GIOVANNI Pisano
Nato intorno al 1248, fu figlio e allievo di Nicola Pisano. Sebbene non si conservino documenti relativi al periodo della sua formazione (e comunque fino al 1265), è certo che egli nacque a Pisa, come è esplicitamente dichiarato dallo stesso G. nelle epigrafi-firma dei pulpiti di S. Andrea a Pistoia e della primaziale pisana. Ciò impone di ritenere che la famiglia si fosse trasferita a Pisa, forse dalla Puglia, sicuramente prima della metà del secolo, rafforzando le ipotesi di quanti hanno cercato di rintracciare opere giovanili del padre Nicola in Toscana già a partire dal quinto decennio del Duecento.
Non è chiaro invece l'anno dal quale l'adolescente G. abbia cominciato ad affiancare il padre nel suo lavoro. Secondo le consuetudini delle botteghe scultoree medievali, questo può essere avvenuto a partire dal compimento del quattordicesimo anno di età, perlomeno con regolarità, anche se è più che verosimile che G. abbia fin da piccolo osservato e studiato il padre all'opera.
Il grande capolavoro paterno del pulpito del battistero pisano, ultimato nel 1259-60, condotto pressoché autografamente da Nicola (non affiancato da aiuti sino al penultimo riquadro scolpito), non dovette concedere al giovanissimo G. l'occasione di cimentarsi con la scultura, se non forse nelle fasi di "politura", normalmente affidate al personale di bottega. Infatti, se è vero che, in particolare negli specchi più tardi, come quello con il Giudizio finale, lo stile di Nicola diviene per sua naturale evoluzione e per il carattere degli eventi rappresentati, più concitato e drammatico, e se pure vi si notano differenze di mano per molte delle figure più laterali, risulta azzardata un'attribuzione al giovanissimo G., a meno di non spostarne la datazione ad anni successivi, come pure tentato dalla critica, a partire da Cavalcaselle e Crowe (pp. 202-207), ripresi poi da un saggio giovanile di Ragghianti (1936, pp. 307-316) - che modificò poi la propria opinione - e da altri. Ma fin dagli studi di Giusta Nicco Fasola (1941, p. 84) è prevalsa l'idea che la realizzazione del pulpito sia da porre nel suo insieme entro il 1260, escludendo di fatto la possibilità di ravvisarvi la mano di G., perlomeno in modo riconoscibile e compiuto. Resta più probabile, anzi, vedere nelle figure dei demoni e dei dannati - atletiche e ancora di ascendenza classica, ma talvolta caricaturalmente alterate, vigorosamente attorte e caratterizzate da grandi volti deformati e da capigliature e barbe serpentinate - un importante testo di studio e di riferimento negli anni cruciali della formazione dello stile di Giovanni.
La prima menzione di G. come aiuto di Nicola si ha nei documenti relativi al pulpito del duomo di Siena, dal contratto di allogazione, nel settembre 1265, alla definitiva quietanza dell'opera nel 1268 (Nicco Fasola, p. 113).
La mano di G. è peraltro rintracciabile con certezza anche per via stilistica nel pulpito di Nicola nel duomo senese, che più dell'opera pisana risentì degli aiuti ormai autonomi di una bottega che doveva allora contare alcune personalità artistiche distinte, tra cui, oltre ai meno ben riconoscibili Lapo e Donato, un già formato Arnolfo di Cambio.
