Pontano, Giovanni
Poeta, umanista e uomo politico, nato a Cerreto di Spoleto, villaggio della Valnerina in Umbria, nel 1429. La madre ben presto lo portò a Perugia per sottrarlo alla spirale di odi e vendette che l’aveva resa vedova molto giovane e avrebbe potuto colpire anche l’unico figlio maschio. Ancora giovanissimo, P. si presentò al campo di Alfonso d’Aragona, re di Napoli, che combatteva in Toscana. Ebbe fortuna e il re lo prese al proprio servizio. Da quel momento P. sarebbe vissuto a Napoli, pur dovendo allontanarsene spesso per vari e molteplici impegni. Non tornerà più nella sua Umbria, che rimarrà in lui come nostalgia e affetto per una patria dell’anima mai dimenticata.
A Napoli compì una brillante carriera, salendo dagli impieghi burocratici alle massime cariche politiche: scrivano; segretario di principi, principesse, sovrani; precettore del principe ereditario Alfonso duca di Calabria; diplomatico, «secretario maiore» cioè primo ministro di Ferrante d’Aragona, successore di Alfonso il Magnanimo. P. fu protagonista e testimone insieme dei principali avvenimenti italiani nella seconda metà del Quattrocento: dei terribili contrasti fra i re aragonesi di Napoli e i baroni del Regno gelosi delle loro autonomie; delle guerre fra gli Stati italiani; di alcune fra le più difficili trattative diplomatiche di un secolo complesso. P. non fu un soldato, benché venisse da una regione di guerrieri, ma le sue vicende con i re e i principi di Napoli lo portarono a vivere in prima persona l’esperienza della guerra, sulla quale scrisse riflessioni notevoli.
Accanto alla carriera politica P. ne percorre un’altra parallela di scrittore e pensatore. Ampia e di gran qualità è la sua produzione poetica, ritenuta da molti quanto di meglio sia stato scritto in latino dopo l’antichità. Altrettanto vasta e importante è la sua attività nel campo degli scritti filosofici, ma soprattutto politici, che toccano numerosi e diversi argomenti. Per la duplice fama politica e letteraria egli diventerà per tutti «il gran Pontano».
Duri e tragici sono invece gli ultimi anni. Carlo VIII e le milizie francesi avevano occupato Napoli. Il re si era trasferito a Palermo; P. restò a Napoli, ma lasciò le cariche politiche. L’avvenire era oscuro: ogni giorno nuovi pericoli sembrano mettere a repentaglio l’Italia e gli Stati italiani. Francesi e spagnoli lottavano per il dominio della penisola. P. morì a Napoli il 17 settembre 1503.
Il suo primo testo politico di rilievo è il De principe, scritto negli anni Sessanta per l’educazione dell’erede al trono Alfonso, duca di Calabria. P. non tocca nozioni di tipo tecnico, che pure sono necessarie al governante: uso delle armi, condotta della guerra, conoscenza del Regno, diritto vigente; materie necessarie, ma che possono e debbono essere insegnate da specialisti. P. vuole fornire al suo regale allievo l’educazione e l’istruzione generali, sulle quali tutto il resto si fonda. Nodo principale del libro è il concetto di maiestas, qualità essenziale di chi deve governare in una monarchia.
Il secondo trattato, al quale P. lavora già prima di dare diffusione al De principe, è il De obedientia. Due testi strettamente legati, che infatti il tipografo Mattia Moravo darà poi alle stampe quasi contemporaneamente, il 15 settembre e il 25 ottobre del 1490. L’obbedienza è l’elemento che dà solidità alla società, e si esprime soprattutto nel rapporto tra gli uomini. Infatti, soltanto il primo dei cinque libri, nei quali il trattato è diviso, parla dell’obbedienza alle norme della ragione e delle leggi, mentre gli altri quattro considerano l’obbedienza tra gli uomini, tanto nel privato della famiglia quanto nel pubblico verso i magistrati, i governanti, i sovrani. Senza obbedienza la società si disfa. L’obbedienza si pone come raccordo tra la ragione e la volontà dell’uomo, imponendo alla volontà di fare quanto la ragione e i superiori ordinano; non basta, infatti, conoscere il bene, ma occorre anche volerlo fare. L’obbedienza peraltro è strettamente legata alla giustizia. Se in ogni livello della società deve esserci obbedienza dal basso verso l’alto, in senso inverso dall’alto verso il basso deve operare la giustizia. La società si concreta in una rete di relazioni bilaterali, nelle quali alle «observantia et obedientia» dal basso verso l’alto debbono corrispondere gli «iustitiae officia» dall’alto verso il basso (De obedientia, c. 13r).
