PONTANO, Giovanni (Gioviano)
Dalla famiglia dei Pontani, cospicua in Cerreto - un borgo tra Norcia e Spoleto - Giovanni nacque il 7 maggio d'un anno, che le varie fonti fanno variare dal 1421 al 1429: più comunemente accolta la data del 1426, più probabile quella del 1422. Privato del padre e di parte del patrimonio dalle lotte civili, fu mandato a studiare a Perugia, ove dal 1441 fu cancelliere del comune lo zio Tommaso, non oscuro discepolo del Guarino; di poi, rinunciando in favore delle sorelle ai beni che gli restavano, andò in cerca di fortuna. E la trovò presso Alfonso il Magnanimo, allora (1447) guerreggiante in Toscana contro i Fiorentini, avendo servito al giovane di commendatizia un quadernetto "de nugis et versiculis" che annunciavano il poeta in formazione; ma più valida gli fu forse la presentazione di un altro Pontano, Francesco, amico del Panormita allora grato e potente presso il Magnanimo. Condotto a Napoli, il P. vi poté fruire degl'insegnamenti di Giorgio da Trebisonda e di Gregorio Tifernate, umbro come lui, e avanzare ancor giovanissimo i più provetti nello studio della poesia. Ma il suo esemplare e protettore fu il Panormita, che lo condusse seco in un'ambasceria a Venezia (1451) fertile d'amicizie letterarie; e lo introdusse in quella "sodalitas" ch'egli andava ordinando intorno a sé e che, se d'accademia non assunse il nome per reverenza all'antica, fu veramente il centro culturale del reame. E in essa fu detto Gioviano. Come avveniva ai letterati di corte, ebbe affidata l'imtitutio di due principini: di Carlo di Navarra e più a lungo di Alfonso, figlio di Ferdinando; ne resta traccia nel trattatello De principe. Intanto avanzava negli uffici della segreteria reale per il favore dí Antonello Petrucci, sì da rifiutare la cancelleria del comune che Perugia gli offrirà (1461). Ormai era ben "partenopeo", come dice il titolo d'una sua opera. Nelle lotte che per la successione Ferdinando ebbe a sostenere contro il pretendente angioino (1458-1464), il P. fu sempre accanto al suo re, aiutandolo con la penna e con la spada, e consacrandone le gesta nel vivace racconto del De bello neapolitano (compiuto in sei libri dopo il 1494). Più tardi fu la volta di accompagnare, quale mentore, segretario, consigliere, il duca di Calabria - il suo discepolo Alfonso - nell'impresa, che parve epica come una crociata, del riacquisto di Otranto occupata dai Turchi (1481); e poi in difesa degli Estensi (1482-83) nella guerra contro Venezia conclusasi con la pace di Bagnolo (1484), di cui il P. si vantava d'essere stato il negoziatore. Ma restavano nel reame germi di lotte all'interno contro i baroni, all'esterno contro il papa: con questo, Ferdinando riuscì a pacificarsi (1486); e fu ancora il P. a trattare l'accordo, entrando tanto nelle grazie del pontefice da ottenerne la laurea poetica (1486), onore ormai frusto, del quale il poeta non sembra essersi mai vantato. Più aspra e lunga fu la lotta contro i baroni; e poiché una delle prime vittime illustri ne fu lo stesso segretario Petrucci, il P. gli succedette nell'ufficio; alto e pericoloso ufficio: sennonché la fede e il disinteresse lo salvarono dalla sospettosità dei principi. Fermo insieme e conciliativo, le sue lettere d'ufficio (il P. fu un parco epistolografo, essendo stato sempre occupato in affari più concludenti) ci mostrano in lui l'acutezza politica, l'energia virile e soprattutto una rude schiettezza che sorprende: "toto oris habitu subagrestis" lo tratteggia un biografo. Ma la fortuna fu più forte delle sue virtù: morto Ferdinando, il duca di Calabria, divenuto re (gennaio 1492), si rivelò inferiore alla difficoltà dei tempi; e tre anni dopo (22 febbraio 1495) Carlo VIII entrava in Napoli e il nuovo re Ferdinando