Le non risolte difficoltà in cui si è dibattuta la critica del Novecento per l'attribuzione di singole figure o parti del pulpito agli allievi di Nicola derivano indubbiamente dallo stesso metodo operativo osservato dalla sua scuola, per cui se anche gli esecutori di alcune delle figure erano singoli scolari, questi dovevano a evidenza seguire un progetto di massima del maestro a livello compositivo e iconografico, che è ormai necessario immaginare anche fissato preliminarmente attraverso disegni e cartoni (Ascani, 1997, pp. 20-22); la loro opera veniva poi verosimilmente rifusa nell'insieme con accorti interventi di Nicola e con la uniformante opera di finitura del complesso scolpito. Non si spiegano altrimenti casi di personaggi in cui si ritrovano stilemi arnolfiani o giovanneschi nei panneggi mentre i volti rivelano l'intervento del maestro, come il gruppo dei magi nell'Adorazione. Tra le parti più univocamente attribuibili al giovane G. sono il magro e intenso Cristo mistico di uno dei pilastrini tra gli specchi figurati e l'Angelo annunciante frammentario ora al Bodemuseum di Berlino (Seidel, 1970, pp. 50-53). Per i motivi su esposti restano meno convincenti i riferimenti a G. di singole figure degli specchi istoriati, seppure è nella scena del Giudizio finale che sono riscontrabili le maggiori affinità con l'opera certa dello scultore. Un discorso a parte merita la lastra con la Strage degli innocenti, dove sono, nell'insieme, la drammaticità del soggetto e l'accalcarsi delle figure più che lo stile ad anticipare le tragiche composizioni di G.; e anche l'esorbitare di alcuni dei personaggi oltre la cornice superiore del riquadro non può essere semplicemente imputato alla mano inesperta del giovane scultore, in assenza del controllo del padre e maestro (Carli, 1979, pp. 37 s.), dal momento che anche le figure in alto appaiono in buona parte ascrivibili allo stesso Nicola. Tuttavia, in mezzo a personaggi non dissimili da quanto Nicola sapeva compiere e ad altri meno riusciti, certamente di aiuti, il gruppo di donne al centro del riquadro, dagli arditi atteggiamenti rivolti verso l'interno della composizione, denota già nella essenzialità della descrizione - con il suo fluido linearismo assecondante una forte espressività, con il passaggio rapido dei piani e l'altissimo rilievo con parti a giorno e finanche con il differente e più veloce ritmo dell'insieme- la paternità di una mano energica e giovanile, impressione rafforzata dalla parentela con personaggi usciti dallo scalpello di G. negli anni successivi. Rispetto alla scultura paterna, l'opera giovanile di G. si distingue in pratica per una maggiore adesione al realismo formale e psicologico e al più aggiornato linearismo della scultura gotica matura della Francia settentrionale, conosciuta non solo attraverso l'importazione di oggetti d'arte mobili, quali libri miniati e oreficerie, ma anche nei testi propriamente scultorei, osservati direttamente Oltralpe, come non doveva essere difficile per un toscano della sua generazione, ovvero studiati attraverso disegni e taccuini recati da artisti itineranti, secondo una prassi comune già dalla prima metà del Duecento, ma che, per i decenni che qui interessano, non ha purtroppo lasciato esempi o espliciti riferimenti scritti nelle aree frequentate dall'artista.
Ancora al settimo decennio del secolo deve risalire un tondo con Madonna col Bambino (Empoli, Museo della Collegiata), confrontabile con le parti meglio attribuibili all'artista nel pulpito del duomo di Siena.
Negli anni successivi alla conclusione da parte della bottega di Nicola dell'arca di S. Domenico a Bologna (1267), cui G. non aveva partecipato, e al completamento del pulpito senese, e forse anche già dalle fasi di avanzata esecuzione di quest'ultimo, il linguaggio sempre rinnovato di Nicola, e il moderno e più incisivamente potente e goticamente lineare stile del figlio convissero, integrandosi e influenzandosi nelle opere realizzate nell'arco di circa quindici anni, periodo in cui Nicola e G. lavorarono per lo più fianco a fianco.
Nel decennio tra il 1268 e il 1278 è forse da porre la prima fase dell'opera di rinnovamento operata dai Pisani alla struttura romanica del battistero di Pisa.
Questo era stato lasciato incompiuto dalle generazioni precedenti, dopo la progettazione e l'avvio dei lavori, poco dopo la metà del XII secolo, da parte di Diotisalvi, che giunse a innalzare i sostegni interni, e, all'esterno, arrivò alla cornice superiore dell'ordine basamentale ad arcature cieche; e dopo la campagna protoduecentesca dei lavori, che comprese, oltre alla decorazione scultorea dei portali orientale e settentrionale, l'approntamento e la posa in opera dei grandi capitelli centrali interni e delle mensole dei muri d'ambito, i primi peraltro terminati solo lungo il trentennio successivo dalla maestranza dei Bigarelli. A questi, in particolare a Guido e aiuti, spetta anche il centrale fonte battesimale del 1246, ultimo lavoro nell'edificio prima dell'arrivo di Nicola che vi terminò il proprio pulpito entro il 1260.
