PICCOLOMINI, Giovanni
PICCOLOMINI, Giovanni. – Figlio di Andrea di Nanni Piccolomini Todeschini e di Agnese di Gabriele Francesco Farnese, cugina di papa Paolo III, nacque a Siena il 9 ottobre 1475.
Il padre era nipote di Pio II, Enea Silvio Piccolomini, ex sorore, essendo figlio di Laudomia Piccolomini e di Nanni Todeschini. Andrea ebbe tre fratelli: Francesco, arcivescovo di Siena e poi papa Pio III, Antonio, primo duca d’Amalfi, e Giacomo, signore di Montemarciano e Camporsevoli in Valdichiana. Per volontà di Pio II anche Andrea fu, limitatamente al tempo della sua vita, signore di Camporsevoli. Andrea ricevette anche da Ferdinando d’Aragona la signoria ereditaria dell’isola del Giglio e di Castiglione della Pescaia lungo la costa meridionale toscana, a seguito dell’infeudazione del Regno di Napoli concessagli da papa Piccolomini. La generazione di Andrea e degli altri fratelli Piccolomini Todeschini visse uno dei momenti più importanti dell’affermazione della famiglia su scala nazionale, soprattutto attraverso la conclusione di importanti alleanze matrimoniali: Andrea legò i Piccolomini ai Farnese, Giacomo ai Colonna sposando Cristofora, mentre Antonio duca di Amalfi, capostipite della linea dei Piccolomini d’Aragona, si unì in prime nozze a Maria, figlia naturale di re Ferrante.
Giovanni fu il primogenito di quattro fratelli – Alessandro, Pier Francesco e, secondo la genealogia di Giulio di Francesco Piccolomini da Modanella, Bernardino, vescovo di Teramo e di Sessa – ed ebbe anche tre sorelle: Montanina, Vittoria e Caterina, protagoniste di importanti matrimoni all’interno dell’oligarchia senese. La giovinezza e la formazione di Giovanni restano nell’ombra per un periodo piuttosto lungo, almeno fino al settembre del 1501, quando, secondo Giovanni Antonio Pecci (Storia del vescovado della città di Siena, 1758, p. 347), era arcivescovo della sua città natale, anche se per altre fonti lo sarebbe diventato solo dal 1503 (Eubel - van Gulik, 1923, III, p. 297; Ughelli, 1718, III, col. 579). In realtà dal libro di debitori e creditori dell’Archivio arcivescovile di Siena (Fondo storico curia arcivescovile, 4265) la presa di possesso dell’arcivescovado risalirebbe addirittura al novembre del 1500. Senz’altro in quell’anno Giovanni affiancò lo zio Francesco come amministratore della metropolitana, fondando due nuovi canonicati sulle cappelle dell’altare di s. Tommaso (ibid., 1839). Mentre Pio III era morente, il padre Andrea e lo zio Giacomo si adoperarono invano per ottenere la berretta cardinalizia per l’ormai ventottenne Giovanni, ricavando dal pontefice soltanto un bisbigliato consenso, ma non la decisiva conferma scritta.
Fin dai primi anni della sua nomina ad arcivescovo, avvenuta sotto il pontificato di Alessandro VI, Giovanni dette prova delle qualità di moderazione, di ponderatezza nel giudizio e di un’evidente capacità di mediazione politica in un periodo in cui le vicende cittadine si svolgevano all’insegna di un’aspra conflittualità. Dal 1506 risiedette prevalentemente a Roma, forse nel palazzo di famiglia di fronte alla chiesa di S. Sebastiano, con il delicato compito di gestire nel contesto romano le strategie matrimoniali pianificate dalla madre, coordinandosi con Agnese Farnese per trovare i partiti più adatti ai fratelli Alessandro e Pier Francesco.
In questi negoziati Piccolomini godette della più ampia delega da parte dei fratelli, concertandosi con il banchiere Agostino Chigi che lo aiutò nella selezione delle spose e nella definizione degli accordi patrimoniali inseriti nelle scritte matrimoniali. La scelta della moglie di Pier Francesco dopo ripetute visite personali di Chigi, che ebbe ragione dei dubbi del banchiere – per la quale la futura sposa era troppo «piccolina all’età sua, magrella et seccarella. Non vorrei che fussemo qua poi noi dileggiati et che il marito non li avesse a voler bene» (Lisini, 1887, p. 13) – cadde su Francesca Savelli. Il matrimonio di Alessandro con Francesca Conti fu trattato da Agnese e dalla madre di Francesca, Caterina Conti Orsini: l’unione poneva problemi di consanguineità, dato che la nonna materna di Agnese Farnese era sorella di Napoleone Orsini. Le alleanze a Siena concernerono Vittoria che, seppur contro il suo volere e contro quello della stessa madre Agnese, sposò Borghese Petrucci, fratello del cardinale Alfonso e figlio di Pandolfo, che tenne la signoria di Siena dal 1512 al 1516. Le altre due sorelle Caterina e Montanina andarono rispettivamente in sposa ai patrizi senesi Lattanzio Tolomei e Sallustio Bandini.