II esulava, sciogliendo, in Castel Nuovo, i sudditi dal giuramento di fedeltà. "Il quale ha fatto il Pontano", dice un cronista, riferendosi al discorso tenuto dal re. Ma il ministro rimaneva a trasmettere i poteri al re sopraggiunto. Così il P. fu presente alle cerimonie ufficiali del nuovo regno "orando in nome del popolo di Napoli" come scrive il Guicciardini che lo riprende non dell'atto in sé, ma del tono enfatico del discorso: peccato rettorico, insomma, non fellonia politica. Dure necessità, che impongono poi a un uomo di ritirarsi. E così accadde al P., benché non riuscisse mai a consolarsene: "profligata Gallorum incursu.... magna e parte re familiari, exutusque honoribus" (come egli dice nella prefazione al De rebus coelestibus), si appartò a dar compimento alle molte opere iniziate; non proprio dimenticato dai re o aragonesi o francesi, che s'avvicendavano nei brevi ritorni; ancora circondato dalla "sodalitas" accademica ma accorato nel tedio dell'otium privato e nella tristezza dei lutti domestici, gravissimi per lui, che la famiglia aveva sempre amato. Ricorda egli infatti la saggia e affettuosa madre, che, orfano, l'aveva educato; canta la moglie Adriana Sassone (in poesia Ariadna) che aveva sposato intorno al 1462 e che, giovanissima e bella, aveva allietato di amore e di prole il maturo marito; e vezzeggia i figli, specie quella Lucia, che piange morta a tredici anni nella fine del poema Urania. Poi gli morì anche Ariadna nel 1490; poi Lucio, meno che trentenne (1498); e un genero, e un tardo figlioletto. Oramai sentiva troppe voci chiamarlo di là; morì nel settembre del 1503, l'anno ultimo della signoria aragonese: e la sua salma fu composta nel sepolcreto familiare, che si era fatto costruire (1492) nelle forme classiche, che gli erano care anche in poesia, e quale, dopo tristi vicende, ancora ci si rivela istoriato di sapienza e inciso dei funebri epigrammi del poeta. I biografi ci descrivono il P. alto, bello, "austero supercilio", conscio della sua dignità di ministro e di letterato, e insomma un po' diverso dall'immagine arguta e godereccia che gli piacque assumere poetando, certo per suggestione del Panormita.
I Carmina. - Sulla fine del libro I del De prudentia, quasi contemplando la propria esistenza come un esempio "de vita perfecta", il P. si compiace d'avere atteso insieme alle cose pubbliche, alle armi, alle lettere. E così fu: del trattato De aspiratione, cioè sul valore e sull'uso della lettera h nel latino, raccolse i materiali "in castris aut in peregrinationibus"; e al Poliziano in Firenze apparve appunto soldato insieme e letterato e negoziatore diplomatico. Difficile però riesce a noi coglierne l'unità spirituale sotto così varie manifestazioni.
Gioverebbe a ciò il seguire il processo della sua formazione poetica, ma troppi elementi ci mancano a tracciarlo. Un audace scritto sulla vessata questione del prender moglie sarà di poco posteriore al 1439, quando uscì quello di Guiniforte Barzizza, al quale si opponeva: e forse è della dimora umbra il disegno di un poema della guerra ispanica di Sertorio, gloria di Norcia, per esaltarvi un Pontius, eroe eponimo (ci credesse egli o no) della "gens pontaniana". Ce ne resta un frammento nella chiusa dell'Antonius. Ma i suoi iuvenilia umbri furono assorbiti poi nei Parthenopei, due libri di elegie tra ovidiane e properziane, e di endecasillabi catulliani, ove quelli saranno da riconoscere nei pezzi in cui s'allude al paesaggio umbro. Qualche accento nostalgico, intimo moto d'affetto, non toglie il carattere erotico a tutta la raccolta, detta anche Amorum Libri; ma vi si annuncia anche l'inesausto poeta dei rinnovati miti di trasformazioni, cioè delle forme in cui gli antichi espressero il loro sentir