La straordinaria novità dell'intervento dei Pisani alla seconda loggia del battistero consistette nell'impostare al di sopra di questa - condotta secondo il modello della sottostante, del secolo precedente, ma riconoscibilmente più moderna nei capitelli e nelle teste delle ghiere, vicini allo stile di Nicola - un coronamento a ghimberghe traforate, motivo che rielaborava in chiave gotica la tipologia delle edicole a timpano antiche, messo a punto dagli architetti dell'Île-de-France nella fase centrale del gotico maturo legato alle committenze e agli anni di re Luigi IX, verso la metà del Duecento. Ancora intorno al 1260 si andavano completando secondo questo stile le parti laterali della cattedrale di Notre-Dame a Parigi: in particolare la Porte-Rouge si mostra modello scelto da Nicola e G., che peraltro non si limitarono a una citazione, ma in una completa rilettura del recente prototipo trasformarono le cornici timpanate in una corona ariosa e totalmente a giorno intorno all'edificio, abitata dai grandi busti componenti una Deesis e una Madonna col Bambino tra santi e profeti. Ne risulta, quindi, un linguaggio architettonico di aggiornata impostazione gotica, ma personalissimo, anche per il colorismo dato dalla permanenza dei bicromi e tradizionali rivestimenti in marmo toscani, e più per l'estendersi all'intera struttura della decorazione figurata scultorea, e dunque del valore simbolico e teologico del programma iconografico, espresso con grandiosa e meditata oratoria. Le statue, in gran parte rimosse (Pisa, Museo dell'Opera del duomo), ciclopici busti creati per la visione da lontano e danneggiati da secoli di esposizione alle intemperie, rivelano a un esame ravvicinato una solida concezione volumetrica unita a una modellatura tesa alla fusione dei tratti e della tensione espressiva dei personaggi, con decisi e densi linearismi, panneggi di elegante ma semplice andamento, gesti e torsioni atti a movimentare e variare le figure - come dimostra per esempio un confronto tra i differenti e ben studiati atteggiamenti degli Evangelisti - facendole risaltare e quasi fuoruscire dalle proprie edicole, in uno sforzo di tridimensionalità di grande potenza, foriero dei grandi raggiungimenti del gotico dei decenni successivi nelle arti figurative toscane, sino alle conquiste spaziali giottesche. Parimenti innovativo è il linguaggio architettonico, con particolari decorativi di raffinata varietà, e con il ritmo nuovo e ormai poligonale dato dall'emergere degli alti pinnacoli, che spezza e riassume il più sommesso e armonico movimento circolare romanico. Questa architettura introduce qui per la prima volta in Italia, si può dire, in contemporanea con le più moderne realizzazioni francesi, inediti motivi e decorazioni destinati a divenire punto di riferimento per l'intero gotico italiano, per oltre un secolo: subito ripresi difatti, e a loro volta reinterpretati, nei cibori romani arnolfiani e nella tipologia delle tombe ad arca che si sarebbe sviluppata a partire da questi anni tra Toscana, Umbria e Lazio.
Un doppio poligono rotante su base circolare è anche l'idea alla base della fontana Maggiore di Perugia, realizzata nella piazza centrale della città umbra dai due Pisani nel 1277-78, con largo impiego di aiuti, su un disegno che consta della sovrapposizione di due anelli sfaccettati di poco disuguali, per creare una sensazione di movimento all'opera, rivestito l'inferiore da specchi figurati e ritmato da colonnine, il superiore dotato viceversa di specchi lisci divisi da statue; l'insieme sormontato da una più piccola tazza bronzea con cariatidi da cui scaturisce l'acqua. La complessa e ricca iconografia, che attinge alla storia e leggenda locali, oltre che alla storia cristiana e antica, e alla cronologia dei mesi e dei lavori dell'uomo, rappresenta un raffinato testo dell'enciclopedismo figurato medievale, oltre a fornire un articolato repertorio di figurazioni.
Stilisticamente, appare qui più difficile che altrove rintracciare la mano dei due maestri, che senz'altro devono però avere approntato lo schema d'insieme e fornito i modelli per le singole scene. Non è neppure chiaro se gli stessi schemi iconografici siano stati concepiti separatamente dai due artisti, seppure i Mesi, in particolare gli ultimi, aggiornati su prototipi francesi, abbiano sempre fatto pensare la critica alla paternità esclusiva di G., al pari di alcune delle statue, come la Teologia. È possibile che i Pisani abbiano comunque lasciato una nutrita taglia al lavoro in Umbria, come prova anche l'interno del duomo di Todi, ricostruito in anni di poco successivi e dotato di capitelli in cui è più che evidente l'educazione strettamente pisanesca degli esecutori.
