PELLEGRINI, Giovanni
PELLEGRINI, Giovanni. – Nacque a Milano il 28 settembre 1908 da Ernesto, detto Cesare, e da Angela Comi; suoi fratelli furono Giuseppe, Antonietta e Maria. Dopo il diploma di maturità scientifica al liceo Vittorio Veneto di Milano, nel 1926 si immatricolò alla Scuola per architetti civili del Politecnico di Milano, dove si laureò nel 1931 con un progetto di Piano regolatore di una zona extramura di un capoluogo di provincia sotto la guida di Cesare Chiodi. Ottenuta l’abilitazione all’esercizio professionale presso la Scuola superiore di Roma, nel 1932 si iscrisse all’albo degli architetti di Milano. Partecipò al concorso Boito dell’Accademia di Brera per la sistemazione del piazzale Musocco a Milano (secondo premio ex aequo) e al concorso per le chiese della diocesi di Messina (primo premio ex aequo). Nei primi mesi del 1933 si trasferì in Libia su incarico dello studio degli architetti Alberto Alpago Novello, Ottavio Cabiati e Guido Ferrazza per seguire il cantiere di costruzione della nuova cattedrale di Bengasi e il progetto di piano regolatore per Tripoli. Quindi aprì uno studio professionale a Tripoli ed esordì nel panorama dell’architettura italiana d’Oltremare con una ‘casetta minima’ e con una proposta di villetta per la Cooperativa Italia (Rassegna di architettura, V (1933), pp. 392 s.), nonché con due progetti per abitazioni coloniali esposti a Milano nell’ambito della V Triennale del 1933 (ibid., VI (1934), p. 280).
Nei primi anni di attività Pellegrini si occupò prevalentemente di architettura residenziale, dimostrando un vivo interesse per l’architettura libica e per il modello della casa araba, che offriva un esempio di adattamento al clima grazie a logge profonde, aperture protette e disimpegni con funzione di aeratori. Un interesse condiviso anche dall’amico Carlo Enrico Rava che, sulle pagine della rivista Domus, invitava a trarre ispirazione dalla tradizione libica nella ricerca di un’architettura coloniale moderna.
A questo periodo risalgono numerose realizzazioni a Tripoli e dintorni, dove la considerazione delle condizioni ambientali richiese grande cura nella disposizione dei locali e orientò la scelta di materiali e tinteggiature in funzione di un accordo anche cromatico con il paesaggio circostante (D’Amia, 2008). Ne sono un esempio villa Bonura e villa Burei (Rassegna di architettura, VII (1935), pp. 89-91; Fariello, 1935); casa a mare Zard, villa Salvi, realizzata in collaborazione con l’ingegnere Vittorio Agujari, e la casa per i fratelli Langabardi (ibid., VIII (1936), pp. 6-10). Alla prima metà degli anni Trenta datano anche il progetto per un caffè-ristorante sul lungomare Badoglio a Tripoli (Fariello, 1935; Godoli, 2005), l’adattamento della villa per il generale Rodolfo Graziani e numerosi edifici residenziali realizzati in collaborazione con amici ingegneri, cui Pellegrini spesso forniva, gratuitamente, idee e disegni per la composizione dei prospetti. Alla collaborazione con Francesco Bono si devono in particolare villa Corradi fuori Porta Gargaresc e alcuni edifici e appartamenti, tra cui le case accoppiate di proprietà Michelotti; al sodalizio con Roberto Moiraghi casa Bedri, casa La Vecchia, la casa del colonnello Baviera e una palazzina di fronte alla residenza del governatore (Rassegna di architettura, VIII (1936), pp. 396-403; Architettura, XVI (1937), pp. 801-813).
