PALESTRINA, Giovanni Pierluigi da
Musicista. Figlio di Sante di Pierluigi, e di Palma (Veccia?), nato in Palestrina nel 1525, data fissata da recenti biografi (Cametti, Weinmann), in base a deduzioni criticamente attendibili, convalidate da prove indirette. Il nome di battesimo del nonno paterno, Pierluigi, che figura come semplice paternità in Sante, è fissato quale nome di famiglia da Giovanni, il quale lo presenta talvolta anche nella forma latina "Petraloisio". Questo cognome patronimico di "Pierluigi" viene definitivamente mantenuto dal figlio Iginio e dai suoi discendenti, fino all'estinzione della famiglia (1677).
Il P. intraprese la sua educazione musicale in Roma, quale puer cantus della cappella musicale della basilica liberiana di Santa Maria Maggiore, dove si trovava nel 1537, con altri cinque compagni, allievo di Rubino Mallapert (un sacerdote francese, più tardi, dal 1540 al 1551, maestro di cappella della basilica vaticana) e forse, in seguito, scolaro anche di Roberto de Févin e di Firmino Lebel, maestri alla Liberiana, successori del Mallapert.
Nel 1544 ottenne il posto di organista e maestro del coro della cattedrale di Palestrina, con una paga equivalente alla prebenda intera di un canonico. Nel luglio 1547 sposava, sempre nella sua città nativa, la conterranea Lucrezia Gori, la quale portava una dote, compresi alcuni beni immobili, del valore di 130 fiorini.
Eletto al papato, col nome di Giulio III, il cardinale Giovanni Maria Ciocchi del Monte, ch'era stato per sette anni vescovo della città di Palestrina, e conosceva pertanto il talento precoce e le non dubbie prove di valentia mostrate dal P., questi, all'età di 26 anni (1° settembre 1551) otteneva l'importante incarico di maestro della cappella di S. Pietro in Vaticano, subentrando al suo primo maestro, il Mallapert; il quale dovette cedergli il posto, assunto dal P. non più con la qualifica di maestro dei ragazzi, ma con quella appunto, essendo egli compositore, di maestro della cappella. Al momento del suo ingresso, questa si componeva di dieci cantori adulti e di due ragazzi. L'onorario mensile era di dieci scudi, compreso il rimborso di quattro scudi per il mantenimento dei due ragazzi a lui affidati per l'istruzione.
Per mostrare pubblicamente la propria valentia e per ingraziarsi maggiormente l'animo del papa, il P. pubblicava, nell'autunno del 1554, il primo suo lavoro e lo dedicava appunto a Giulio III. Questo Primo libro di Messe ne contiene quattro a 4 voci e una a cinque, ed è stampato in grande formato (Roma, fratelli Dorich), con le parti disposte di seguito su ogni pagina.
È la prima opera di musica sacra offerta a un pontefice da un Italiano; nella breve ma significativa lettera di dedica, la quale mostra nel P. la piena coscienza del proprio valore e il desiderio di salire più in alto, egli fa notare che le composizioni sono state scritte di recente in uno stile alquanto elaborato (exquisitioribus rithmis cum cecinissem paucis ante diebus).
Il P., per mostrare in questo primo saggio la sua perizia nel contrappunto, ha fatto, nella Messa che apre il volume (e così pure nell'ultima, a cinque voci) una concessione alla scuola franco-belga e si è servito del sistema in uso di scegliere un canto gregoriano (in questo caso l'antifona papale Ecce sacerdos magnus), ridurlo a figurazione misurata con note lunghe, tutte d'eguale durata, e riprodurre tante volte di seguito questo brano, col suo testo originale, fino al termine della Messa, mentre le altre voci, attorno a quest'armatura fissa, formano la polifonia con altri temi, risposte e imitazioni, cantando il testo della Messa. Sua cura è di mostrare quanto fosse bene addentro nelle arti dei Franco-Belgi, anche per quello che riguarda la notazione, adoperando tempi maggiori e minori, perfetti e imperfetti, prolazioni ed emiolie.
Questo primo lavoro collocò di colpo íl P., non ancora trentenne, fra i primissimi e più esperti compositori dell'epoca. Il volume ebbe, fino al 1608, altre sei edizioni.
Tale pubblicazione servì a offrire l'occasione al papa per favorire il suo protetto e per farlo ammettere, con motu proprio del 13 gennaio 1555, tra i cantori della Cappella pontificia, senza che avesse luogo il prescritto esame e contro la volontà degli altri cappellani, essendo il P. coniugato, non avendo voce sufficiente per cantare ed essendo già il numero dei cantori molto superiore a quello di 24 previsto dai regolamenti. Ottenuta la carica cui mirava, e alla quale era annesso uno stipendio mensile di circa dieci scudi (nove ducati) aumentato di una buona metà per i proventi straordinarî, il P. dovette lasciare il posto di maestro della basilica vaticana, posto che fu assegnato a Giovanni Animuccia.
Morti peraltro, durante i mesi successivi, Giulio III e il suo successore Marcello II, e divenuto papa Paolo IV, questi concretò quelle riforme riguardanti il clero e le istituzioni dipendenti dalla corte pontificia ch'erano già state progettate dai predecessori; e con motu proprio 30 luglio 1555 stabiliva l'allontanamento dalla Cappella pontificia del Barré, del Ferrabosco e del Pierluigi perché ammogliati e perché la loro presenza non era necessaria, stante la debolezza della loro voce. Ad essi peraltro si concesse una pensione, vita durante, di sei scudi mensili.