È probabile però che in questi anni gli sforzi di Nicola, e soprattutto di G., fossero concentrati sull'opera del battistero pisano, che avrebbe dovuto assorbire le energie di G. anche in seguito, a quanto si può giudicare dalle figurette di coronamento delle ghimberghe, molte delle quali operate verosimilmente da allievi, oggi rovinatissime e spesso mutile, ma collegabili ai modi della piena maturità dello scultore.
L'artista dotò inoltre il duomo pisano di un gruppo scolpito per la lunetta della porta occidentale del transetto meridionale, risalente all'incirca al 1280, la Madonna col Bambino detta "del colloquio" per la novità iconografica del convergere di sguardi tra madre e figlio, opera di estremo equilibrio classicistico, dal fine linearismo che non sminuisce l'imponenza delle figure.
Dal 1285, dopo la morte di Nicola Pisano risalente probabilmente all'anno precedente, G. assunse il compito di condurre avanti un'ulteriore opera che pure era stata per anni diretta dal padre: la riedificazione della cattedrale senese dell'Assunta, i cui lavori erano giunti nel frattempo a discendere il corpo delle navate sin quasi al prospetto. Proprio sulla facciata si appuntò l'interesse di G., che intese farne il proprio capolavoro, riprendendo e sviluppando il concetto di struttura interamente figurata, e dunque "parlante", ancora su modelli di ascendenza francese, qui più fortemente alterati e adattati alla propria concezione. Meno interessato degli scultori francesi a concentrare il messaggio figurativo intorno ai portali, G. dovette mettere a punto con la committenza un ardito piano iconografico che individuava l'intera facciata come grande polittico entro cui porre, intorno alla Vergine col Bambino, profeti, patriarchi e santi su due fondamentali registri, vetero e neotestamentario, al loro interno ulteriormente articolati, mentre più in alto era forse prevista un'ulteriore raffigurazione teofanica. Una facciata-manifesto che portava a una scala realmente urbana il messaggio figurato della costruzione mariana facendo assurgere la chiesa a simbolo primo della città, essa stessa ufficialmente posta sotto la protezione della Vergine.
Lo schema architettonico della facciata deriva da prototipi tardoromanici e protogotici toscani e francesi, dalla facciata occidentale della cattedrale di Chartres, per il triplo portale, alle torrette laterali che semplificano e rivedono il modello delle facciate "armoniche" delle cattedrali francesi, relegando a posizioni più periferiche le torri, riducendone le dimensioni e non allineandole all'asse dei portali laterali; mentre veniva forse sin dall'origine ampliato, in alto, il settore centrale, peraltro proseguito oltre la grande cornice al di sopra dei portali solo negli anni subito successivi all'allontanamento di G. da quest'opera. Le statue si andavano a situare in posizioni privilegiate, ai nodi strutturali di questa architettura, libere davanti al paramento marmoreo, e per questo svincolate definitivamente dalle forme architettoniche retrostanti, comprese le ormai vuote edicole timpanate che le avrebbero dovute contenere e da cui sembrano incamminarsi, e, dunque, lasciate ruotare, avanzare e torcersi in base al movimento impresso dalla tensione emotiva dei personaggi, nell'atto di annunziare o vaticinare la futura incarnazione del Messia e il suo concepimento virginale. Tra i profeti e patriarchi, come Isaia, Abacuc, Mosè, Giosuè, David, Salomone, sono posti anche Maria di Mosè, Balaam, la Sibilla Eritrea, e più sorprendentemente sono inseriti Platone e Aristotele che per via razionale avrebbero avvertito prossima la divina maternità di Maria.
Le monumentali statue (originali al Museo dell'Opera della metropolitana), di dimensioni maggiori del naturale, concepite per una veduta a distanza e dal basso ma accuratamente rifinite nelle parti in vista, costituiscono un complesso di unitaria intensità espressiva, in un rimando corale e continuo di sguardi e parole destinato a condurre l'occhio dello spettatore verso il gruppo mariano centrale. La caratterizzante e costante potenza dei gesti e dei volti, di penetrante impatto, è assecondata dal movimento dei panneggi, delle ciocche dei capelli e barbe in un plasticismo dinamico costruito con forte linearismo che qui giunge a un vertice di efficacia espressiva e novità stilistica, tale da rendere quest'opera una delle migliori realizzazioni del gotico europeo.
Nel lungo periodo del soggiorno senese di G. per la sua attività al duomo si situano anche importanti interventi dell'artista in altri centri della Toscana, come a Massa Marittima al completamento della cattedrale di S. Cerbone.
