PRATI, Giovanni
PRATI, Giovanni. – Nacque il 27 gennaio 1814 a Campomaggiore, vicino a Trento, da Carlo, funzionario del fisco («cancellista provinciale»), e da Francesca de Manfroni, figlia di un medico.
La nonna paterna, Giustina, discendeva da Girolamo Savonarola. Ebbe una sorella, Massimiliana. Prati studiò al collegio di Trento, distinguendosi nella composizione di versi in latino. Il 23 ottobre 1834 sposò Elisa Bassi, da cui ebbe Riccardo, Rita (morti infanti) ed Ersilia. Si iscrisse alla facoltà di legge all’Università di Padova, distolto però dalla scrittura poetica e dalla frequentazione del caffè Pedrocchi, dove cominciò a manifestare il suo patriottismo antiaustriaco. Dopo aver composto la cantica Giselfo (1834), pubblicò un volume di Poesie per i tipi Cartallier (Padova 1836), improntato al vago sentimentalismo e alla pensosità malinconica che sarebbero stati tratti distintivi di parte della sua lirica a venire, insieme ai debiti nei confronti del romanticismo europeo.
Terminati gli studi legali nel 1838, sostenne il primo esame di grado per il conseguimento della laurea, cui rinunciò per dedicarsi all’attività letteraria. Redasse così le odi La Donna e L’uomo (1839), che inviò in dono ad Alessandro Manzoni. Nello stesso anno compose la tragedia lirica La Marescialla d’Ancre (da La Maréchale d’Ancre di Alfred de Vigny), con musiche di Alessandro Nini, e il carme Le due scuole, per le nozze Cittadella-Pappafava, che metteva a confronto la moda classica con quella romantica. Il 29 marzo 1840 morì, venticinquenne, la moglie Elisa; evento di cui fu ritenuto responsabile, a causa della sua noncuranza coniugale, dalla crescente schiera dei suoi denigratori e dalla polizia austriaca, che non gradiva i suoi atteggiamenti liberali. Il lutto fu occasione per l’elegia In morte di sua moglie.
Dopo un breve soggiorno a Venezia, dove incontrò Luigi Carrer e pubblicò i Sei canti lirici con i tipi del Gondoliere (1840), subì una breve prigionia a Padova per la stampa dell’idillio I fiori nella strenna Il dono di primavera (1839), in cui si celebrava una donna, Atilia, chiaro anagramma di Italia.
Il 1841 fu l’anno della novella in endecasillabi sciolti Edmenegarda pubblicata dall’editore Ubicini di Milano, dove Prati si era trasferito.
L’opera trasfigurava la vicenda di Ildegarda Manin Merryweather, sorella di Daniele. La protagonista, andata in sposa a un inglese, si invaghisce di un altro uomo, salvo poi far ritorno dal marito. Clamoroso successo di pubblico nonostante l’argomento audace per l’epoca, la novella fu stroncata da Carlo Tenca nel Corriere delle dame del 10 gennaio 1842.
A Milano incontrò Manzoni, Giovanni Torti e Luigi Grossi e lesse Johann Wolfgang Goethe. Vi frequentò poi il salotto della contessa Clara Maffei, dove conobbe Giuseppe Verdi. Sull’album della contessa vergò i versi Ad Olga (1841), forte di una capacità di improvvisazione poetica che gli diede notorietà. Nel 1843 apparvero a Milano due volumi di versi per Ubicini; il primo con i Canti lirici (apprezzati da Manzoni), il secondo con i Canti per il popolo e le Ballate (che piacquero a Niccolò Tommaseo).
Nello stesso anno si trasferì a Torino, dove fu presentato a Carlo Alberto. Prati vide nel sovrano sabaudo l’attuatore delle sue aspirazioni patriottiche, come testimoniato dalla stesura di quell’inno per una fanfara militare, commissionatogli dal monarca stesso, che per il poeta fu occasione per una celebrazione reale intrisa di retorica prequarantottesca e di reminiscenze manzoniane nell’auspicio di una sola patria. A Torino si strinse d’amicizia con Cesare Balbo, Angelo Brofferio, Antonio Baratta e Pier Antonio Paravia.