Attivo a Roma nel gestire le strategie parentali del casato, Piccolomini fu anche un attento amministratore del patrimonio dell’arcivescovado, di cui avrebbe contribuito ad aumentare le rendite, grazie agli affitti a privati, a ordini religiosi e all’arte senese della lana.
Da un contratto del 1504 risulta l’acquisto per conto della Chiesa di numerosi beni e possessioni situati nell’ambito dei territori del feudo del vescovado da Pietro e Antonio Checconi. Nel 1528 l’arcivescovo avrebbe permutato alcuni beni della Mensa posti a Casale in Valdambra, ottenendo in cambio dai frati della certosa di Maggiano altre proprietà situate a Salteano in Val d’Arbia, ubicate nelle vicine Masse e di rendita considerevole e migliore rispetto ai terreni ceduti; i frati da parte loro ricevettero un cospicuo indennizzo delle migliorie fondiarie da loro effettuate (Siena, Archivio arcivescovile, Fondo storico curia arcivescovile, 4265). Piccolomini non trascurò neppure la cura spirituale dell’arcidiocesi: del 1506 è la visita pastorale compiuta dal vicario, il canonico e dottore Bernardino Turritano, testimoniata da una preziosa e analitica relazione (ibid., 20).
Tra il 1512 e il 1517 l’arcivescovo partecipò al Concilio Lateranense indetto da Giulio II, ma per tutti i nove anni del pontificato Della Rovere non riuscì a ottenere il cardinalato. Dovette infatti attendere il 1° luglio del 1517 per ricevere il cappello cardinalizio accompagnato dal titolo presbiteriale di S. Sabina, commutato poi con quello di S. Balbina. La dignità gli fu conferita da Leone X in una delle più eclatanti creazioni del tempo, con 31 nuovi porporati, tra cui figurarono Egidio da Viterbo, Tommaso De Vio, Giovanni Salviati, Francesco Pisani, Lorenzo Campeggi, Lodovico di Borbone, Silvio Passerini, Pompeo Colonna. Con la nomina di così numerosi e importanti porporati, il pontefice, come è noto, intese riformare profondamente il Sacro Collegio all’indomani della sventata congiura che aveva visto tra i protagonisti il cardinale senese Alfonso Petrucci. Piccolomini si era guadagnato il favore del papa Medici negli anni precedenti quando, a seguito di un’ambasceria svolta per conto della Repubblica, si era adoperato per favorire un’alleanza tra la Chiesa, i senesi e i fiorentini (Ugurgieri della Berardenga, 1973, p. 544).
La nomina del nuovo cardinale fu festeggiata a Siena con grandi dimostrazioni pubbliche per 15 giorni, mentre la Balìa, in sessione straordinaria, nominò 9 deputati che avrebbero portato le congratulazioni ufficiali a Pier Francesco e Alessandro Piccolomini, fratelli del cardinale. Sempre per celebrare l’elevazione al cardinalato venne dalla famiglia commissionato a Raffaello il famoso tondo Piccolomini, di cui a tutt’oggi sopravvivono soltanto alcune copie.
«Doctor egregius», come lo definì Novello nella sua vita di Leone X (Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 2273), Piccolomini godette di grande stima presso i contemporanei, che ne apprezzavano la dottrina e l’equilibrio. Sono queste le doti che caratterizzarono l’intera biografia del ‘cardinal delle lune’, come veniva chiamato in riferimento all’araldica familiare, e che giustificarono la continua azione di mediazione politica a cui Piccolomini venne chiamato, sia nei conflitti interni alla città natale, sia nei più delicati momenti della politica italiana del tempo. Come accadde nell’agosto del 1517, quando Piccolomini fu nominato legato a latere a Siena, mentre la città era minacciata dal duca Francesco Maria Della Rovere (Pecci, 1758, pp. 67 s.).