l'umanità come congiunta alla vita cosmìca. Per molti umanisti poté questa essere una facile "maniera" poetica; ma nel P. par di avvertire una congeniale disposizione che dà spesso ardore e plasticità a codeste figurazioni. L'ultima elegia raffigura la trasformazione di Sebeto, del quale promette di cantare l'epitalamio con la ninfa Partenope. E la promessa mantenne poi "senex" con l'originale invenzione della Lepidina. È questa, nello schema estrinseco, una serie di "pompae" o cortei di ninfe e numi minori, rappresentanti i bei luoghi di Napoli, con le caratteristiche di usi e feste a essi luoghi congiunti. Così la finzione mitica si nutre della realtà presente, di cui il poeta delle antiche favole si rivela limpido e affettuoso osservatore. Ma v'è dell'altro: spettatori delle pompe sono due umili sposi, che recano anch'essi i lor doni alle nozze divine; ma non sospirosi, come i pastorelli delle egloghe, bensì fruenti della sana gioia d'un legittimo amore: Lepidina dolcemente affaticata della prossima maternità, Macrone dolcemente sollecito di queste due vite che palpitano insieme. È il trionfo dell'amore coniugale; palinodia della giovanile controversia col Barzizza; figurazione sensibile degli affetti, che dànno ispirazione e titolo al primo, almeno, dei tre libri De amore coniugali. Anche il Panormita aveva cantate le gioie - non sempre caste - del suo matrimonio; ma ciò non toglie che dia un senso di profanazione codesta ostentazione dell'intimità. A parte ciò, è da riconoscere che l'amore vien presto purificato dalla sollecitudine comune per i figli (I, 9), dalla gioia della paternità (I, 10) - nota nuova nella lirica latina -, dalla tristezza delle prolungate assenze e dalla letizia dei cari ritorni alla sua Ariadna, alla sua Antiniana e Patulci, innocenti personificazioni della sua villa d'Antignano al Vomero (Patulcis). E poiché Venere sorrise al nascere dei Lepores (II, 7), alle amorose elegie seguono dodici "scherzi" in forma di ninne-nanne (Naeniae), che il poeta cantarella alla culla del suo bimbo, trastullandosi col più carezzevole e molle latino che sia mai stato modulato. E Venere ancora riaccende nei figli la fiaccola della vita nostra: dopo il proprio, ecco gli epitalamî per le figliole (III, 3 e 4); ma anche accade che questa fiaccola si spenga: ed ecco i Tumuli. Sono più di cento epitaffî, ma, adunati insieme per mera affinità rettorica, producono talora stridenti contrasti, incontrandosi il pianto pietoso per la vergine accanto al motto vituperoso contro la mala femmina; la lode per i grandi accanto allo scherno contro gl'indegni. Ma commoventi sono tutti quelli per i suoi morti: Lucia e Lucilio e Lucio, il suo orgoglio e il più doloroso dei suoi lutti, pel quale prosegue il lamento negli Iambici; la diletta consorte Ariadna, che pianse anche in un'egloga (Meliseus); ove però, come nella Lepidina, il senso veristico dà concretezza all'irrealtà bucolica: Ariadna è un'adusta villana, che aiuta il marito nei lavori. Queste egloghe del P. sono tutte, del resto, aberranti dai tipi tradizionali: l'Acon, che nel rammarico della lontananza dalla consorte si può riaccostare a certe elegie del De amore coniugali, ha tocchi rusticani, che sarebbero piaciuti a Battista Mantovano; il Coryle è una delle tante favole di trasformazioni; il Maeon svaria il compianto funebre in un amebeo amoroso; il Quinquennius rinnova il delizioso chiacchiericcio della mamma e del bimbo pauroso, ed è vicino all'ispirazione delle Naeniae. Anche il libro della Lyra è costituito secondo le conformità del metro; sono sedici saffiche ove, fra qualche ode encomiastica o ripetente i lamenti d'Orfeo e di Polifemo - gli eterni delusi - consentono al canto del poeta i nuovi suoi miti, sfolgorando il cielo