Tutta questa materia è poi nutrita da ampie considerazioni sui vari componenti della società e soprattutto sulla funzione di governo, che per P. non può che essere affidata a un re. Il governo monarchico è infatti il migliore come vogliono la ragione, la natura, la tradizione. Tanto più in alto ci si trova nella struttura sociale tanto più praticate dovranno essere obbedienza e giustizia. Sullo sfondo di tutto questo sta ovviamente la situazione del Regno di Napoli, dove una nobiltà gelosa delle sue prerogative, o almeno una parte di essa, è sempre pronta alla ribellione. Quando P. scrive il De obedientia è ancora vivo il ricordo della guerra di successione, che Ferrante ha dovuto combattere contro i baroni ribelli che violavano il primo dei loro doveri: l’assoluta fedeltà al sovrano, nella cui persona si riassume la patria, altro valore fondamentale. La volontà del re è anche il lume, che deve essere utilizzato dai governanti locali per guidare le loro stesse azioni. Leggendo insieme il De principe e il De obedientia vediamo dunque il quadro di una monarchia organica, fondata sul binomio sovrano e sudditi, in un contesto armonico che si regge sull’obbedienza e sulla giustizia, due virtù alle quali nessuno può e deve essere estraneo.
Successivamente P. scrisse cinque brevi trattati: De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore, De conviventia, nei quali discute soprattutto l’uso della ricchezza. Anche in questi testi ciò che prevale è l’aspetto politico e sociale della convivenza umana, i modi con i quali gli uomini entrano in relazione tra di loro. Per P. la vera ricchezza è soprattutto la ricchezza immobiliare, tuttavia il danaro è comunque indispensabile perché soltanto grazie a questo strumento noi possiamo operare con le virtù, delle quali trattano questi cinque scritti. La liberalità consiste nell’erogazione di danaro. Se la virtù della magnificenza si concreta nelle costruzioni maestose pubbliche e private nonché nell’allestire spettacoli, feste, giochi, noi possiamo costruire e allestire soltanto con l’uso del danaro. Né è diverso il discorso per chi vuole brillare per il lusso della casa e lo splendore dei conviti. Insomma, il liberale dona il danaro; il magnifico, lo splendido, il conviviale lo spendono: senza danaro nessuno può agire e praticare queste virtù. Resta fuori soltanto la beneficenza, che consiste nel giovare agli altri con il consiglio e con l’azione. Come è evidente, quest’economia, vista da P. attraverso il filtro delle virtù, è un’economia della spesa; occorre avere per poter dare, privatamente oppure pubblicamente. Gli uomini infatti alleviano la naturale penuria con il dare reciproco e conservano la società stessa con il dono liberale. Pochissima attenzione egli dedica invece alla produzione, ma anche in questo caso con evidente interesse per la politica, come quando sottolinea che i sovrani non debbono farsi mercanti, ma lasciare campo libero ai sudditi. Non è degno di un re darsi alla mercatura; peggio ancora se lo fa togliendo allo stesso tempo la possibilità di mercanteggiare ai sudditi; in tal caso diviene re ingiusto.
