PESARO, Giovanni
PESARO, Giovanni. – Nacque il 1° settembre 1589 da Vettore, del ramo di Rio Marin (detto anche ‘dal carro’), e da Elena Soranzo, ultimo fra quattro maschi; ebbe anche tre sorelle. La famiglia era dotata di ampie risorse finanziarie, come attestano le proprietà immobiliari e le rendite.
Sposò Lucia Barbarigo, figlia di Andrea, del ramo di S. Trovaso, e di Francesca Bernardo (da S. Tomà), di illustre casata e sorella del procuratore di S. Marco Giovanni. La coppia non ebbe figli e Pesaro non si risposò ufficialmente. Solo in tarda età probabilmente contrasse un matrimonio segreto con una domestica, Maria da Santa Sofia: la ricordò nel testamento, nel quale inserì una serie di clausole volte a proteggerla dall’ostilità degli eredi. Un legame, peraltro, destinato a procurare danni alla sua immagine pubblica anche nel momento dell’elezione a doge. Furono molti i componimenti satirici che, in quei giorni, ricordarono la ‘pazia’ del matrimonio tardivo, oltre che le vicende di un noto processo, che lo aveva visto imputato a seguito della sua condotta come comandante in capo dell’esercito veneziano contro quello pontificio nel 1643, durante la guerra di Castro. Pesaro era stato accusato della perdita di Pontelagoscuro e, soprattutto, di aver lasciato mano libera ai suoi soldati di saccheggiare lo stesso territorio veneto, nonché di essersi lui stesso impadronito di quadri e beni di valore.
Problemi con la giustizia non erano nuovi in famiglia. Uno dei fratelli di Pesaro, Leonardo, era stato bandito nel 1601 in seguito all’assassinio di una cortigiana favorita del nobile Polo Lion. Oltre al bando perpetuo, Leonardo era stato privato della nobiltà e dei propri beni. L’esilio durò quindici anni e alla fine Leonardo poté tornare in patria garantendo di armare e mantenere un centinaio di soldati, ma l’onore della famiglia ne aveva risentito.
Gli echi del processo del 1643 dovevano essere ancora vivi quando, due anni dopo, Pesaro si oppose in una situazione di netta minoranza, alla nomina del doge Francesco Erizzo a ricoprire anche la carica di capitano da Mar. Erizzo, in effetti, ormai ottuagenario, sarebbe morto prima di imbarcarsi e la lucida analisi di Pesaro – che aveva rimarcato la pericolosità di un accumulo di cariche e lo scarso aiuto che un capitano così anziano poteva dare alla causa – dovette contribuire a rialzare la considerazione pubblica.
Dotato di grande intelligenza politica – fu definito come l’uomo che «più di ogni altro rigira la macchina di questa Repubblica» (cit. in Signorotto, 1994, p. 415) – e rafforzato dal fatto di appartenere comunque a una famiglia di primo piano, ebbe una carriera brillante, che lo vide eletto prima savio agli Ordini, quindi di Terraferma. A partire dal 1631 fu eletto ripetutamente savio del Consiglio (per 24 volte), senatore, savio ai Confini. Nel 1624 ottenne il titolo di cavaliere da Luigi XIII e nel 1641 quello di riformatore dello Studio di Padova e soprattutto di procuratore di S. Marco de supra. Negli anni precedenti aveva sostenuto ambasciate delicate: in Savoia (1620-21), Francia (1621-24), Inghilterra (1624-26), distinguendosi per abilità diplomatica. L’ultima ambasciata, quella a Roma (1630-32), si concluse burrascosamente a causa di un incidente diplomatico con il prefetto di Roma Taddeo Barberini.
Nel 1631 un problema di precedenze aveva causato una rissa fra i famigli delle due parti. Barberini, volendo dare una prova di forza, era penetrato con uomini armati nella sede dell’ambasciata veneziana a palazzo Venezia e il Senato si era visto costretto a richiamare l’ambasciatore, interrompendo i rapporti diplomatici, che sarebbero stati riallacciati solo nel 1632. Pesaro ereditò dalla vicenda una profonda ostilità nei confronti della famiglia Barberini, che però non esitò a mettere da parte nel momento in cui sarebbe diventato politicamente utile per la patria.