L’attività professionale in Libia non impedì a Pellegrini di intervenire nel dibattito architettonico della madrepatria, partecipando a concorsi di portata nazionale come quello per la facciata di S. Petronio a Bologna (1933-35) o quello per il nuovo Auditorium di Roma, dove si segnalò per la sensibilità nell’affrontare i problemi acustici (Rassegna di architettura, VII (1935), pp. 434-445). Pellegrini conquistò una crescente visibilità anche nel panorama dell’architettura coloniale, grazie alla partecipazione a eventi espositivi e alla collaborazione con riviste di settore. Nel 1935 fu curatore della mostra della Soprintendenza per i monumenti e scavi della Tripolitania allestita per la IX fiera di Tripoli (L’Avvenire di Tripoli, 15 maggio 1935, p. 2). Nel 1936 presentò due progetti di ambienti domestici alla X Fiera di Tripoli e fornì una documentata relazione sulla Tripolitania alla mostra sull’Architettura rurale nel bacino del Mediterraneo organizzata da Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel per la VI Triennale di Milano. Quindi intervenne sulle pagine di Rassegna di architettura con tre articoli che costituiscono un compendio delle sue posizioni teoriche.
Il primo testo, dedicato a L’architettura romana nell’Africa settentrionale (Rassegna di architettura, VIII (1936), pp. 345-348) richiama l’esempio delle antiche città mercantili della Libia che «preludono ai moderni concetti di zonizzazione» e ribadisce la continuità tra l’architettura romana e la tradizione araba della Tripolitania, in un momento storico – l’anno della conquista di Addis Abeba e della proclamazione dell’impero – in cui la retorica della romanità tendeva a imprimere all’architettura una svolta decisamente monumentale. Il secondo articolo, dal titolo Notizie sullo sviluppo urbanistico della Tripolitania (ibid., p. 368), segna l’allontanamento dalle posizioni di Alpago Novello, Cabiati e Ferrazza in materia di architettura coloniale. Nella critica al piano di Tripoli Pellegrini si mostra infatti contrario all’applicazione al contesto libico di soluzioni urbanistiche di matrice europea e dimostra una viva attenzione per il patrimonio architettonico e ambientale dei quartieri arabi, due principi che influirono nello studio per la sistemazione del centro di Homs. Il terzo contributo, il più noto Manifesto dell’architettura coloniale (ibid., pp. 349-367) costituisce invece l’ultima versione dell’intervento presentato nel giugno 1936 all’Associazione cultori di architettura del sindacato fascista architetti della Lombardia e pubblicato in occasione del Congresso nazionale degli architetti italiani tenutosi a Napoli nell’autunno successivo.
A dispetto del titolo, che lascia presagire l’esposizione di una teoria generale in forma programmatica, il Manifesto del 1936 – accompagnato da un ricco apparato fotografico dello stesso Pellegrini – si presenta come un prontuario di indicazioni pratiche tratte dell’esperienza e valide limitatamente al contesto nordafricano, dove la tradizione edilizia indigena offre un campionario di soluzioni funzionali volte ad attenuare gli effetti del clima e delle condizioni ambientali.
Pellegrini sostiene qui che «le abitazioni debbono seguire il tipo indigeno a cortile centrale, [...] a pareti prevalentemente chiuse nei lati al sole, a logge e terrazze sugli altri» e raccomanda l’impiego di pareti traforate, transenne e musciarabie. Analogamente consiglia che le abitazioni siano «aggruppate senza soffocanti ammassamenti nelle maglie della rete principale», che le arterie principali presentino «portici bassi di fornice» e «frequenti rientranze alberate», che le strade siano strette, a tratti coperte e «spesso sfalsate a camminamento». La filosofia progettuale che impronta tutto il Manifesto dell’architettura coloniale è infatti il rifiuto di posizioni folcloristiche in favore di un’impostazione funzionalista, per cui «tutte le soluzioni che la pratica delle costruzioni indigene dimostra efficaci [...] dovranno essere utilizzate fondendole risolutamente con tutto quello che la tecnica moderna insegna, e l’estetica moderna addita» (1936, pp. 349 s.).