Nel corso del medesimo anno 1555, il P. pubblicò la sua seconda opera, in cui diede saggio della propria perizia nel genere profano, il Primo libro di Madrigali a quattro voci (Roma, fratelli Dorich), dedicato a Bernardo Acciaiuoli, e contenente 23 madrigali (29 composizioni), di cui cinque su testo del Petrarca. Stile e tecnica sono affatto diversi da quelli adoperati per le Messe; il canto vi scorre gaio e leggiero, superficialmente espressivo. Dell'opera si conoscono nove ristampe, dal 1568 al 1605.
Il P. era rimasto privo di ogni carica, ma ottenne quasi subito, nel settembre 1555, il posto di maestro della basilica di S. Giovanni in Laterano, che si trovava allora vacante, cui era annesso lo stipendio mensile di sei scudi, più la ricompensa per l'istruzione di tre ragazzi cantori. Egli vi restò a tutto il luglio 1560, finché non abbandonò, sdegnato, l'ufficio stesso, insieme col figlio Rodolfo, puer cantus, a causa delle mutate condizioni finanziarie stabilite a suo svantaggio. Furono questi gli anni più tristi e penosi per il maestro, date le condizioni economiche miserevoli della città per effetto di guerre e di carestie.
Il 1° marzo 1561, succedendo ad Adriano Valent, il P. assunse la carica di direttore della cappella liberiana in S. Maria Maggiore, quella medesima basilica nella quale, più di venti anni addietro, aveva prestato la sua opera di piccolo cantore e aveva ricevuto la prima educazione musicale. Ebbe al solito lo stipendio di sei scudi mensili, più altri dieci per il mantenimento di quattro ragazzi. Egli fruiva ancora della pensione vaticana (sebbene nel 1561 fosse stato sul punto di esserne privato) per la cui cappella scrisse una Messa e due Mottetti (a 5 e 6 voci), opere assai notevoli (codd. sist. 38 e 39).
In questi anni (tra il 1561 e il maggio 1564) egli pubblicò la sua terza opera, una prima raccolta di 36 Mottetti a 4 voci per le feste di tutto l'anno, dedicata al famoso cardinale Rodolfo Pio di Carpi, opera la cui edizione principe è tuttora sconosciuta, ma che fu ristampata almeno nove volte, dal 1571 al 1622.
Nella dedica il P. attestava di avere elaborato quelle composizioni con vigile cura e forbito artificio, mettendo a contributo scienza, fantasia e sentimento; e con l'adoperare temi di nobile origine (per lo più spunti di canto gregoriano), ripudiando quelli tolti da canzoni popolari; per modo, infine, che l'opera riuscisse degna dell'ufficio ch'egli rivestiva, dell'arte sacra, dell'uso cui serviva e del momento in cui appariva; quando cioè il movimento di riforma stava acquistando sempre maggiore impulso e il Concilio di Trento s'investiva della questione relativa alla musica figurata nelle chiese. L'autore diceva il vero; questi Mottetti sono semplici e nobili, animati da un sentimento profondo, commoventi, espressivi; le parti si muovono con eleganza e sobrietà, il colorito delle voci produce i più svariati effetti; e per ottenere la necessaria varietà di ritmo, la polifonia si avvicenda con accordi omofoni, il tempo pari si alterna col dispari; cominciano qui ad apparire i famosi Alleluia del Palestrina, che sembra irraggino verso il cielo le gioiose grida di mille voci esultanti.
La lettera di dedica al cardinale di Carpi, uno dei più tenaci assertori delle riforme portate allo studio del Concilio di Trento, mostra quale interesse prendesse il P. alla restaurazione del canto sacro e con quanto zelo egli si adoperasse per contribuire a salvare, con la sua genialità e con l'esempio pratico, l'esistenza della musica figurata in chiesa, che correva pericolo di essere abolita, per gl'inconvenienti cui avevano dato origine gli abusi della scuola franco-belga: i principali erano che le parole del testo cantato non risultavano intelligibili per gli artifici e le astruserie di ogni genere cui si abbandonavano i compositori, o per la mescolanza stessa di testi diversi; e che il carattere delle composizioni non rispondeva al vero sentimento religioso a causa della profanità dei temi adoperati e delle licenze cui si abbandonavano estemporaneamente i cantori e, all'occorrenza, i suonatori messi a sostegno delle voci. Narra uno storico che, a persuadere i padri del concilio a sospendere il decreto sull'abolizione della musica figurata, giovasse l'esecuzione di una Messa del P. fatta cantare a Trento dal detto cardinale di Carpi, durante una delle ultime sessioni del concilio (novembre 1563).
Le proposte di riforma formulate al concilio ebbero la loro applicazione, per ciò che concerneva Roma e la Cappella pontificia, durante l'annata 1565, da parte di un'apposita commissione di cardinali. Oltre a effettuare il licenziamento di ben 14 cantori (poco meno della metà) per cause non soltanto di carattere artistico, essa esaminò il genere di musica in uso, ritenuto difettoso nel senso della scarsa intelligibilità delle parole. Fu allora che il P., per convincere Pio IV che, per rimediare al grave difetto, non era necessario allontanare la musica figurata dalle funzioni sacre (come quel papa opinava), presentò e fece eseguire, alla presenza dello stesso, tre messe scritte appositamente con quell'intento (contenute tuttora nel cod. sist. 22, da cc. 42 a 119) tra le quali era compresa quella intitolata più tardi Papae Marcelli.