Lasciato come vicario della Chiesa senese Girolamo Piccolomini, vescovo di Pienza e Montalcino, il cardinal di Siena, come si firmava nella corrispondenza, si mostrò uno dei porporati più fedeli al partito imperiale, a detta dello stesso ambasciatore spagnolo Juan Manuel (von Pastor, 1908-1912, IV, 2, p. 5). Tra il 1517 e il 1523 ricoprì inoltre la carica di camerlengo del Sacro Collegio. Nel conclave del 1521 successivo alla morte di Leone il suo nome fu tra i papabili, anche se infine venne eletto Adriano di Utrecht, assente da Roma. Proprio il cardinal di Siena fu incaricato di andare a ricevere il neoeletto pontefice a Livorno, dove il 23 agosto del 1521 ne era atteso l’arrivo. L’incontro con il nuovo papa fiammingo non fu incoraggiante: i cardinali toscani Medici, Petrucci, Passerini, Ridolfi e Piccolomini (von Pastor, 1908-1912, IV, 2, p. 42) vennero infatti rimproverati da Adriano VI per essersi presentati in abiti mondani e con cappelli alla spagnola e non in abiti talari (ibid.). In seguito tuttavia Piccolomini riuscì a guadagnarsi le simpatie del pontefice, che in aggiunta alla sede arcivescovile che deteneva gli conferì il vescovado di Sion, nel Vallese svizzero. Alla morte del cardinale Raffaello Petrucci (1522), allora legato a latere presso la Repubblica senese, Giovanni ne ereditò la carica assieme alla ricca abbazia di S. Galgano presso Chiusdino, detenuta da Petrucci. È improbabile invece che Piccolomini abbia retto per un breve periodo anche l’arcivescovado di Pisa, come ritengono alcuni imprecisati testimoni (ASSi, Consorteria Piccolomini, b. 4, fasc. 1, c. 2v).
Dopo il breve pontificato di Adriano VI, il cardinale di Siena con Clemente VII continuò a godere del favore papale, operando come suo consigliere. Sostenuto da Carlo V che ne aveva avanzato la nomina ad amministratore della diocesi, da papa Clemente gli venne conferita nel 1523 l’amministrazione della diocesi dell’Aquila. Nel luglio del 1524 continuò il cumulo beneficiale ottenendo la diocesi suburbicaria di Albano, a cui aggiunse quella di amministratore di Umbriatico in Calabria, che tenne tra il 1524 e il 1531.
In questi anni, il vescovo di Albano (come più spesso si firmava), si adoperò da Roma in un’infaticabile opera di mediazione dei conflitti senesi, ribadendo costantemente ai signori della Balìa la necessità di orientare la politica della Repubblica lungo gli assi della «quiete e pace», un’endiadi che ritorna a più riprese nel suo carteggio con i magistrati. Secondo la visione di Piccolomini soltanto tenendo fermi questi obiettivi si sarebbe mantenuta la sopravvivenza del piccolo Stato senese nell’instabile quadro politico internazionale. Al contrario, il governo senese procedeva attraverso la drastica epurazione dei dissidenti e talvolta anche con la loro eliminazione fisica, mentre sul piano diplomatico non mancava di dar luogo ad aspre contrapposizioni lungo il confine dello Stato della Chiesa.
Così accadde nell’agosto del 1525, allorché nei pressi di Centeno, un piccolo centro vicino a Proceno, i vicini senesi avevano creato una nuova posta in località Casa Nuova, a un terzo di miglio dal ponte che segnava il confine tra la Repubblica e lo Stato della Chiesa. Le proteste romane presero inizio dopo una querela rimessa alla Camera apostolica dagli abitanti di Centeno in cui si accusava che la nuova stazione fosse di danno ai loro interessi e a quelli della Camera. La risposta degli ufficiali di Balìa di Siena ribadì con durezza che nel dominio senese essi «hanno autorità di fare come gli pare». Anche in questo caso il cardinale di Siena richiamò i suoi concittadini a una più intelligente moderazione: «bisogna alchuna volta et maxime in questi tempi haver certi rispetti di non dar causa ad qualche d’uno di qua d’autorità» (Archivio di Stato di Siena, Balie, 564, 43).