Una parte rilevante dell’attività politica di Pesaro ruotò attorno alle vicende della guerra di Candia, tanto da influenzare anche le sue posizioni nei confronti di Roma. Nonostante possa essere definito «uno dei principali membri del partito dei ‘giovani’» (Gullino, 1994, p. 426), intorno agli anni Cinquanta in Pesaro si fece strada la convinzione che il papato potesse costituire un decisivo alleato nella lotta contro i Turchi e, superando l’anticurialismo che lo contraddistingueva, intensificò i rapporti con Roma. Originariamente ostile alla concessione del titolo di patrizi veneti ai Barberini, andò ammorbidendo la propria posizione tanto da non interferire quando nel 1652 essi ottennero il titolo. Dal 1655, con l’arrivo del nunzio Carlo Carafa in laguna, i rapporti si infittirono. Da feroce oppositore del ritorno dei gesuiti in terra veneta – assenti dall’espulsione del 1606 – Pesaro cominciò a sostenere la causa del loro ritorno. Ebbe occasione di approfondire direttamente la questione quando, nel 1655, fu inviato ambasciatore a Roma per felicitarsi con Alessandro VII della sua elezione al soglio pontificio. Tornato a Venezia, in sintonia con Carafa portò avanti una serie di iniziative che sarebbero sfociate nella decisione del Senato, il 19 gennaio 1657, con 72 voti favorevoli e 16 contrari, di riammettere i gesuiti. In cambio, Venezia aveva ottenuto l’intervento della Marina pontificia nel conflitto in corso per il controllo di Candia e ingenti aiuti finanziari. In fondo, come affermò lo stesso Pesaro cercando di convincere i senatori nel gennaio 1657: «con le congiunture si mutano gli interessi, e con gli interessi devono mutarsi le massime» (Signorotto, 1994, p. 419). In effetti, una volta ottenuto quanto pattuito, Pesaro ricominciò a dimostrare diffidenza e aperta ostilità nei confronti di Roma.
Nello stesso periodo a Venezia il dibattito se fosse più opportuno cedere l’isola ai Turchi si era riacutizzato. Alle accese discussioni in Senato sulla cessione di Candia, Pesaro aveva partecipato sin dal 1648, quando era savio del Consiglio. Nel 1656 e di nuovo, più marcatamente, nel 1658, il suo atteggiamento fu contrassegnato da intransigenza nei confronti della possibilità di scendere a patti con i Turchi, motivata sul piano politico dalla convinta affermazione della necessità di mantenere le proprie posizioni nel Mediterraneo per evitare guai maggiori in futuro e di perdere l’unico vero ‘regno’ che Venezia possedeva. Così, a fronte di un dibattito che sottolineava come perseverare nella guerra sarebbe stato come mettersi nelle mani del fato, la fazione capeggiata da Pesaro sosteneva con forza che Venezia avrebbe vinto o perso la guerra non tanto per il ruolo della ‘fortuna’, ma per la propria forza militare e strategica. Durante le discussioni del 1658 fece notare come «per una guerra di religione non mancheranno mai denari» e che erano stati compiuti troppi sacrifici per abbandonare Candia al suo destino. Qualche mese prima, le battaglie di Suazich e dei Dardanelli, in cui il capitano generale da Mar Lazzaro Mocenigo aveva perso la vita, avevano contribuito a creare «un mythe national de la résistance et de l’héroisme vénitiens» (Raines, 2006, 171). Oltre alla riconosciuta e nota eloquenza, che ancora quarant’anni dopo faceva circolare i suoi discorsi al Senato, Pesaro versò anche 6000 ducati alla Repubblica per la prosecuzione della guerra. A quel punto aveva ottenuto un consenso che il gruppo dei ‘pacifisti’ – capitanati dal doge Bertucci Valier – non poteva contrastare. Il 7 gennaio 1658 fu presa la decisione di continuare le operazioni belliche.
Valier morì il 2 aprile 1658 e a succedergli fu eletto proprio Pesaro, il 9 dello stesso mese. La sua elezione era evidentemente un segnale politico: il governo veneto decideva di appoggiare la prosecuzione di una guerra che a molti appariva già persa. Il nuovo doge fece in tempo a venire a conoscenza di alcune fortunate azioni del capitano generale da Mar Alvise Mocenigo, il quale era riuscito a prendere Calamata e a mettere sotto controllo i Dardanelli.
Pesaro morì a Venezia poco dopo, il 30 settembre 1659.
Nel 1665 iniziò l’erezione del monumento funebre nella basilica di S. Maria gloriosa dei frari, opera di Baldassarre Longhena e di Melchiorre Barthel. Era stato lo stesso Pesaro, nel testamento, a vincolare 12.000 ducati all’edificazione dell’opera, di cui si prese cura il nipote Leonardo. I lavori terminarono nel 1669. Nello stesso anno, Venezia perdeva definitivamente Candia.
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