A questo punto si deve ricordare che questa famosa Messa porta nel titolo il nome di Marcello II Cervini, perché questi, quando era ancora cardinale, aveva preso parte alle sedute del concilio di Trento fino dal suo inizio, ed era compreso della necessità delle studiate riforme, inclusa quella relativa alla musica sacra. Si apprende dal diario del Massarelli, intimo del papa, che questi, appena eletto (1555), celebrando le cerimonie della settimana santa, era rimasto sdegnato dai canti che la cappella pontificia aveva eseguito il venerdì santo, tutt'altro che adatti alla circostanza e con tutti i difetti già lamentati; e che aveva severamente rimproverato del fatto i cantori medesimi, tra i quali era certamente presente il P. L'ammonimento aveva spinto il P. a scrivere quella Messa per mostrare che si poteva comporre un lavoro grandioso e al tempo stesso chiaro e intelligibile nel testo, in uno stile animato dal più puro sentimento religioso. Ma la morte immatura di Marcello II, dopo pochi giorni di papato, aveva tolto al compositore l'occasione di presentare il suo appropriato modello, rimasto poi inedito fino al 1567, e impedito a quel pontefice di condurre a termine la vagheggiata riforma.
Il P. riuscì a convincere Pio IV che, pur mantenendo integre le forme dell'arte polifonica, il significato delle parole poteva risaltare chiaro ed evidente, e che quel canto così espressivo e commovente poteva riuscire di grande ausilio per l'esercizio del culto. Il P., dunque, come al tempo di Marcello II, si mise a capo della riforma voluta da Pio IV e dai suoi ispiratori. Egli vi si accinse non solo per seguire il consiglio di autorevoli personaggi, ma, fidente nel proprio ingegno, convinto della nobiltà della causa, invaghito della bellezza del suo ideale, impiegando tutto lo studio, tutte le energie e tutte le cure per il trionfo dell'arte musicale sacra. Egli additò la via che dovranno seguire i compositori e creò un modello di musica sacra, il quale, non solo per quei tempi, ma per sempre, si può considerare l'unico che corrisponda degnamente allo spirito e al carattere delle manifestazioni esteriori del culto.
Egli cominciava frattanto a raccogliere meritamente i frutti del suo talento e della sua fattiva attività. Nel 1565 lasciava la basilica di S. Maria Maggiore per entrare quale maestro al Seminario romano, fondato di recente, e ottenne di potervi collocare, quali alunni, i figli adolescenti Rodolfo e Angelo. Nel 1567 riacquistava stabilmente l'ambito posto di maestro dei concerti del cardinale Ippolito d'Este iunior, grande mecenate dell'arte musicale, ricompensato con sei scudi d'oro di onorario mensile, più il vitto e altro. In coincidenza con l'entrata al servizio di questo munifico principe, il P. pubblicava il Secondo libro di Messe, in edizione di lusso (Roma, eredi Dorich) contenente sette Messe, di cui quattro a 4 voci, due a 5 e una a 6 voci, che è la Papae Marcelli; composizioni che mostrano all'evidenza il profondo sapere dell'autore e la sua mano esperta nella tecnica più sviluppata e nel disporre gli artifici più complicati, il tutto temperato da un'indiscussa genialità di forma, che si rivela anche nell'opportuno avvicendarsi dei generi omofonico e polifonico e nella scelta dei coloriti vocali più svariati.
Come gli altri volumi di Messe, dedicati tutti a papi e sovrani, questo è offerto, con una significativa lunga lettera, a Filippo II di Spagna, sebbene il potente monarca fosse allora in contrasto col Vaticano. Si osserva in essa come il P. si sforzi di mettere in luce la propria personalità artistica e la propria attività a favore della riforma (è da ricordare che erano stati specialmente i vescovi spagnoli a difendere avanti al concilio di Trento la causa della musica figurata), ma anche l'importanza di quelle composizioni "se non le prime, certo le più felici".
Il P. mirava evidentemente ad allontanarsi da Roma, per il fatto che il momento (pontificato di Pio V) era poco favorevole allo sviluppo delle belle arti e della musica. Egli voleva passare al servizio di quella corte, come aveva tentato in quel tempo stesso (1567-68) di recarsi al servizio dell'imperatore d'Austria Massimiliano II; trattative, queste, che non riuscirono per le alte pretese del maestro (egli aveva chiesto, soltanto come onorario, 35 scudi d'oro al mese), che furono trovate esorbitanti.
Nello stesso anno 1568 cominciarono pure le sue relazioni con Guglielmo Gonzaga, duca di Mantova, durate per circa vent'anni, cioè fino alla morte del principe. Questi aveva studiato musica e si rivolgeva di tanto in tanto al P. per richiedere il suo giudizio sui proprî lavori o per domandare informazioni riguardanti cantori e suonatori, o addirittura per dargli commissione di scrivere Messe e Mottetti.
Frattanto la fama del P. si diffondeva sempre più e acquistava nuova luce con la pubblicazione, in quegli anni, di altre due insigni raccolte di pezzi sacri. Nel 1569 usciva il Primo libro di Mottetti a 5, 6 e 7 voci (Roma, eredi Dorich), dedicato, il 7 maggio, al suo protettore, il cardinale Ippolito d'Este, e contenente 33 Mottetti di cui alcuni in due parti (in totale 43 composizioni), tali da ingenerare profonda meraviglia e infinito diletto per la novità e la freschezza delle frasi, per la varietà continua nell'uso dei ritmi, per l'avvicendarsi della polifonia con l'omofonia, adoperata, questa, con grande abilità nella concatenazione degli accordi. Alcuni Mottetti (Viri Galilaei, Dum complerentur, O beata) furono giudicati impareggiabili e si chiudono con un festoso e sfolgorante intreccio di Alleluia, che mostra tutta la grandezza del genio del Maestro.
A questo volume seguiva, nei primi mesi del 1570, il Terzo libro di Messe, stampato anch'esso, in grande edizione di lusso, presso i Dorich, e dedicato, come il Secondo libro, a Filippo II di Spagna.