Negli anni successivi Pellegrini proseguì l’attività professionale ampliando la tipologia dei temi affrontati e dimostrando attenzione alle diverse parti della città di Tripoli. Datano a questo periodo il progetto per la chiesa di S. Francesco e la sede della Siderurgia coloniale (Architettura, XVI (1937), pp. 800, 814), il progetto di concorso per nuove scuole, che si aggiudicò primo e secondo premio ex aequo (Case d’oggi, giugno 1938, pp. 80 s.), una proposta per il cinematografo delle Palme, il restauro del teatro Miramare e la ristrutturazione del cinema Alhambra, nonché la sede dei grandi magazzini UPIM (Rassegna di architettura, X (1938), pp. 415-426; Marconi, 1939). Nel campo dell’architettura residenziale si segnalano invece un complesso di case per impiegati a Homs e, nella capitale libica, villa Tinti e villa Puttaggio sulla riviera Umberto Cagni, le due ville per Attilio e Umberto Scaglione, la cosiddetta villa di quattro ville sul lungomare Badoglio e la casa ad appartamenti di corso Vittorio Emanuele (Marconi, 1939; Domus, febbraio 1940, pp. 40 s.; Rassegna di architettura, XII (1940), pp. 104-108).
Un importante capitolo dell’attività libica di Pellegrini riguardò la progettazione di alcuni centri rurali su commissione degli uffici delle opere pubbliche di Cirenaica e Tripolitania, nell’ambito della colonizzazione demografica intensiva degli anni 1938-39. A lui si devono in particolare il villaggio Baracca, i centri Corradini e Marconi e, in collaborazione con Umberto Di Segni, i villaggi Crispi e Tazzoli (Carbonara, 1939; Marconi, 1939; Rassegna di architettura, XI (1939), pp. 510-514).
Questi progetti gli diedero la possibilità di sperimentare le riflessioni sull’architettura araba sviluppate nel Manifesto dell’architettura coloniale, offrendo, in un periodo di forti retoriche nazionaliste, un esempio di sensibilità al dialogo con le culture e le tradizioni locali (D’Amia, 2011).
Nel 1939 Pellegrini elaborò, con Carlo Enrico Rava, il progetto di concorso per il piano regolatore di Verbania e l’anno successivo lo affiancò come membro esecutivo nella Mostra dell’attrezzatura coloniale allestita per la VII Triennale di Milano. Nel 1941 Alberto Sartoris ne riconobbe il merito pubblicando alcune sue opere – le sole selezionate in tutto il panorama dell’architettura italiana in Libia – nel suo repertorio dell’architettura funzionale (Sartoris, 1941).
Con l’occupazione inglese di Tripoli (gennaio 1943) Pellegrini rientrò in Italia. Nel 1945 partecipò con successo al concorso per case prefabbricate bandito dall’INA (Istituto Nazionale Assicurazioni) e nei primi anni del dopoguerra elaborò alcune proposte per Milano, tra cui un progetto di grattacielo in corso Sempione e la risistemazione dell’isolato d’angolo tra corso Italia e via Rugabella. Dopo la realizzazione della casa di via Carlo Porta, che fu oggetto di critiche sulla stampa milanese, si estraniò volontariamente dal dibattito architettonico di quegli anni, proseguendo un’intensa attività professionale nel settore delle costruzioni. Morì a Como l’11 maggio 1995.
Fonti e Bibl.: F. Fariello, Edifici a Tripoli. Arch. G. P., in Architettura, XIV (1935), pp. 150-155; A. Pica, Nuova architettura italiana, Milano 1936, p. 40; P. Carbonara, Recenti aspetti della colonizzazione demografica della Libia, in Architettura, XVIII (1939), pp. 249-261; P. Marconi, L’architettura nella colonizzazione della Libia. Opere dell’arch. G. P., in Architettura, XVIII (1939), pp. 711-726; A. Sartoris, Gli elementi dell’architettura funzionale..., Milano 1941, pp. 623-626; G.P. Consoli, G. P., in Rassegna, 51 (settembre 1992), pp. 58 s.; G.P. Consoli, G. P., in Architettura italiana d’Oltremare, 1870-1940, a cura di G. Gresleri et al., Venezia 1993, p. 376; E. Godoli, P. G., in Architetti e ingegneri italiani dal Levante al Magreb, 1848-1945: repertorio biografico, bibliografico e archivistico, a cura di E. Godoli - M. Giacomelli, Firenze 2005, pp. 269-273; G. D’Amia, The work of G. P. in Libya, in The presence of Italian architects in Mediterranean countries, Firenze 2008, pp. 79-89; G. D’Amia, L’urbanistica coloniale di G. P. e la pianificazione dei villaggi libici, in Territorio, 57 (2011), pp. 125-134.