Egli vi eseguì dal 1287 la loggetta superiore della facciata, con arcate su colonnine, di cui una con un atlante colto in un atteggiamento di sofferto sforzo, motivo che comparirà anche nel pulpito pistoiese, e un coro poligonale con coronamento a ghimberghe, secondo quanto negli anni successivi Arnolfo avrebbe immaginato per S. Croce a Firenze, e forse anche per le tribune del duomo fiorentino.
In anni appena posteriori, probabilmente nel 1288, G. creò il portale e il protiro laterale della collegiata di San Quirico d'Orcia.
Ma a partire dal 1297 l'artista lasciò improvvisamente Siena per gravi dissidi con gli Operai del duomo, dopo l'accusa di ritardi, gravi inadempienze e cattiva organizzazione dei lavori, come per primo ha accertato Bacci (1944); e fece ritorno a Pisa, dove evidentemente aveva conservato una residenza e dove non aveva ancora terminato i lavori nei registri superiori delle logge del battistero.
Forse eseguita al momento del rientro da Siena in patria è una fine Madonna col Bambino eburnea (Pisa, Museo dell'Opera del duomo), in cui l'inarcarsi della zanna dalla quale è ricavata la scultura è abilmente utilizzato per conferire, con l'istintivo gesto di ribilanciamento della donna per sostenere il peso del bimbo, l'hanchement proprio delle più recenti statuette gotiche francesi, in quegli anni da lui certamente conosciute de visu.
Al successivo 1298, nella piena maturità artistica dello scultore, risale l'incarico per il pulpito nella pieve di S. Andrea a Pistoia, esagonale, come il primo pulpito paterno, e di dimensioni relativamente contenute per il ridotto sviluppo in larghezza della chiesa romanica in cui si andava a situare.
L'opera, di paternità pressoché esclusiva di G., terminata nel 1301, ne costituisce il più compiuto capolavoro, e resta uno dei momenti di maggior significato nell'arte del Medioevo italiano, negli anni intorno al 1300 che vedevano altrove l'attività del maturo Arnolfo di Cambio, di Giotto e di Duccio di Buoninsegna. L'artista vi appose una orgogliosa iscrizione-firma, sotto gli specchi, che recita tra l'altro: "Sculpsit Ioh(ann)es qui res no(n) egit inanes. Nicol(a)i nat(us) sensia [scientia] meliore beatus. Que(m) genuit Pisa doctu(m) sup(er) omnia visa", il che rende conto del carattere di G. e della coscienza del proprio valore, oltre che dell'importanza che potevano arrivare a rivestire nel tardo Medioevo italiano le maggiori figure di artista nel panorama sociale e culturale delle città.
Il pulpito sviluppa gli schemi degli esempi paterni, in particolare il pulpito senese, cui va più di un richiamo per quanto riguarda l'aspetto iconografico. Gli specchi della cassa riferiscono gli episodi neotestamentari, come in tutta la serie dei pulpiti pisaneschi, qui così suddivisi: Annunciazione e Natività con il BagnodelBambino e l'Annuncio ai pastori; Sogno e Adorazione dei magi; Strage degli innocenti; Crocifissione; Giudizio finale. Le basi delle colonne si alternano con gruppi figurati: un atlante-Adamo di realismo autoritrattistico e leoni con preda. Il sostegno centrale vede un'aquila, un grifo e un leone alato di scattante potenza in rotante e opposta tensione. Le colonne reggono gli archi trilobi, di più accentuato verticalismo rispetto a Siena, in linea con la maggiore tensione gotica dell'insieme, ma anche per le proporzioni più strette e slanciate del pulpito, con Profeti, i Ss. Pietro e Paolo e i re David e Salomone nei pennacchi e statue di Sibille sui pilastrini. Dividono gli specchi statue del Cristo mistico, S. Andrea e S. Stefano e gruppi di angeli, di apostoli e il tetramorfo in origine sotto i leggii.