Nella lettera di dedica, la prosternazione dell'autore verso il figlio di Carlo V è espressa, anche questa volta, con frasi che rispecchiano, secondo l'uso del tempo, la più prona adulazione. Il P. rammenta in essa, con intenzione, il volume offertogli in precedenza e tiene a ripetere che queste opere d'ingegno e di perizia musicale erano state elaborate, come le altre, con studiato artificio, perfezionate e limate con non minore cura e diligenza, e composte secondo la maniera di cantare prescritta dalla Chiesa. Il volume contiene otto Messe a 4, 5 e 6 voci, che il P. ben a ragione ha definito "opera d'ingegno e d'arte". Ve ne sono inserite alcune che, per la tecnica adoperata, risalgono evidentemente a un periodo anteriore alla riforma del concilio di Trento, e questa scelta fa dubitare che il P. le avesse pubblicate nell'intento di ostentare la sua geniale e profonda perizia a coloro i quali, come fautori della vecchia dotta scuola, imputavano forse al P. di avere più fantasia che scienza e di voler preferire le più facili forme omofoniche alle studiate polifonie. Tra queste Messe quella elaborata sul tema L'homme armé si può considerare il capolavoro della scienza, il trionfo del genio che sa spaziare pure fra i limiti rigorosi imposti da un soggetto stabilito. Il volume contiene anche la nota Messa a 4 voci detta Brevis (perché il tema s'inizia con una nota di figurazione brevis), tuttora spesso eseguita.
Per la morte di Giovanni Animuccia, il P., dopo essere stato per alcuni anni lontano da ogni incarico pubblico, poté tornare finalmente, il 10 aprile 1571, dopo sedici anni di assenza, a capo della Cappella Giulia in S. Pietro, posto dove restò per tutto il resto della sua vita. La Cappella Giulia era composta di 15 voci, di cui sei soprani ragazzi, e di un organista. L'onorario era stato aumentato per lui a 130 scudi annui, più tre scudi mensili per il mantenimento di ciascuno dei quattro o cinque ragazzi allievi di canto; ma nel 1575 egli, minacciando di tornarsene a S. Maria Maggiore (dove gli avevano offerto 240 scudi annui), chiese e ottenne che fosse portato a 185 scudi.
Appena avuta la direzione dell'importante cappella, il P. lasciò il posto presso il cardinale d'Este e forse anche quello presso il seminario vaticano, e andò ad abitare, con la famiglia e i cinque allievi di canto della basilica, in una casa in piazza degli Scalpellini, poi della sagrestia di S. Pietro (nel luogo oggi ricordato da una lapide), casa ch'egli comprò nel 1573 per poco più di mille scudi. Egli conservava, tuttavia, la carica di compositore della Cappella pontificia, e a questa forniva appunto, nel 1571, due Messe a 5 e 6 voci, l'una saggio di abilità tecnica, l'altra libera di ogni vincolo scolastico.
L'anno seguente (settembre 1572) usciva il Secondo libro di Mottetti a 5, 6 e 8 voci, pubblicato a Venezia presso Girolamo Scotto (l'officina romana dei Dorich sembra si esaurisse nel 1572) in forma di parti separate.
L'opera rappresenta un nuovo passo del P. verso quello stile per cui la scienza serve solo a sostenere la libera ispirazione, e nel quale l'artista è guidato unicamente dall'intento di commentare le parole nel loro intimo significato, dando ad esso la massima espressione, sia con melodie patetiche, sia con effetti di sonorità. In questo caso anche le imitazioni sono trattate con sobrietà e quasi a rafforzare il senso emotivo. I quattro Mottetti a 8 voci sono i primi pubblicati dei sessanta ch'egli compose e costituiscono un esempio magistrale in questo genere a 8 voci fino allora imperfettamente trattato.
In quest'opera, contenente 44 Mottetti, il P. ne presentò quattro composti dal fratello Silla e dai figli Rodolfo e Angelo, tutti suoi allievi. La perizia tecnica risulta più solida in Silla; Angelo dimostra un temperamento più sensibile del fratello. Sono queste, oltre a un Madrigale di Rodolfo, le uniche composizioni conosciute dei congiunti del maestro, poiché essi morirono entro breve tempo. Rodolfo, suonatore di varî strumenti, e già scelto per proprio organista dal duca Guglielmo di Mantova, fu il primo a spegnersi, nel novembre 1572, all'età di 22 anni appena. Lo zio Silla lo seguì nel gennaio del 1573. Angelo, già ammogliato con una agiata fanciulla di Palestrina, Doralice Uberti, e padre di due bambini, moriva a 24 anni nell'epidemia del 1575.
Un Terzo libro di Mottetti a 5, 6, e 8 voci seguì in breve il Secondo libro e fu pubblicato nel settembre del 1575 dall'erede Scotto in Venezia, dedicato al duca di Ferrara Alfonso II d'Este, fratello del defunto cardinale Ippolito. Il volume comprende anch'esso 44 composizioni di cui sei a 8 voci.