Negli ultimi anni del secolo P. completò la stesura di tre altre opere: De magnanimitate, De prudentia, De fortuna che continuano e completano il grande ciclo incominciato con il De principe, quasi si trattasse di una trattazione unitaria in molte parti. La magnanimità è la virtù più alta e completa; quella che contraddistingue l’uomo dall’animo grande e possente, nella quale tutte le altre virtù confluiscono come gli affluenti nel Po e nel Danubio. Per essere magnanimi occorre essere particolarmente dotati dalla natura, ma occorre anche aver ricevuto un’adeguata educazione, ben rispondente inoltre alle caratteristiche e alle necessità della propria patria. Poiché la politica è al vertice della vita attiva degli uomini, l’uomo veramente magnanimo deve necessariamente impegnarvisi; chi intende restare nel privato non è mai dotato di vera magnanimità. Non a caso P. scrive che oggetto della virtù della magnanimità è l’onore, che può essere acquisito in alto grado soltanto nell’agire politico. Il magnanimo deve avere due guide. Una è ovviamente la giustizia, l’altra è la prudenza; e ciò spiega perché P. in questi stessi anni scriva appunto un trattato su questa virtù, che consente all’uomo di agire correttamente e intelligentemente nella vita concreta, guidandolo momento dopo momento. Non è dunque un caso se P. in questo testo dà uno spazio veramente rilevante agli esempi tratti dalla storia.
Ma anche su questo uomo magnanimo, al vertice delle qualità e delle virtù, incombe un fattore esterno incontrollabile: la fortuna, alla quale infatti P. dedica un altro trattato. La fortuna è qualcosa che sta fuori dall’uomo, che lo condiziona, lo ostacola o lo favorisce senza un criterio apparente, senza alcun rapporto con le virtù e i vizi degli uomini. Quante volte nella storia abbiamo visto la fortuna favorire esseri ignobili e colpire duramente animi nobilissimi. Desolata riflessione, legata ai tragici avvenimenti di quegli anni.
Sempre dall’angoscia di questi anni nasce la sua ultima amarissima opera: De immanitate, la «matta bestialità», come è stata efficacemente tradotta in italiano da Giuseppe Toffanin (1938, p. 88). Si parla di immanitas quando l’uomo ha abbandonato la sua stessa natura per precipitare in una condizione che va oltre il vizio, per grave che sia. Non è neppure una condizione animalesca, perché nella matta bestialità l’uomo opera atti così nefandi che neanche le belve osano compierli. L’immanità annulla la ragione e la volontà dell’uomo, conducendolo a una radicale perversione, lasciandolo in balia delle sole sensazioni di piacere e dolore. La crudeltà, per es., per quanto feroce, può essere soltanto un vizio quando, pur eccedendo nel modo, è usata in guerra per avere necessarie informazioni da un prigioniero; ma cade nell’immanità se è fine a se stessa, praticata soltanto per diletto. Si noti che l’ingresso nell’immanità secondo P. è sempre volontario, anche se, una volta compiuto il passo, i comportamenti disumani diventano automatici, mossi dal mero istinto.
Eppure questo testo amarissimo si conclude con un duplice atto di speranza: in Dio e negli studi. Anche nelle situazioni più tragiche dobbiamo avere fiducia in Dio e rivolgerci a lui con fede, cercando di assomigliare agli esseri celesti. Vi riusciremo se ci allontaneremo quanto più è possibile dai comportamenti bestiali e seguiremo la via della ragione. Per conseguire questo fine lo strumento più efficace sono proprio le lettere, gli studia humanitatis, che hanno in sé la scienza della virtù e possono pertanto educare i nostri costumi, liberarci dalla ferocia indegna dell’uomo e condurci a costumi sociali e pacifici.