L'autonomo risalto e il distacco dal fondo delle figure, che presuppongono l'esperienza del pulpito senese, insieme con la felice inventiva compositiva e con un completo ventaglio di atteggiamenti emotivi dei personaggi, assecondato dalle forme e dalle tecniche di realizzazione, sono tra i motivi della compiutezza di quest'opera e del suo eccezionale livello qualitativo. Tra gli aspetti maggiormente innovativi nello stile pistoiese di G. si nota un più morbido plasticismo, associato alla consueta potenza descrittiva e di concentrazione lineare, che dona alle figure espressioni mobili e finanche interrogative, talora virtuosisticamente variate a seconda dell'angolo di visuale; e il recupero di una dolcezza classicistica, ben diversa da quella cara al padre, evidente qui in alcuni personaggi femminili e giovanili, di assorta spiritualità ma di raccolta e lineare essenza disegnativa gotica. Toccante emotività emana la Crocifissione, che sviluppa il tema della croce nodosa a bracci obliqui comparsa già nel pulpito senese, ma dove la scarna e tesa figura del Cristo morente, dal nobile e finissimo volto, ostende a contrasto grosse e volumetricamente semplificate estremità, fissate in un rigido spasmo, e si pone quale fulcro della composizione della formella e vertice drammatico dell'opera.
Conseguente anche alla particolare congenialità a G. di questo tema iconografico è la nutrita serie dei crocifissi in legno, connotati tutti da aspetti di forte patetismo, posti su croci a rami d'albero commessi a Y, lasciata da G. in Toscana nel corso di tutta la sua attività: dal primo esempio a Siena (Museo dell'Opera del duomo) al crocifisso nella cattedrale massetana dove egli aveva operato quale architetto, a quello presente nella stessa chiesa di S. Andrea a Pistoia, proveniente da quella vicina di S. Maria di Ripalta, a quello ancora più scarno e tardo pisano (Museo dell'Opera del duomo), e all'esempio del duomo di Prato. Un Cristo crocifisso staccato dalla croce è ora a Berlino (Bodemuseum); mentre un Crocifisso in avorio è conservato a Londra (Victoria and Albert Museum).
Appena terminata l'opera pistoiese lo scultore dovette rientrare in patria, dove gli fu subito affidata l'importante commissione del nuovo pulpito per il duomo pisano: quello ormai inadeguato di Guglielmo sarebbe stato rimosso e poi donato al duomo di Cagliari, principale centro dei possedimenti pisani oltremare. L'opera avrebbe impegnato G. per un decennio, fino a tutto il 1310, anche in questo caso non senza dissidi con i committenti e forse con altri artisti presenti nell'ambiente dell'Opera del duomo.
Su un rinnovato basamento circolare sorge un giro di otto tra colonne - libere o su leoni stilofori - e sostegni figurati (recanti questi rispettivamente la Chiesa sorretta dalle Virtùcardinali; Cristo sorretto dagli Evangelisti; l'Arcangelo Michele; Ercole). Il sostegno centrale vede le tre Virtù teologali sormontare la Filosofia e le Arti liberali. Al di sopra dei capitelli, pennacchi con profeti, apostoli ed evangelisti accompagnati da classicheggianti mensole a grandi e variati riccioli fogliati con occhielli a rosette e pilastrini con sibille sostengono la cassa a ottagono a lati curvilinei, con le consuete scene neotestamentarie separate da statuette di profeti e apostoli, oltre al Cristo, e a gruppi di angeli facenti parte della scena del Giudizio. I riquadri figurati sono in numero di nove per la presenza di formelle anche sui lati del ballatoio della scala del pulpito, poggiante su due colonne esterne al giro ottagono. Essi rappresentano rispettivamente: Annunciazione, Visitazione e NascitadelBattista; Natività e Annuncioaipastori; Viaggio, Adorazione e Sognodeimagi; Presentazione al tempio, i Re magi davanti a Erode, Fuga in Egitto; Strage degli innocenti; Cattura e Passione di Cristo; Crocifissione; Giudiziofinale in due formelle con Cristo giudice al centro.