Uno dei mottetti a 6 voci, Accepit Jesus calicem, porta un canone con due risoluzioni e il principio del pezzo fu riprodotto, con intenzione, sul ritratto a olio del P. conservato nella Cappella pontificia, che rappresenta il maestro in atto di comporre. I brani a 5 e 6 voci, tolto qualche cospicuo saggio, sono in genere inferiori a quelli di simile mole contenuti nel precedente volume; la chiarezza della struttura, la semplicità negli artifizî, la naturalezza delle melodie non valgono a nascondere una tal quale freddezza dell'espressione e a compensare la debolezza dell'estro vivificatore, pur restando superiori, per valore, alle produzioni dei maestri precedenti o contemporanei. I Mottetti a 8 voci sono invece superiori agli altri stampati in antecedenza e si possono ben dire figli del genio più che della scienza; è ammirevole il gusto squisito con cui vengono alternati i gruppi delle voci e l'originalità con la quale sono, a volte, combinati. Ma il capolavoro dei Mottetti a due cori è il Surge illuminare Jerusalem, una pittura michelangiolesca, un quadro d'impressionante grandiosità, dove ogni concetto del testo è presentato con la più vera e appropriata espressione. Il volume fu ristampato tre volte, ma gli esemplari ne sono rarissimi, come si può dire sia avvenuto per il Secondo libro.
Trascorsero intanto quasi sei anni prima che il P. potesse tornare a stampare altre sue opere. Circa la sua attività durante questo periodo, si sa che egli ebbe a scrivere non meno di dieci Messe per commissione del duca Guglielmo di Mantova, avendo preso impegno, data la sua facile rapidità nel comporre, di spedirgliene una ogni quindici giorni, come infatti avvenne tra la fine di ottobre 1378, quando egli era appena uscito da una grave malattia, e la metà di marzo del 1579.
In quel medesimo tempo il P. aveva ricevuto da Gregorio XIII l'incarico per un lavoro di grande importanza e responsabilità: l'emendazione del testo musicale del canto ufficiale della Chiesa. Per seguire le decisioni del concilio di Trento sulla riforma dei testi liturgici, confermate da Pio IV nel 1564, era stata incominciata, nel 1568, la revisione dei due libri principali della liturgia, il Breviario e il Messale. Si rendeva quindi necessaria anche la revisione dei libri di canto gregoriano, non solo perché le melodie fossero emendate dagli errori e dagli abusi introdotti attraverso le varie ristampe e copie manoscritte, ma anche per stabilire finalmente un'unica lezione che rivestisse carattere ufficiale. Il progetto fu concretato al tempo di Gregorio XIII, nel periodo più favorevole a simili riforme. Il personaggio che aveva a cuore la questione del canto liturgico era il cardinale Guglielmo Sirleto, protettore e amico del P., e l'incarico di "purgare, correggere e riformare" il canto della chiesa (Antifonario, Graduale e Salterio) fu a questo affidato (insieme con il valente compositore romano Annibale Zoilo) con breve pontificio del 21 ottobre 1577. Il lavoro doveva consistere nel liberare il canto gregoriano dai barbarismi (confusione di note e sillabe brevi e lunghe), da oscurità e contrarietà (casi di dubbia lettura) e da superfluità (incertezza nella collocazione del testo sotto i neumi). L'intrapresa destò subite gelosie e cupidigie (l'affare si mostrava fortemente lucroso per l'editore), creò tenaci avversarî e suscitò serî contrasti e ostacoli, specialmente da parte della Spagna. Il P. e lo Zoilo iniziarono il lavoro, che si erano diviso a metà, a cominciare dal Graduale; del primo si sa ch'egli giunse a compimento del lavoro. L'opera però non venne allora in luce e i due collaboratori, visto sospeso il progetto e svanita ogni speranza di compensi, cessarono il lavoro. È noto che la parte eseguita dal P. procurò, dopo la sua morte, gravi angustie e una lunga lite in tribunale al figlio Iginio.
Nel luttuoso contagio del 1580 il P. restò privo (22 agosto) della moglie. Egli pensò dapprima di dedicarsi al sacerdozio, prese il clericato e fu favorito dal papa con un posto di "beneficiato" nella cattedrale di Ferentino. Ma poi preferì passare a seconde nozze con una giovane e agiata vedova romana, Virginia Dormoli; ciò che avvenne (28 marzo 1581) appena sette mesi dopo la morte di Lucrezia e quando il P. già contava 56 anni di età. La Dormoli era proprietaria di una ricca bottega di pelliccerie, del valore di 1500 scudi. Col secondo matrimonio migliorarono dunque le condizioni di fortuna del P. che gli permisero, in maggiore misura, la divulgazione delle proprie composizioni. È precisamente dal 1581 che ricomincia e prosegue senza interruzione la serie delle sue pubblicazioni. Se nel corso di 25 anni (dal 1554) egli era riuscito a dare in luce soltanto otto volumi, dal 1581 alla sua morte, in tredici anni, poté stampare quattro libri di Messe, tre di Madrigali, tre di Mottetti, due di Offertorî, due di Litanie, uno di Lamentazioni, uno d'Inni e uno di Magnificat, in totale 17 volumi con 320 composizioni, comprese 30 Messe.
Sotto il titolo di Madrigali a 5 voci, pubblicò nel 1581, con i tipi del Gardano di Venezia, una raccolta di 26 composizioni che chiamò "Canzoni spirituali", sopra testi che esprimono concetti e sentimenti di pietà. I primi otto Madrigali rivestono di musica altrettante stanze della nota canzone del Petrarca, Vergine bella, che di Sol vestita. A parte l'abilità consueta nell'intreccio delle parti e la disposizione dei coloriti, il P. ha prediletto una forma dall'aspetto semplice, quasi dialogata, e uno stile che sta fra la polifonia classica e l'omofonia con effetti armonici; ma vi si cercherebbero invano slanci di passione o di alto lirismo e frasi di ampio respiro. Il volume è dedicato a Iacopo Boncompagni, stretto congiunto di Gregorio XIII, del quale il P. frequentava le riunioni letterarie.