Oreste Tommasini afferma drasticamente: «È innegabile, per chiunque lo percorra, che il trattato del Pontano, per quanto diverso dal Principe, à esercitato pur esso grande potenza sulla mente del Machiavelli» (Tommasini 1911, 2° vol., p. 114). Dopo questa manifestazione di entusiasmo giunsero invece i dubbi in un altro studio assai significativo nella storia critica machiavelliana: la pubblicazione nel 1938 del lavoro di Allan H. Gilbert, Machiavelli’s Prince and its forerunners. The Prince as a typical book de regimine principum. L’autore esamina le possibili fonti o consonanze tra i testi sul principe del Medioevo e dell’Umanesimo e i singoli capitoli del Principe. Secondo Gilbert tempi e luoghi rendono probabile che M. abbia letto il testo di P., ma non possiamo affermarlo con certezza. Vi sono somiglianze che potrebbero derivare dalla lettura diretta del De principe, ma anche da altre opere appartenenti al medesimo genere letterario. Pertanto «quali testi del genere de regimine principum Machiavelli abbia sicuramente letto resta ignoto» (Gilbert 1938, 1968, p. 11).
Come si vede già da questi soli due giudizi così radicalmente contrastanti il problema degli effettivi rapporti tra l’opera di P. e quella di M. è particolarmente spinoso e complesso, tale da aver dato vita a tesi molto diverse tra loro e a discussioni non ancora giunte a una soluzione efficace. Molti sono infatti gli elementi dei quali si deve tener conto.
Il primo problema è quello della cultura di M., fondamentale per riuscire a individuare i rapporti tra i suoi scritti e quelli degli altri, contemporanei o precedenti che siano. Conosceva bene la letteratura umanistica e i grandi classici resi più disponibili dall’intensa attività di riscoperta e di edizione sviluppatasi durante tutto il Quattrocento? Oppure il fondamento della sua cultura deve essere individuato piuttosto e soprattutto nella letteratura politica e storica in volgare del 15° sec. fiorentino e più generalmente toscano e italiano? La discussione è ancora in corso (Bausi 1998; Martelli 1998). In particolare: M. conosceva direttamente il De fortuna di Pontano? La risposta potrebbe trovarsi in uno scambio di lettere tra Francesco Vettori e Machiavelli. Il 15 dicembre 1514, da Roma, Vettori scrive di avere letto nei giorni precedenti il De fortuna appena stampato (Lettere, pp. 340-41); il 20 M. risponde: «E conosco ogni dì che gli è vero quello che voi dite, che scrive el Pontano» (Lettere, p. 345). Per Gennaro Sasso la frase di M. implica una lettura dell’opera pontaniana (Sasso 1993, p. 43). Per Francesco Bausi le parole di M. dicono solo che egli approva quello che, secondo Vettori, P. avrebbe detto; e dunque M. non avrebbe letto direttamente il De fortuna (Bausi 2005, p. 142).
L’influenza di P. sull’ambiente fiorentino non passava soltanto attraverso le sue opere, ma anche attraverso i contatti personali. Bernardo Rucellai (→) diede vita alle riunioni dotte e animate che avevano luogo negli Orti Oricellari (→), il giardino di famiglia, dove convenivano altri protagonisti della Firenze politica e colta. Dopo la sua morte (1514) le riunioni continuarono con il figlio Cosimo, al cui gruppo si avvicinò anche Machiavelli.
Bernardo Rucellai aveva conosciuto P. nel 1486 a Napoli, dove si era recato come ambasciatore. Lo aveva poi incontrato una seconda volta, sempre a Napoli, durante una successiva ambasceria a Carlo VIII di Francia nel 1495, quando aveva anche partecipato con P. e altri a un vivace dibattito su come si deve scrivere di storia; dibattito del quale Bernardo aveva informato Roberto Acciaioli con una lunga lettera. Il risultato di questi contatti e della conoscenza delle opere di P. fu che «dopo la morte di Ficino, il ruolo di oracolo e guida intellettuale per i più importanti cittadini di Firenze fu assunto da uno statista e umanista napoletano, Giovanni Pontano» (Gilbert 1949, trad. it. 1964, p. 15). Ne consegue che idee e spunti provenienti da P. potevano ben essere presenti in Firenze anche a chi non ne avesse letto le opere. Più tardi Giovanni Corsi, anch’egli legato al gruppo degli Orti Oricellari, aveva incontrato P. durante un suo soggiorno a Napoli tra il 1501 e il 1503. Aveva così avuto occasione di vedere il De prudentia e di discuterne con l’autore che, non soltanto gli aveva consentito di leggerlo, ma anche di copiarlo. Tornato a Firenze, nel 1508 Corsi ne aveva curato la stampa presso i Giunta, premettendo una sua lettera di dedica a Cosimo de’ Pazzi, arcivescovo di Firenze, nella quale illustrava anche il forte legame tra P. e i fiorentini, e tra essi spiccava B. Rucellai.