L’imperversare di calunnie dovute al ministro Josef von Sedlnitzky e alla polizia, nonché le invettive letterarie lanciategli da Felice Romani (in risposta a una sua satira che lo prendeva di mira), lo spinsero alla composizione de Il calunniatore, nello schema del Cinque maggio manzoniano. Nel 1843 pubblicò a Torino le Lettere a Maria (in prosa) sull’Esposizione di belle arti di Torino, cui seguirono l’anno successivo i sonetti di Memorie e lacrime per i tipi di Marietti e i Nuovi canti per Fontana, fra cui spiccava A Luigia Abbadia per l’apostrofe all’Italia.
Accusato di blasfemia, gli fu chiesto di lasciare il Piemonte. Nonostante la lettera di difesa al comandante di polizia Silvestro Lanzavecchia de Buri, solo l’intervento di amici a corte, fra cui Paravia, poté fargli ottenere un differimento della partenza. Colpito da un attacco di emottisi, durante la convalescenza scrisse i Versi composti in occasione che monsignor Donaudi, vicario generale di Saluzzo, celebrava dopo cinquant’anni la sua prima messa a testimonianza del suo credo cattolico.
Nel 1845 tornò in Trentino, dove ideò le ballate Armede e I Bagni di Comano. Fu quindi a Venezia nel 1846, dove videro la luce il carme Vittor Pisani, che rievocava un episodio della battaglia per il possesso di Chioggia, e un’ode alla danzatrice austriaca Fanny Elssler. Dalla laguna, percorsa da spiriti repubblicani, dovette allontanarsi, facendo però in tempo a comporvi un canto Alla santità di Pio IX e uno All’Italia, auspicante il ritiro dello straniero usurpatore senza spargimenti di sangue. A Treviso, nello stesso anno, dettò una poesia, A Carlo Alberto, nel metro della Pentecoste manzoniana e si rammaricò in una lettera a Brofferio della stroncatura di Tenca all’indirizzo delle sue Passeggiate solitarie (Padova 1847).
Fu a Padova, tenuto d’occhio dalla polizia austriaca e dal consigliere Ludwig Call von Rosenberg. Intimatogli di lasciare la città euganea nel gennaio 1848, fu tenuto in stato di fermo in carcere. Durante la prigionia, debilitato dalla febbre, compose Dalle carceri di Padova e scrisse a Rosenberg di essere persona innocua e solo di passaggio, avendo intenzione di visitare la figlia in collegio a Vicenza. Prima di lasciare la città, il 23 febbraio, stese la lirica L’8 febbraio in Padova, nata dallo sdegno per un attacco agli studenti perpetrato dalla polizia austriaca. Sempre nel 1848 tornò a Trento, dove declamò alla folla un suo Inno nazionale, poi a Venezia, dove propugnò il fusionismo, e a Treviso, dove arringò i contadini sollecitandoli alla difesa della patria. Nella città lagunare concepì il canto Via lo straniero e invitò gli italiani a proseguire l’offensiva contro gli austriaci all’indomani di Goito (Dopo la battaglia di Goito).
Arrestato durante una dimostrazione antialbertista e allontanato da Venezia, Prati giunse l’8 settembre 1848 a Firenze, dove neppure il ministero di Giuseppe Montanelli e Domenico Guerrazzi tollerava gli albertisti. Inizialmente sembrò propendere per il loro governo democratico; poi, temendo che la politica toscana entrasse in rotta con la linea sabauda, dedicò a Montanelli (che pure aveva ammirato) alcuni sonetti satirici. Il 13 novembre nel Circolo politico di Firenze si dichiarò contrario alla repubblica democratica e a favore del governo di principe e popolo. Il 14 dicembre fu malmenato al caffè Ferruccio perché ritenuto l’ispiratore di una vignetta satirica apparsa qualche giorno prima sul giornale La Vespa. A dispetto delle sue proteste, fu bandito dal Granducato la sera stessa come perturbatore dell’ordine pubblico (ma forse anche per l’invidia letteraria di Guerrazzi nei suoi confronti). Colpito ancora da emottisi, poté lasciare Firenze il 26 dicembre.