Allo stesso principe il P. dedicò il Secondo libro di Mottetti a 4 voci, di cui non si conosce l'edizione originale, molto probabilmente pubblicata nel 1583. L'opera contiene 30 composizioni (il cui testo è ricavato da Responsorî, da Salmi e da Antifone in gran parte in lode della Vergine) e molti di questi Mottetti presentano ricercate combinazioni foniche, specialmente di voci bianche, con speciali impasti di colorito. Risuonanti di dolcezza infinita, rifulge in essi la genialità dell'autore in tutta la sua singolare potenza creativa (come in quel capolavoro di espressività ch'è il noto Super flumina Babylonis). Con ricchezza d'ispirazione nei temi liberi, raggiungono la più elevata perfezione artistica e ogni brano rappresenta un saggio di bellezza ideale. Nel contempo usciva il Quarto libro di Messe, offerto a Gregorio XIII stesso, con una lettera di dedica che tendeva a mostrare al pontefice i sentimenti di profonda religiosità del compositore e a metterne in rilievo, sebbene sotto il velo di un'ostentata modestia, la valentia e l'operosità. Il volume contiene quattro Messe a 4 voci e tre a 5 voci, scritte in uno stile puramente religioso, limpido, scorrevole, omofonico nei Gloria e nei Credo, polifonico nelle altre parti. Le Messe non sono distinte da alcun titolo speciale, ma alcune di esse, più tardi, presero quello delle parole del tema servito di base, e così furono distinte con i nomi di Lauda Sion, Gesu nostra redemptio, O magnum mysterium: commovente, questa, nella sua voluta semplicità.
Nel 1583, nell'occasione che il duca Guglielmo Gonzaga di Mantova intendeva cambiare, per ragioni evidentemente estranee all'arte musicale, il proprio maestro, il quale era Francesco Soriano già allievo del P., questi mostrò il suo vivo desiderio di passare a quella corte per allontanarsi da Roma, a causa delle difficili e anormali condizioni di vita, in quel momento, di questa città. Ma le pretese del P. erano troppo gravose per il duca; si trattava di vitto e alloggio per sé e per sei persone di famiglia, più un onorario di 200 ducati all'anno e il rimborso delle spese di viaggio. Pertanto il Gonzaga preferì continuare a servirsi del Soriano.
L'anno seguente, coi tipi del Gardano di Venezia, usciva (aprile 1584) quella mirabile opera che è il volume di Mottetti composti sulle parole del Cantico di Salomone, opera di valore tale da assicurare da sola l'immortalità all'autore, vero poema vocale, in cui vibra al più alto grado la fantasia geniale del musicista.
Il poema è inquadrato da 29 brani a 5 voci, lavorati, come dice l'autore, con uno stile aliquanto alacriore. La continua varietà di concetti è espressa con un'apparente semplicità di mezzi che muove a meraviglia: affetti teneri e sereni, implorazioni, dolci malinconie, estasi, ardori e languori amorosi, risonanze di pugne, evocazioni di pace, esaltazioni di bellezze. La polifonia è quasi assente, il giro delle imitazioni, o meglio lo scambio delle frasi melodiche tra le parti, serve a dare più vibrante efficacia al dialogo; l'armonia vi regna sovrana, vestita di smaglianti colori e ricca d'inaspettate sorprese foniche. Il favore col quale fu accolta quest'opera è dimostrato dal fatto che nel termine di vent'anni si susseguirono di essa ben dieci ristampe.
Quasi insieme con questo volume di Mottetti a 5 voci, e cioè nel luglio 1584, uscì il Quinto libro di essi, stampato dal Gardano di Roma e contenente 28 composizioni; fu dedicato al neo-cardinale, il giovanissimo principe Andrea Báthory, nipote di re Stefano di Polonia (venuto a Roma per cause politiche). La ragione di questa dedica stava nel fatto che il P. non trascurava alcuna occasione per raggiungere un'eccellente posizione presso qualche corte estera.
Ai Mottetti di carattere vivace, festoso, e ricchi di movimento nel ritmo e nella figurazione, si alternano quelli soavemente delicati, oppure ripieni di dolore e tristezza; alcuni toccano la perfezione per la geniale semplicità e per l'espressività commovente delle frasi melodiche; come, ad es., il celebre e noto Peccavimus.
Nel giugno dello stesso anno 1584 era sorta in Roma, quasi contemporaneamente alla Compagnia dei pittori in San Luca, la Vertuosa Compagnia dei musici, mantenutasi sempre attraverso i secoli e oggi Accademia di Santa Cecilia. La compagnia era stata creata più allo scopo della mutua assistenza che per proteggere l'esercizio dell'arte; peraltro fu avversata subito dalla Cappella pontificia, i cui componenti si rifiutarono di farne parte e punirono anzi i colleghi che lo tentarono. Nel 1589, allorché la compagnia fece stampare una raccolta di Madrigali, il maestro di cappella di essa era Felice Anerio; tra i 19 compositori rappresentati in quella raccolta, e che sono i più rinomati musicisti del tempo, figura il P., il quale fu tra i soci fondatori e dovette senza dubbio ricoprire, una o più volte, la maggiore carica.
Frattanto egli continuava a fornire alla Cappella pontificia sue composizioni, come le quattro Messe a 6 voci contenute nel codice ricopiato sul principio del 1585. Poco dopo, con la morte di Gregorio XIII, il P. perdeva il suo più grande protettore. Eletto Sisto V, egli tentò di farsi nominare "maestro a vita" della cappella stessa, la quale, a differenza di tutte le altre, non aveva per capo un direttore tecnico, ma dipendeva, per la disciplina, da un prelato estraneo all'arte. Scoperti i maneggi segreti del P., il collegio dei cantori non solo avversò il progetto, ma punì coloro che avevano cercato di favorirlo. Un anno dopo, Sisto V emanava la bolla In superna del 1° settembre 1586 per riformare il collegio dei suoi cantori; si aboliva la carica di prelato direttore e si affidava l'andamento della cappella non a un maestro fisso, bensì per turno e per la durata di un anno, a un cantore scelto tra i più anziani. Con tale disposizione il P. perdeva ogni probabilità di ottenere l'ufficio tanto desiderato, e nella sua qualità di semplice aggregato, non poteva nemmeno avere la possibilità di essere nominato maestro pro tempore.