M. ha visto questa edizione fiorentina del De prudentia? Non abbiamo prove, ma è possibile e anche probabile. Molti sono i punti di contatto tra il De prudentia e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, sui quali si sono soffermati Brian Richardson e Carlo Ginzburg. Soprattutto la lunga serie di esempi del quarto e quinto libro del testo pontaniano si presenta come un’efficace anticipazione del lavoro machiavelliano. Nell’uso degli esempi tratti da Livio nessun altro testo del tempo ha con i Discorsi un parallelo più stretto di quello che esiste con il De prudentia (Richardson 1971, p. 357). In conclusione: anche se il percorso può essere ricostruito soltanto in parte, «il De prudentia di Pontano deve aver giocato un ruolo importante nello sviluppo di Machiavelli in un momento precedente i Discorsi» (Ginzburg 2009, pp. 124-25).
Bibliografia: Le opere di seguito citate sono tutte tratte da Opera omnia soluta oratione composita, 1° vol., Venezia 1518: De obedientia, cc. 1-48; De fortitudine, cc. 49-86; De prudentia, cc. 147225.
Si vedano inoltre: De magnanimitate, a cura di F. Tateo, Firenze 1969; De immanitate liber, a cura di L. Monti Sabia, testo latino e trad. it., Napoli 1970; De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore, De conviventia, in I libri delle virtù sociali, a cura di F. Tateo, testo latino e trad. it., Roma 1999; De principe, a cura di G.M. Cappelli, testo latino e trad. it., Roma 2003; La fortuna, a cura di F. Tateo, testo latino e trad. it., Napoli 2012.
Per gli studi critici si vedano: O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2 voll., Torino-Roma 1883-1911 (rist. anast. Bologna 1994-2003, con aggiunto un Indice dei nomi, delle opere e dei luoghi, a cura di C. Farnetti, M. Tarantino); A.H. Gilbert, Machiavelli’s Prince and its forerunners. The Prince as a typical book de regimine principum, Durham 1938, New York 19682; E. Percopo, Vita di Giovanni Pontano, a cura di M. Manfredi, Napoli 1938; G. Toffanin, Giovanni Pontano fra l’uomo e la natura, Bologna 1938; F. Gilbert, Bernardo Rucellai and the Orti Oricellari. A study on the origin of modern political thought, «Journal of the Warburg and Courtauld institutes», 1949, 12, pp. 101-31 (trad. it. in Id., Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna 1964, pp. 7-48); F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini. Politics and history in sixteenth-century Florence, Princeton 1965 (trad. it. Torino 1970); M. Santoro, Fortuna, ragione e prudenza nella civiltà letteraria del Cinquecento, Napoli 1967, 19782; B. Richardson, Pontano’s De Prudentia and Machiavelli’s Discorsi, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1971, 33, pp. 353-57; V. Kahn, Rhetoric, prudence and skepticism in the Renaissance, Ithaca-London 1985; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2 voll., Bologna 1993; F. Bausi, Machiavelli e la tradizione culturale toscana, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ott. 1997, Roma 1998, pp. 81-115; M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Roma 1998; C. Finzi, Re, baroni, popolo. La politica di Giovanni Pontano, Rimini 2004; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005; C. Ginzburg, Pontano, Machiavelli and prudence. Some further reflections, in From Florence to the Mediterranean and beyond. Essays in honour of Anthony Molho, a cura di D. Ramada Curto, E.R. Dursteler, J. Kirshner et al., Firenze 2009, pp. 117-25.