In questa visione più ampia e diplomatica delle forze in campo, nell’aprile del 1526 Piccolomini si adoperava presso la Balìa invitandola a uno sforzo di cooperazione internazionale, in particolare a sovvenzionare le richieste di aiuti in denaro mosse alla S. Sede dal re d’Ungheria, Luigi II Jagellone, di fronte all’inarrestabile avanzata di Solimano I, che di lì a breve avrebbe condotto alla disfatta di Mohács e alla morte dello stesso sovrano (ibid., 565, 60). Numerose furono infine le raccomandazioni avanzate da Piccolomini per giuristi di fama desiderosi di ottenere uno dei tre posti della Rota senese ogniqualvolta si fossero resi vacanti, ma anche per i suoi cortigiani, nonché per i più umili abitanti del contado che erano in attrito in vario modo con i giusdicenti locali e cercavano nel cardinal di Siena una voce attenta alla mediazione dei propri interessi (ibid., 563).
Fin dai primi anni della sua carriera da arcivescovo Piccolomini sembra quindi rappresentare di volta in volta un diplomatico per i signori di Siena, un consigliere nella faccende di governo, ma anche un mediatore tra le istanze dei pontefici e quelle della Signoria. Nel 1510 alla morte del signore, Jacopo IV Appiano, l’arcivescovo Piccolomini era stato invitato dall’erede Jacopo a recarsi a Piombino, insieme al fratello Pier Francesco signore della confinante Castiglione, per aiutarlo a gestire la fase delle successione. La richiesta del futuro Jacopo V ottenne l’approvazione di Pandolfo Petrucci, che in quell’occasione si giovò anche dell’opera di Alessandro Bichi (Archivio di Stato di Firenze, Miscellanea Medicea, 553). In seguito, da Roma il cardinal di Siena mantenne una vigile attenzione sulle vicende della sua città durante i burrascosi anni delle signorie dei Petrucci, e fu la sponda a cui si appoggiarono molti dei senesi vittime della politica governativa.
Piccolomini patrocinò tra l’altro le istanze degli eredi di Bichi, la cui ascesa politica si era posta come un’alternativa filomedicea al governo di Francesco Petrucci. Nel 1525 Bichi era stato eliminato in un agguato avvenuto negli spazi dell’arcivescovado, e di cui il presunto mandante era la Signoria (Archivio di Stato di Siena, Manoscritti, Sestigiani, cc. n.n.). Gli eredi di Bichi si rivolsero allora a Piccolomini per sostenere i loro interessi e quelli dei loro servitori presso gli ufficiali di Balìa e Piccolomini si adoperò con tenacia a loro favore: anzitutto prospettando ai suoi cittadini che i Bichi erano sotto la piena protezione di papa Clemente. In particolare suggerì che proprio ai Bichi, esposti con diversi creditori, venisse concessa la libera estrazione dei grani in modo da accrescere la loro solvibilità (ibid., Balie, 563, 79, 97). Metteva poi in guardia la Balìa da perpetrare attentati contro i senesi di stanza a Roma, come si vociferava, avvisando che simili iniziative sarebbero state considerate un attacco allo stesso pontefice Clemente VII (ibid., 563, 87). Piccolomini agì naturalmente da patrono dei propri parenti Farnese e Sforza di Santa Fiora: nel settembre del 1525 il cardinale Alessandro Farnese, di lì a poco eletto papa Paolo III, si era lamentato che i vassalli del conte di Santa Fiora fossero stati depredati dai senesi, e Piccolomini si fece carico di portare le rimostranze del porporato alla Signoria, non potendo mancare «da lo officio di bon parente» (ibid., 564, 62).
Non risedette pressoché mai nella sua diocesi negli anni del suo ministero arcivescovile, ma continuò a vivere a Roma. Lì rimase anche durante l’assedio e il sacco del 1527, subendone personalmente le conseguenze, nonostante fosse ritenuto uno dei cardinali più vicini all’imperatore e lui stesso nutrisse la convinzione che la provata fedeltà al partito cesareo lo avrebbe messo al riparo da rappresaglie sulla persona e sui propri averi. I soldati luterani lo costrinsero invece a versare un riscatto di 35.000 scudi, una quota uguale a quella del cardinal Andrea Della Valle, e inferiore ai 40.000 di Guglielmo di Enkevoirt e ai 45.000 di Alessandro Cesarini (von Pastor, 1908-1912, IV, 2, p. 266). Né gli furono risparmiati il saccheggio della casa e l’umiliazione di essere condotto per dileggio attraverso le vie di Roma a cavallo di un asino (Ugurgieri della Berardenga, 1973, p. 545).