Durante il pontificato di quel papa egli fornì alla Cappella pontificia otto Messe a 5 e 6 voci. Nel 1586 (in aprile) il P. dava in luce il Secondo libro dei Madrigali a 4 voci (Venezia, erede di G. Scotto), che seguiva, dopo trent'anni, il Primo libro di tale genere, dedicandolo a G. C. Colonna, principe di Palestrina.
L'opera contiene 25 composizioni, vivaci e scorrevoli, sopra testi presi anche dal Petrarca, alcune ricche di motivi facili e spigliati, arieggianti la canzone popolare, altre più descrittive e sentimentali, come i Madrigali, ad es., Alla riva del Tebro o I vaghi fiori, divenuti assai noti.
Di un genere affatto diverso da quello dei Mottetti è il canto delle Lamentazioni di Geremia, che fanno parte delle funzioni vespertine della Settimana Santa. Il P. le mise in musica non meno di quattro volte; tre "mute" restarono inedite durante la sua vita e fra queste si annoverano le Lamentazioni esistenti nel prezioso autografo, il solo musicale che di lui si conservi e che costituisce il codice 59 dell'archivio lateranense. Un Primo (e unico) libro fu stampato dal Gardano di Roma nel 1588 e dedicato a Sisto V, con una lettera che è un insistente appello alla liberalità del pontefice. In questo saggio egli distribuiva, con oculata varietà, il numero e la qualità delle voci, trovando, nelle larghe frasi armoniose, ineffabili accenti di dolore.
Quel pontefice incoraggiò certamente il P., se questi, nei primi mesi del seguente anno 1589 (16 aprile), tornava a offrirgli un'opera ancora più grandiosa, stampata in edizione di lusso, la quale comprendeva una raccolta di 45 Inni a quattro voci, proprî per tutte le festività dell'annata. Nella dedica l'autore faceva notare che l'obiettivo cui egli mirava non era di fare della musica per sé stessa, ma quello di commentare con espressioni appropriate e con melodie e armonie adatte, il valore e la dignità delle parole e dei sentimenti contenuti nei testi sacri, per potere facilmente eccitare l'animo dei fedeli alla pietà.
Questi Inni erano stati composti dal P. durante il corso del suo magistero alle cappelle Lateranense e Giulia, fino a tutto il 1581. Gli autografi dei primi 35 stanno nel citato codice del Laterano. Il testo è posto in musica soltanto nei versetti dispari e in quello di chiusa, quest'ultimo ampliato sempre a 5 e 6 voci. G. Baini loda con entusiasmo il contenuto di questo volume; e veramente si resta compresi di commossa meraviglia nel vedere con quanto sottile ingegno, con quanta scienza e fantasia di combinazioni contrappuntistiche il P. abbia sviluppato le melodie gregoriane proprie di ogni inno, e nell'ammirare le modulazioni ricercate gli originali toni di colore nell'impasto delle voci, e la dolcezza, l'espressività e la nobile grandiosità dello stile. Del volume furono fatte almeno altre quattro ristampe in edizione meno costosa. Una quinta ristampa in-folio, del 1644, contiene il nuovo testo secondo il Breviario del 1631.
La pubblicazione successiva, ch'ebbe luogo nell'aprile 1590, fu il Quinto libro di Messe a 4, 5 e 6 voci, in elegante edizione, a spese di Giacomo Berichia, stampata dal Coattino di Roma in grande formato, a tipo di libro corale. Questo quinto libro comprende, al solito, quattro Messe a 4 voci, due a 5 e due a 6 voci, tutte distinte da un titolo che richiama il soggetto scelto per tema. Di questa raccolta sono le Messe tuttora ben note, Iste Confessor e Aeterna Christi munera, chiare e trasparenti nella trama e di un'esecuzione facile e d'effetto. Il volume è dedicato a Guglielmo V duca di Baviera, il quale manteneva a Monaco una cappella musicale, la più reputata d'Europa, che comprendeva 60 persone tra cantori e suonatori ed era diretta da Orlando di Lasso, in quel tempo assai malato di corpo e turbato nelle facoltà mentali, sì da far temere una prossima fine. Il Lasso non si spense che qualche anno dopo. Era tuttavia per il caso di una prossima eventuale vacanza del posto di direttore della cappella ducale che il P. rammentava il proprio nome al munifico duca mediante così cospicuo omaggio. Ben diverso era il trattamento di cui godeva il Lasso da quello che i principi italiani offrivano al P.! Il grande compositore belga era ricompensato con un onorario di 400 fiorini all'anno, oltre al completo trattamento di vita; riceveva continui e vistosi regali e otteneva diplomi cavallereschi e nobiliari. Oltre a ciò i duchi di Baviera avevano dato alle stampe le sue opere, in sette grandi volumi in-folio, e fatto ricopiare altre composizioni in due codici miniati con la spesa di centomila fiorini. Il P. era invece costretto a piatire aiuti e soccorsi per poter sostenere la stampa delle sue opere, che giacevano in gran parte ancora inedite.