Il pulpito, poco danneggiato dall'incendio del duomo del 1595, fu tuttavia smontato all'inizio del Seicento per i lavori di ricostruzione delle coperture della chiesa e ricomposto non senza polemiche nel 1926, con alcune integrazioni - capitelli, basamenti e cornici - ed errori nei posizionamenti dei sostegni. Esso reca due importanti iscrizioni: una per tramandare la data di compimento, 1311 secondo lo stile pisano (fu terminato nel dicembre 1310), il nome dell'artista, che vi si ribadisce nato a Pisa, e dei curatori dell'Opera, tra cui emerge il ruolo di Nello Falconi. Lo scultore torna come a Pistoia su toni autocelebrativi per definirsi "sculpens in petra ligno auro splendida, tetra sculpere nescisset vel turpia si voluisset. Plures sculptores remanent sibi laudis honores. Claras sculpturas fecit variasque figuras. Quisquis miraris tunc recto jure probaris". Che non fosse estranea a queste parole la necessità di difesa da invidie o accuse lo dimostra anche la seconda iscrizione, alla base del pulpito, che tra l'altro recita: "Non bene cavi dum plus monstravi plus hostica damna probavi. Corde sed ignavi penam fero mente suavi. Ut sibi livorem tollam mitigemque dolorem et decus implorem: versibus adde rorem. Se probat indignum reprobans diademate dignum. Sic hunc quem reprobat se reprobando probat". Parole interpretate perlopiù dalla critica, riduttivamente - come relative a un trattamento economico non soddisfacente (Braunfels, 1953, p. 233) o riferite all'operaio Burgundio Tadi ostile allo scultore, sostituito da Nello Falconi - ma di significato a quanto sembra di capire più generale, di richiamo verso la dignità e la fatica del lavoro di invenzione e realizzazione dell'opera d'arte da parte di un artista, per questo suo stesso compito esposto alle critiche, soprattutto tra persone di sensibilità evidentemente ritenuta non adeguata. Un sentito quanto singolare sfogo in diretto dialogo con il riguardante presente e futuro: in ogni caso riprova delle non facili relazioni dell'artista con i committenti, qui come a Siena, anche se in questo frangente la fama ormai consolidata e universale di cui egli godeva, tanto più in patria, devono avere pesato a suo favore conducendo al buon fine dell'opera.
Lo stile di G. compie qui il percorso finale verso l'attenuazione dei più aspri ed espressionistici goticismi e l'adozione di un più morbido, ma sempre linearisticamente definito e pieno plasticismo, in uno con il recupero di particolari decorativi classici in luogo dei gotici, come è evidente nei pennacchi di ispirazione ionica, o nell'iconografia di statue quali la Temperanza, personale riflessione sul tipo della Venere pudica, o l'Ercole, identificato dalla critica anche con Sansone, di nuova e più complessa ispirazione antica rispetto al soggetto interpretato dal padre. In questo pulpito risulta tuttavia più arduo rispetto a Pistoia isolare ed esaminare agilmente le singole figure, in particolare al livello della balaustra, e ciò per la volontà di concepire l'opera come un continuum narrativo circolare ribollente di forme e figure, in media più piccole di dimensioni, anche in rapporto agli specchi, rispetto a quanto precedentemente attuato, e più fortemente asservite alla coerenza dello schema generale, oltre che per la presenza di molteplici altre mani, spesso di minore efficacia e valore qualitativo, che a un attento esame inficiano un poco la riuscita dell'opera. L'attenzione per i particolari, la ricchezza delle decorazioni, la finitura accuratissima dei personaggi si fanno qui però più evidenti, per cui nel suo insieme, e per la concezione e composizione delle singole parti, questo pulpito va considerato il punto di arrivo della ricerca dell'artista. Dove la mano dello scultore è meglio riconoscibile, come nel gruppo della Chiesa con le Virtù cardinali, il morbido e liscio plasticismo di G. maturo si associa, come sempre nei momenti migliori dell'artista, a una resa dell'interiorità della figura di grande e personale intensità che ne fu sempre la caratteristica precipua e più lodata. Altrove, come in molti degli specchi, se si escludono la Visitazione, la Presentazionealtempio o alcune figure dell'Adorazione dei magi e della Crocifissione, l'impressione dell'insieme prevale, mentre anche per le dimensioni ridotte dei personaggi risulta meno facile apprezzare singole espressività. Il forte aggetto delle figure, molte delle quali a giorno per larghe parti, e la prodigiosa abbondanza di particolari narrativi sono indubbiamente alcuni aspetti di un autocosciente virtuosismo di cui certamente l'autore si compiaceva. La cornice paesaggistica e d'impostazione dei piani, talora ridotta a un sottile bordo dal contorno lieve e sfrangiato - per esempio nella scena dell'Adorazione dei magi - anticipa importanti figurazioni degli anni successivi, come i rilievi della facciata del duomo di Orvieto, mentre è soprattutto il brulicare di figure su più piani e con diversi gradi di approfondimento descrittivo e di possibilità di visione che aiuta, in assenza di più certi riferimenti spaziali, a intuire le coordinate della scena del racconto.