Trascorsi i terribili mesi del sacco, nel luglio 1529 Piccolomini, assieme ai cardinali più ricchi del Collegio (Alessandro Farnese, Antonio Ciocchi Del Monte, Innocenzo Cibo, Ercole Gonzaga; von Pastor, 1908-1912, IV, 2, p. 418) a cui evidentemente ancora apparteneva, fu chiamato in causa da papa Clemente per sovvenzionare la guerra dell’imperatore Ferdinando I contro i turchi e fermare la loro marcia verso Vienna. Tornato infine a Siena, dove nonostante i suoi ripetuti sforzi non era riuscito a comporre i dissidi politici interni, rinunciò nel 1529 all’arcivescovado in favore del nipote Francesco Bandini Piccolomini. Nel settembre 1531 fu nominato vescovo di Palestrina e nel settembre del 1533 di Porto. In questo stesso anno a Siena presiedette alla consacrazione della chiesa dei Servi. Durante l’ultima fase della sua lunga carriera godé anche del favore di Paolo III, suo parente per via della madre Agnese, che gli conferì i vescovati di Ostia e di Velletri (febbraio 1535). In quello stesso anno papa Farnese lo nominò, con il cardinale Alessandro Cesarini, legato a latere a Carlo V, affinché si congratulassero con l’imperatore di ritorno dalla spedizione di Tunisi.
Decano del Collegio, morì a Roma nel novembre del 1537 a 62 anni, senza aver fatto testamento e lasciando incerta la trasmissione del patrimonio, che comprendeva anche le signorie di Castiglione della Pescaia e dell’isola del Giglio, appartenute al fratello Pier Francesco. Queste per mancanza di eredi diretti passarono al duca di Amalfi, esponente di un diverso ramo dei Piccolomini che aveva sposato Silvia Piccolomini, una figlia di Pier Francesco.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Miscellanea Medicea, 553, c. 275r; Mediceo avanti il Principato, 142, n. 47 (lettera di Piccolomini al cardinale Giulio de’ Medici, 29 giugno 1519); Siena, Archivio arcivescovile, Fondo storico curia arcivescovile, 20, 4265; Fondo del Capitolo della Cattedrale di Santa Maria Assunta di Siena, 349, ins. 120; 361, ins. 5; 619, 1839; Archivio di Stato di Siena, Balie, 563 (inserti 13, 26, 27, 50, 56, 72-74, 79, 85, 87, 89, 92, 97, 99), 564 (18, 29, 32, 43, 45, 61-63, 72), 565 (6,12, 21, 52, 60); Concistoro, 283 (5, 6, 30), 2081 (56, 74), 2082 (38), 2084 (69); Consorteria Piccolomini, 4, 5, 7, 8; Manoscritti, A. Sestigiani, Compendio istorico di sanesi nobili…, cc. n.n.; A. Lisini, Agnese Farnese Piccolomini. Lettere, Siena 1887, pp. 8-9, 12-13.
F. Ughelli, Italia Sacra sive de episcopis…, III, Venetiis 1718, coll. 81, 579; G.A. Pecci, Storia del Vescovado di Siena unita alla serie cronologica dei suoi vescovi, ed arcivescovi, Lucca 1748, pp. 346-348; Id., Continuazione delle memorie storico-critiche della città di Siena fino agli anni 1552…, II, Siena 1758, pp. 22, 66-68, 93, 238; L. Cardella, Memorie storiche de’ cardinali della Santa Romana Chiesa…, IV, Roma 1793, pp. 15-17; N. Mengozzi, Il feudo del vescovado di Siena, Siena 1911, p. 16; P. Litta, Famiglie celebri d’Italia, Milano 1819-1853, disp. 31; L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo…, IV, 1-2, Roma 1908-1912, ad ind.; C. Eubel - G. van Gulik, Hierarchia Catholica…, III, Monasterii 1923, p. 15; R. Grossi, Castrum Campus Silvae Historia, Città del Vaticano 1956, p. 50; C. Ugurgieri della Berardenga, Pio II Piccolomini. Con notizie su Pio III e altri membri della famiglia, Firenze 1973, pp. 543-545; C. Zarrilli, Farnese, Agnese, in Dizionario biografico degli Italiani, XLV, Roma 1995, pp. 50 s.; M. Gattoni, Leone X e la geo-politica dello Stato pontificio (1513-1521), Città del Vaticano 2000, pp. 208, 212.