Per somma ventura dell'arte musicale, l'ufficio di compositore della Cappella pontificia tenuto dal P. (l'onorario inerente, sospeso da Sisto V, e ripristinato da Gregorio XIV nel 1591, fu portato da Clemente VIII a circa 17 scudi mensili) ha permesso che si conservassero le sue opere più grandiose, nell'archivio di quella cappella. Il codice 29, trascritto nel 1591, contiene 18 Mottetti a 6 e 8 voci, oltre all'ispirato e commvente Stabat Mater a 8 voci, tanto ammirato dal Wagner. Nel medesimo anno 1591 usciva, stampata coi tipi del Gardano di Roma (edizione delle quattro parti separate), una raccolta, dedicata a Gregorio XIV, benemerito della Cappella papale, di 16 Magnificat a 4 voci, cioè due serie, ciascuna con i versetti alternati di musica figurata e canto gregoriano, per ognuno degli otto modi.
Nel breve spazio di sei mesi che precedette la sua morte, il P. si accinge a dare alle stampe altre cinque opere. Anzitutto il libro degli Offertorî a 5 voci, in due parti (Roma, Coattino, agosto 1593) pubblicato a spese dell'abate De La Baume e a lui dedicato.
È un'opera degna di gareggiare con i Mottetti del Cantico di Salomone e frutto della piena maturità del suo ingegno; contiene 68 Offertorî per tutte le feste dell'anno, per la prima volta rivestiti di musica. Ciò che rende sommamente ammirevoli queste composizioni è la verità e la facilità dell'espressione con cui il P. ha saputo commentare, con i ritmi e con le melodie, il significato intimo o esteriore delle parole, risvegliando nell'animo dell'ascoltatore le impressioni corrispondenti a quei sentimenti.
Dopo un primo Libro di Litanie della Vergine, a 4 voci, edito a Roma dal Coattino (1593), il P. preparò per la stampa (pure del Coattino) due Libri di Messe, il sesto e il settimo. Il Sesto libro fu dedicato, il 10 dicembre 1593, al cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, e conteneva quattro Messe a 4 voci e una a 5; nella ristampa del 1596 vi si aggiunse la messa Ave Maria, a 6 voci. Il Settimo libro, dato alla luce appena avvenuta Ia morte del P., il 10 marzo, per cura del figlio Iginio, fu dedicato al pontefice Clemente VIII, il quale aveva mostrato d'interessarsi alla sorte delle opere lasciate inedite dal maestro.
L'ultima pubblicazione da lui curata è una copiosa raccolta di Madrigali spirituali a 5 voci, il Secondo libro, chiamata dall'autore Il Priego alla Vergine, perché costituisce un'ampia parafrasi delle Litanie mariane in trenta ottave di versi endecasillabi (Roma, Coattino). Fu dedicato a Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, il 1° gennaio 1594. Questi Madrigali sono dettati in uno stile assai agile, scorrevole e disinvolto, che tempera e alleggerisce opportunamente la gravità e l'uniformità del testo. Si avvicinano per il carattere originale e descrittivo, ai Mottetti del Cantico dei Cantici, riuscendo forse ancora più vivi, insinuanti e ricchi di fantasia; furono in ogni modo giudicati superiori a tutti i precedenti Madrigali. Il commento del testo è sempre accuratissimo; l'ultimo brano chiude l'ispirato poema musicale con una dolce preghiera, una larga melodia del soprano, armonizzata dalle altre voci.
Il P. morì il mercoledì 2 febbraio 1594 nella sua casa al vicolo Armellino, e sul tramonto il suo corpo fu portato in S. Pietro, accompagnato da una folla di musici e d'ammiratori, e deposto in una delle sepolture della Cappella nuova, corrispondente oggi all'abside di sinistra della crociera, verso la terza cappella a levante.
Prima che terminasse il secolo fu intrapresa la pubblicazione, per cura dei fratelli Tiberio e Andrea Argenti, di altri sei Libri di Messe da 4 a 8 voci, con un totale di 33 messe, stampate a Venezia dallo Scotto e dall'Amadino, tra il 1599 e il 1601.
La Casa Breitkopf e Härtel di Lipsia ha pubblicato, tra il 1881 e il 1907, per cura principale di F. X. Haberl, l'Opera omnia del P., in voll. 33, con un totale di 946 composizioni: voll. I a VII: Mottetti, da 4 a 12 voci (326 compos.); vol. VIII: Inni, a 4 voci (45); vol. IX: Offertorî, a 5 voci (68); voll. X a XXIV: Messe, da 4 a 8 voci (93); vol. XXV: Lamentazioni, da 4 a 8 voci (36); vol. XXVI: Litanie, da 4 a 8 voci (12), Salmi a 12 voci (4), Mottetti, a 12 voci (3); vol. XXVII: Magnificat, da 4 a 8 voci (35); voll. XXVIII e XXIX: Madrigali, da 3 a 6 voci (152); voll. XXX a XXXII: appendice di Madrigali da 3 a 5 voci (33); opere dubbie, comprese due Messe, otto Ricercari per organo e undici Esercizî sopra la scala (139 compos.); vol. XXXIII: supplemento e indici.
Bibl.: Opere biografiche: G. Baini, Memorie storico-critiche della vita e delle opere di G. P. da P., voll. 2, Roma 1828; W. Baumker, P., Friburgo in B. 1877; G. Cascioli, La vita e le opere di G. P. da P., Roma 1894; A. Cametti, Cenni biografici di G. P. da P., Milano 1894 (con la bibliografia completa degli scritti sul P. fino al 1895); M. Brenet, P., Parigi 1906; E. Schmitz, P., Lipsia 1914; R. Casimiri, Il codice 59 dell'archivio musicale lateranense, autografo di G. P. da P., Roma 1919; Z. Kendrick Pyne, G. P. da P., Londra 1922; A. Cametti, P., Milano 1925 (con nota bibliografica).