A Pisa, oltre al completamento del pulpito del duomo, G. non rinunciò a proseguire i lavori all'esterno del battistero e a eseguire nuovi gruppi scolpiti per il complesso episcopale, come quello, solo in parte conservato, della Madonna col Bambino venerata dalla città di Pisa, personificata da una donna allattante, e dall'imperatore Enrico VII, forse del 1312 (Pisa, Museo dell'Opera del duomo) e firmato da una iscrizione il cui testo tramandato dalle fonti conteneva la firma orgogliosamente apposta dall'artista: "Nobilis arte manus sculpsit Iohannes Pisanus".
Egli inviò inoltre a Padova, o meno probabilmente eseguì sul luogo, in una pausa dei lavori del pulpito, la Madonna col Bambino per la tomba di Enrico degli Scrovegni nella cappella dell'Arena intorno al 1308, e si recò poi a Prato, dopo il 1313, per la statuetta della Madonna della Cintola nel duomo della città e, forse, per consigli o disegni relativi all'ampliamento del coro della stessa chiesa, avviato in quegli anni.
Ma l'opera più importante dell'ultima stagione dell'artista, eseguita negli anni 1312-14 a Genova, fu il monumento funebre a Margherita di Brabante, moglie di Enrico VII, morta ancor giovane a Genova alla fine del 1311, prima dell'incoronazione imperiale a Roma.
La tomba si trovava nell'abside della chiesa di S. Francesco di Castelletto, ma nel 1600 fu spostata e successivamente smontata, e il materiale in buona parte disperso. Di quanto conservato (Genova, Museo civico di S. Agostino) si segnala soprattutto il celebre brano della Resurrezione di Margherita, con la figura a mezzobusto della donna che doveva fuoruscire, con singolare novità iconografica, dal sarcofago e, a opera di due angeli, essere trasportata verso l'alto.
L'arditezza della concezione trova corrispondenza nella straordinaria spinta ascensionale e rotatoria che la figura subisce, il viso proteso verso presenze celesti poste più in alto, e il corpo che asseconda questo impulso con una rivoluzione sul proprio asse, mentre la figura si immagina in movimento a mezz'aria. Il panneggio liscio e poco rilevato resta del tutto funzionale all'andamento elicoidale del moto senza costituirne un ostacolo.
Questo straordinario e toccante brano giovanneo va a chiudere, insieme con altre statue erratiche tarde come la Madonna col Bambino ora a Berlino (Bodemuseum) una carriera tra le più articolate e fortunate del Medioevo artistico italiano.
G. morì a Siena alla fine del 1318, e nel 1319 il suo nome fu cancellato dai registri delle entrate della città, ove compariva come esonerato dal pagamento di tributi per il raro e prestigioso privilegio accordatogli sin dall'epoca dei suoi lavori alla facciata della cattedrale e mai revocato. Fu seppellito presso la base della facciata del duomo senese, che egli dovette sempre considerare, forse con rimpianto, il proprio capolavoro incompiuto.
La sua vicenda artistica mostra uno scultore in costante studio e perfezionistica evoluzione, che ha saputo seguire pienamente le proprie inclinazioni fin dalla scelta dei soggetti rappresentati, condurre un coerente e mai facile lavoro di approfondimento psicologico e formale sui personaggi da creare, e reinterpretare l'antico, o i contemporanei, riuscendo a sua volta a creare nuovi modelli, anticipando tendenze stilistiche appieno sviluppate nei decenni successivi, sino alla fine del Trecento, e lasciando una scuola e, più, un'influenza destinate a penetrare in molte e distanti regioni d'Italia. Dalla Lombardia alla Campania, seppure in modo meno diretto e acritico di quanto in passato supposto, le sue opere hanno indubbiamente inciso a vario titolo su tutta la produzione scultorea gotica trecentesca italiana. Tuttavia, tra i suoi scolari diretti non vanno probabilmente annoverati Tino di Camaino né Giovanni di Balduccio come a lungo ritenuto, quanto piuttosto, a Pisa negli ultimi anni, Lupo di Francesco e il più debole Maestro del Pulpito di S. Michele in Borgo.
La personalità di G. si denota come quella di un isolato, coltissimo, geniale artefice, per certi versi incompreso in vita, colui che meglio rappresenta nella scultura quella sanguigna, potente tensione innovatrice e quella etica grandiosità, non disgiunte da una linearistica e nobile eleganza formale che furono tra le istanze più vitali e universalmente significative della grande generazione di artisti fioriti in ogni campo in Toscana intorno alla fine del Duecento.
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