e mormorando il mare vicino in un'aura di voluttà, che più si accende nei due libri di Hendecasyllabi seu Baiarum, esaltazione della vita di piacere a cui seduceva quel luogo di cura. Certo non tutti gli Hendecasyllabi sono voluttuosi: ve n'ha di saggi per saggi amici: ma nei più vi è l'erotismo esasperato dalla debolezza senile e per ciò talora sconcio o cinico. Pensiamo sia soltanto una prova di virtuosità letteraria: "sit lusum satis et satis iocatum" dice alla fine (III, 38); e infatti la donna poetata (Focilla) non ha caratteri individuali che la distinguano da quante mai donne procaci il P. ebbe a evocare. Più fermi contorni ha Stella, l'eroina degli Eridani: una ferrarese d'Argenta, che dal 1481 pare sia stata sua amante e gli abbia dato un figlio: poi questo muore, la donna è licenziata e l'oscuro episodio finisce. Pure in quel tardo riaccendersi dei sensi se non del cuore del poeta, ci poteva essere una malinconica luce di poesia, la luce del tramonto: dopo i Parthenopei giovanili, i senili Eridani: ma non ne è nulla. Il meglio sono i ricordi dei luoghi, circonfusi talora (I, 1) dalle nebbie padane; e qualche grazioso mito (I, 39) e arguta epistola. Lusus anche questo. Il Pontano ad Ariadna, che egli pensa s'ingelosisca ancora agli Elisî, come le accadeva prima, in terra (Antonius), scrive: "Hinc patiare licet tantisper ludere nostram Canitiem. Fas sit ficto in amore quaeri" (II, 1). E il libro stesso si chiude con altra elegia ove piange con lei il perduto figliuolo. Questo è finto amore, dunque: scherzo di vecchio poeta.
I poemi. - A questa non scarsa produzione lirica il P. aggiunse tre poemi didascalici: l'ultimo dei quali (1501), sulla coltivazione degli agrumi (De hortis Hesperidum), ha tracce di stanchezza fantastica, ma anche accenti di dolce tristezza nel ricordo della moglie estinta e del diletto discepolo, il Sannazzaro, esule volontario. Ma il maggiore è l'Urania, a cui pensava fin da giovane (Parthen., I, 6), d'argomento astronomico, o più veramente astrologico, che era allora interessante. L'insegnamento del Tifernate, dotto in queste dottrine, l'amicizia con Lorenzo Bonincontri, che l'astrologia professò e cantò in due poemi latini, lo avviarono a tali studî, che non l'alienavano del resto dalle dottrine aristoteliche, care al suo filosofare. Cominciò col tradurre e commentare le Centum Ptolomaei sententiae (1475), e poi aggredì una trattazione sistematica della materia nell'ampio trattato De rebus coelestibus. Interrotro, come altri lavori, dagli uffici politici, lo riprese nel 1495, stimolato dalle Confutationes che Giovanni Pico aveva mosse alle dottrine astrologiche degli aristotelici. Ma la preoccupazione religiosa del Pico non aveva presa sul P.: si trattava d'indagare l'influsso degli astri sugli atti umani: perché se gli astri operano sul temperamento fisico nostro, operano anche sul temperamento morale, che ne è condizionato, benché v'intervenga a guidarlo l'educazione. Da questo nucleo dottrinale si svilupparono due serie di opere: in versi e in prosa. Nel poema Urania, in 5 libri, la cui materia corrisponde ai libri I-VIIl del De reb. coel., tratta della sfera, degli astri zodiacali, delle costellazioni e dei relativi influssi; nel più breve Meteororum liber di ciò che accade nel mondo sublunare (piogge, fulmini, venti, ecc.). Come sempre nella poesia didascalica sono gli episodî quelli che accolgono quel tanto di poesia che ci possa essere: e qui porge loro occasione il largo sviluppo dei miti, suggeriti dai nomi delle stelle, e delle allegorie, che il poeta delle trasformazioni ne può far rampollare agevolmente. Ma si tratta sempre di un ornato, cioè di cosa estrinseca. Una redazione del Meteororum manca, infatti, di parecchi di tali episodî.
