi irritanti, perché misconosciute nella funzione tecnica che il Pascoli annetteva loro!8 Lo strumento espressivo è scelto male, facile all'equivoco, infelice nella riuscita? Può darsi: come nel caso di Dante, questo e non altro passava il convento; ma intanto, non era stato compreso. «Lontano portavano i piedi / un cuor che pensava al ritorno. / E dunque tornai . . .»: dunque tornò, perché in cuore pensava al ritorno ? Ma in questo modo Pascoli verrebbe a dire ben povera cosa, come il suo Dante lasciato in balia del garrulo buon senso dei dantisti! No: dunque tornò perché, per quanto i sensi (i piedi) fossero stati sedotti e traviati da false immagini di bene, il cuore, cioè il θυμός, l'animo, l'appetitus era rimasto costantemente volto al suo sommo bene: dunque, passata la notte dei sensi, questa fedeltà, questa «discrezione» non poteva non riprendere il sopravvento. Quel dunque è la conclusione di un sillogismo.
Tutte le parole, provviste o no di significato autonomo, che il Pascoli usa, si rivelano frutto di una scelta precisa e spesso sofferta che le ha fatte preferire alle possibili alternative offerte dallo stesso paradigma. La parola è «lucida», anche se il «dolce verso» si incarica di dissimularla e diluirla; e spesso la facile cantabilità accresce (intenzionalmente) le possibilità di equivoco. C'è un equilibrio, che solo un grande poeta poteva raggiungere, fra le opposte determinazioni esercitate dalla cifrazione allegorica e dalle esigenze prosodiche e fonosimboliche, comprendendo in questo termine una messe di categorie (onomatopea, allitterazione e in genere le figure connesse al folclore verbale) che la critica moderna ha senza dubbio sopravvalutato, perché unilateralmente isolato. E un equilibrio analogo bisognerà supporre fra un notevole grado di automatismo raggiunto dal codice (di cui, a tacer d'altro, fanno fede la compatta parsimonia del rimario e la ricorrenza di simboli che l'autore di questa antologia, a furia di citazioni continuamente ripetute, ha non solo dimostrato, ma con ciò probabilmente spinto il lettore alla sazietà e al fastidio: ma tant'è: in lui - a differenza che nel Pascoli - didascalia e poesia non vanno a braccetto) e la quantità di scarto effettivamente innovativo che si deve riconoscere al singolo componimento. Passato il momento didascalico e polemico, bisognerà occuparsi di questo problema, cioè fare veramente critica pascoliana.
Ora, per venire al capitolo conclusivo di queste confessioni di un antologista, il Dante del Pascoli non è solo un laboratorio di allegorie e di trasformazioni simboliche: è, anche, Dante. E il Pascoli lo amava. È qui, se si vuole, che bisogna ricercare i limiti del Pascoli poeta in quanto dantista, cioè i sedimenti non precipitati che rischiano di intrudere nell'elaborazione poetica un grado, quale che sia, di vischiosità. Senza dubbio comunica un'indicibile emozione, ed anche un insolito piacere estetico, sotto l'immobilità silenziosa e sottilmente inquietante (da cimitero di campagna inglese) della lapide che copre le spoglie di Pia Gigli, percepire, attraverso le antenne sensibilissime con cui il Pascoli comunica con la natura, l'affanno oltremondano di Dante che comincia a vivere (proprio perché è morto) una sua esemplare, filosofica, moralissima, ma non per questo meno torbidamente suggestiva Life-in- Death. Invero questo Dante non è lui: è come lo sentiva il Pascoli. « Noi profondiamo nel miro gurge; e sentiamo il freddo e la vertigine dell'abisso. Noi scendiamo nel cupo del pensiero Dantesco [...]. L'aura che v'è dentro è aura morta. Per un pertugio tondo
si vede luce: pertugio di sepolcro»: il quadro è sollecitante come pochi, e probabilmente rappresenta una fedele trascrizione in termini iconografici dell'anima del Pascoli. Senza dubbio, durante il travaglio esegetico, egli ha accarezzato a lungo con la fantasia certe situazioni, certi paesaggi tipici come Dante che erra nella selva, illuminata da una luna che non si vede, senza trovare via d'uscita; o la notte del passaggio d'Acheronte, percepita attraverso cupi bagliori biblici; o il corteggio allegorico, sinistramente paludato ed enigmatico (quasi un delirio surreale), sulla vetta del purgatorio. Rispetto a tante poesie, le pagine degli scritti danteschi funzionano come autentici copioni scenici, anche a livello di particolari minuti.
Ma questo, dicevamo, è probabilmente il limite intrinseco al Pascoli dantista. Nonostante la sovrana trascendenza formalizzatrice con cui il Pascoli domina il suo modello, Dante non poteva ridursi a semplice laboratorio di strumenti allegorici e logico- simbolici, senza depositare residui di una notevole consistenza: e il primo ad esserne consapevole fu il poeta stesso, che nell'ultima sua produzione cercava in diversi modi di affrancarsene. Quell'aura morta è la stessa che si respira nella casa di Castelvecchio; quel pertugio di sepolcro è lo stesso dal quale il Pascoli vivente contemplava la realtà. La Commedia è assimilata a una grandiosa cattedrale, costruita con frammenti di tutte le epoche, e a cielo aperto: ma con tutto ciò la luna continua a restare invisibile, e l'aria che circola fra quelle pareti non è quella marina e balsamica della pineta di Chiassi. Pascoli sentiva alitare l'aura morta e fetida dell'Inferno nella brezza che faceva limpido il mattino primaverile di Itaca; e nel chiuso delle sue stanze respirava un «buon odor di rose e di cera».
1 Con il che si rivendica sin da ora la legittimità di un'analisi condotta (a prescindere dalla cronologia delle singole opere, per la quale ad ogni modo si rinvia alla Nota ai testi in appendice al tomo II) sull'intero corpus pascoliano, nel modo in cui l'autore intese organizzarlo, pur riuscendovi - com'è noto - solo in parte.
2 La teoria, come si vedrà nel primo dei Saggi pascoliani da pubblicare presso lo stesso editore di questa antologia, è elaborata fondendo insieme testi del glottologo Max Muller e del filosofo Herbert Spencer.
3 E ciò nonostante che la parte più antica del ciclo risalga al 1897-1898. Ma Pascoli lo mise in fondo alla raccolta, secondo una precisa intenzione comunicativa dalla quale - ripetiamo - non sarebbe corretto prescindere.
4 Quando scrivevo queste righe, alla fine del 1977, non avevo ancora iniziato il rastrellamento a tappeto della biblioteca di Castelvecchio : i risultati del quale, parzialmente annunciati nella Nota bibliografica e nell'introduzione a PD II Fanciullino, formeranno l'oggetto degli annunciati Saggi pascoliani.
5 Comunque, alla fine del secondo tomo, il lettore troverà fra l'altro un indice - provvisto degli opportuni rinvii - delle principali categorie dantesco-pascoliane impiegate nel corso dell'antologia.
6 Del resto il Pascoli per primo (come si vedrà nel secondo degli annunciati Saggi) definisce lucidamente il rapporto gerarchico tra metafora, allegoria e simbolo.
7 Per forza! Ora chi scrive sa che il Pascoli, in buona parte, se l'era costruita a tavolino: mettendo in pratica i dettami dello Spencer.
8 E che derivava in gran parte, come vedremo nella sede apposita, da un'imitazione della pratica parasillogistica della chria.