I trattati e i dialoghi. - Dalla seconda parte del De rebus coelestibus derivano la dottrina i maggiori suoi trattati morali. Data la teoria della dipendenza del temperamento morale dal fisico, si capisce come la virtù consista nell'adattamento o nella reazione individuale alla pressione o azione delle forze esterne: o naturali o sociali (De prudentia); e come la "fortuna" consista nell'incontrare queste o non avverse o almeno più deboli delle "virtù" nostre (De fortuna). E l'anima? e il libero arbitrio? L'anima avrà la sua sorte, quando sia sciolta dal corpo: per ora l'uomo è anima e corpo. S'intende che tale teoria era poco ortodossa: gliene mosse rilievo frate Egidio da Viterbo, autorevole per santità e dottrina presso i pontaniani, sì che al De prudentia il P. aggiunse un terzo libro giustificativo. Già da tempo, del resto, il P. si era dato alle trattazioni morali, seguendo uno schema che non ci riesce chiaro, ma chiaramente cercando di conciliare la posizione teoretica di Aristotile, pratica di Cicerone, suasoria di Seneca: cioè definendo le virtù, additandone i costumi, rammentando le autorità e gli esempî, e soprattutto - come fu già intento del Petrarca - cercando di conciliare la ricerca della veritas con l'eleganza del dire. E veramente piacevole, garbato, amabilmente discorsivo è codesto suo latino, ammirato da Erasmo: più libero, ma meno scapigliato che in Poggio Bracciolini, meno ciceroniano ma più vivo che in P. Cortese; ecclettico come nel Poliziano, ma senza preziosità lessicali. Voltosi infatti a trattazioni stilistiche (De sermone), scelse per oggetto il dire "mediocre" che si usa nei rapporti familiari e civili, in cui ha vanto soprattutto la garbata e arguta "urbanitas".
Bellissima attuazione dei precetti sull'urbanitas offrì nei migliori dei suoi dialoghi. Il più antico (la scena può riferirsi al 1467) è il Charon, vivace finzione lucianesca di "dialoghi dei morti" fra i giudici infernali, il navicellaio dell'Acheronte e le anime che recano laggiù tutte le malvagità, le tristezze, le ridicolezze della vita. E soprattutto le falsità: onde una coraggiosa denuncia delle superstizioni popolari e clericali, del pari dannose e vituperevoli. Con l'Antonius (scritto intorno al 1488) la scena si trasporta in terra e rappresenta, sia pur idealizzati, i convegni della Stoa partenopea, "Porticus antoniana", ov'era ancor viva l'immagine e la memoria dell'arguto Panormita (morto nel 1471) a cui s'informava la festività della sua "sodalitas", non schiva, anzi curiosa della vita che le si svolge intorno. Le discussioni rettoriche s'interrompono pel sopravvenire di viandanti o di forestieri: le pazzie dei cosiddetti savî - quante frecciate contro i falsi sapienti e contro i gretti grammatici! - si mescolano ai dotti versi e ai lazzi di cantori e istrioni; le grandi miserie della politica italiana alle piccole miserie della vita coniugale dell'autore. In tanto tumulto manca al dialogo la nitidezza dei contorni; più fermo nella condotta è l'Asinus (pure del 1488), ove con lucianesca invenzione s'introduce Gioviano insanito d'amore per un asino. Qual ne sia il significato recondito (ché ancora se ne discute), è per sé mirabile l'evidenza della rappresentazione, specie là dove Gioviano vezzeggia l'asino in quel suo latino carezzevole e blando. Più grave l'Actius (denominato dal grave Sannazzaro) "de numeris poeticis et lege historiae": filologico dunque e rettorico, ma ricco di fini osservazioni stilistiche e sempre condotto con quella varietà d'atteggiamenti, che era la caratteristica della "sodalitas". L'ultimo (posteriore al 1501) è l'Aegidius, intitolato al frate di cui udimmo già la parola ammonitrice. Attraverso un sogno, nel quale l'ombra di un sodale, or ora morto, ammonisce i pontaniani a volgersi a più pietosi pensieri, avvertiamo il sorgere nel P. di una nuova sallecitudine religiosa. Fino allora era stato indifferente alla fede, quanto ostile alla Chiesa politica (la raccolta De laudibus divinis, dedicata nel 1458 a un principe aragonese, suggerita da convenienze cortigiane, non ha importanza nella sua vita spirituale, sebbene uno spunto ne sia piaciuto al Manzoni). Ma ora i casti pensieri della tomba spegnevano il riso scettico e i canti procaci sul suo labbro: satis lusum erat. Lo scettro dell'accademia, ormai "pontaniana", stava per passare nelle mani del cantore del De partu Virginis, del Sannazzaro.
Edizioni: I. I. P. Opera, voll. 4 (Basilea 1556); Carmina, voll. 2, a cura di B. Soldati (Firenze 1902); Asinus, a cura e con trad. di M. Campodonico (Lanciano 1918); una scelta dei carmi, con trad., in L. Pompili, Dai carmi di G. P., Spoleto 1928; Lettere di G. P. a principi e amici, a cura di E. Percopo, in Atti Accad. Pontan., XXXVIII (1907). Il P. pubblicò in vita i, trattati morali: De oboedientia, De fortitudine, De principe (1490); De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore, De conviventia (1498); questi cinque s'aggirano intorno alle virtù che riguardano l'uso delle ricchezze; i dialoghi Charon e Antonius (1491). Le altre prose a cura di P. Summonte e del Sannazzaro (Napoli): De prudentia, De magnanimitate (1506), De sermone (1509), De fortuna, De immanitate (noi diremmo "delle degenerazioni morali"), De rebus coelestibits e il Centiloquío di Tolomeo (1512), Actius, Aegidius, Asinus (1507). D'un trattato De luma non si conserva che la pref. Di poesie volgari del P. non se n'hanno: per due capitoli a lui falsamente attribuiti, v. F. Percopo, nell'introd. alla sua ed. del canzoniere del Cariteo (Napoli 1892).
Traduzioni: delle Naenie, di L. Vischi (in Atene e Roma, n. s., IV, 1923, p. 201 segg., con bibl. dei precedenti traduttori); di R. Sassi (Fabriano 1926; contiene anche una trad. dell'egloga Quinquennius); di D. Claps (Ascoli Piceno 1927); del De amore coniugali, di A. Ginorri (L'amor coniugale e le poesie d'argomento affine di G. P., Lanciano 1920), ecc. Degli Eridani parecchi carmi trad. da M. Campodonico (in Da Dante al Manzoni, Studi critici in onore di G. A. Venturi, Pavia 1923). Il De bello neapolitano fu trad. da G. Manso (Napoli 1590); il De hortis Hesperidum da G. A. De Luca (Venezia 1761); il De principe dall'ab. M. A. Grisolia (Napoli 1784). Per le tradd.dei trattati, v. Tallarigo, op. cit. in bibl.; si aggiungano quelle del De liberalitate e del De beneficentia, a opera di G. Mazzaciucoli (Lucca 1554)
Bibl.: C. M. Tallarigo, G. P. e i suoi tempi, Napoli 1874; B. Soldati, Introduz. alla cit. ed. dei Carmina; id., La poesia astrologica nel Quattrocento, Firenze 196; V. Rossi, Il Quattrocento, 2ª ed., Milano 1933, pagine 473-495, con ricca bibl., M. Scherillo, Le origini e lo svolgimento della lett. it., II, i, Milano 1926, pp. 76-221. Manca, come un'edizione critica delle opere in prosa, così anche uno studio complessivo sul P. poeta. - E. Gothein, Die Culturentwicklung Süd-Italiens in Einzel-Darstellungen, Breslavia 1886 (trad. parziale ital. di T. Persico, Il Rinascimento nell'Italia merid., Firenze 1915); In onore di G. G. Pontano nel V centenario della sua nascita, Napoli 1926. Inoltre: G. R. Orsini, Un grande poeta dei sensi, Treviso 1911; A. Sainati, La lirica ital. del Rinascim., XXX (1932), pp. 250-253. Per la famiglia e la giovinezza umbra del P., v. P. Pirri, in Boll. d. Dep. di st. patria per l'Umbria, XVIII (1912), p. 357 segg. Per la posizione del P. nella tradizione bucolica, E. Carrara, La poesia pastorale, Milano [1908], p. 276 segg. Sui dialoghi, v. V. Tanteri, G. P. e i suoi dialoghi, Ferrara 1931. Per l'Asinus interpretato come allusivo ad amori socratici del P. cfr. Gior. stor. d. lett. ital., CV (1935), p. 316.