Nel periodo fiorentino compose il canto Armi! Armi! e l’elegia filosabauda Dolori e giustizie, edita a Torino, dove Prati tornò nel 1849. Nella capitale sabauda diede alle stampe una lettera sul periodico Il Risorgimento, in cui si rivolgeva ai suoi detrattori, e compose un Inno al Piemonte, glorificando inoltre casa Savoia in una canzone A Gino Capponi. La débâcle dell’esercito sardo del 23 marzo 1849 lo gettò nello sconforto e gli ispirò le liriche I morti di Novara e All’esercito dopo Novara. La scomparsa del sovrano, avvenuta il 9 agosto 1849, lo spinse poi all’elaborazione delle odi In morte di Carlo Alberto, dedicata a Manzoni (di cui riprendeva lo schema del Cinque maggio), e All’arrivo delle ceneri di Carlo Alberto, con dedica a Balbo, che conteneva il saluto al nuovo re Vittorio Emanuele II.
Nel 1850 indirizzò un canto, A Ferdinando Borbone, reo di avere abbandonato la causa sabauda dopo le sconfitte dei piemontesi. Sposata la cantante Lucia Arnaudon nel 1851, scrisse l’ode A Luigi Napoleone III nello stesso anno, suggeritagli dal colpo di Stato del 2 dicembre, nella convinzione che la Francia potesse aiutare l’Italia contro l’Austria. Nel 1852 pubblicò a Firenze i canti di Storia e fantasia e progettò un quadro di storia dell’umanità in versi, di cui apparve solo il poema Jelone di Siracusa o la battaglia di Imera (Torino 1852). Nel 1853 compose il poema Rodolfo – il cui protagonista, diviso fra due donne, viaggiava nel Nuovo Mondo e in Terrasanta, salvo tornare in Italia e morire eroicamente nel 1848 – e due anni dopo il fantasioso Satana e le Grazie (Pinerolo 1855), criticato da Francesco De Sanctis, che si chiedeva cosa l’autore volesse intendere con quel poema, la cui vicenda prendeva avvio da un curioso patto fra il principe delle tenebre e le tre divinità. Nel 1856 apparvero a Torino due volumi di Nuove poesie (il primo tomo contenente il poema Il conte di Riga e il secondo alcune ballate) e il melodramma La Vergine di Kent, musicato da Angelo Villanis. Nello stesso anno indirizzò una lettera ad Alphonse de Lamartine, difendendo la Commedia dantesca che il poeta francese aveva definito una gazzetta dei fatti fiorentini della sua epoca. Nel 1857, in una epistola a Camillo Benso conte di Cavour, esaltò ancora la politica del Piemonte e il sovrano sabaudo. Insignito della qualifica di storiografo di corte, si diede nel 1859 alla stesura del poema Amedeo VI il conte verde, mentre nel 1860 pubblicò a Pinerolo e a Napoli la silloge lirica Vade mecum, una Marsigliese degli Italiani per la spedizione dei Mille, e a Torino il poema Ariberto; rifiutò inoltre la cattedra di eloquenza italiana all’Università di Bologna per dedicarsi alla poesia.
Nell’aprile 1862, nella Torino divenuta capitale italiana (evento per cui scrisse l’inno La Pasqua d’Italia) fu eletto membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e alla fine di ottobre dello stesso anno deputato per il collegio di Penne, in Abruzzo, nelle fila della Sinistra. Il 9 ottobre 1865 seguì il governo nella neocapitale Firenze. Quando, durante la terza guerra di indipendenza, le truppe garibaldine avanzarono in Trentino, cominciò a sperare nell’imminente liberazione della sua regione. Svanito il sogno dopo l’armistizio di Cormons, su suggerimento del conterraneo Angelo Ducati si recò in missione diplomatica a Parigi il 22 agosto 1866, per perorare la causa trentina presso la corte imperiale francese. Grazie a Costantino Nigra, ambasciatore d’Italia a Parigi, ottenne un invito a Saint Cloud, residenza estiva dell’imperatore. Al ritorno in patria, deluso dopo il trattato di Vienna, omaggiò comunque i garibaldini che gli avevano permesso di sognare la redenzione trentina (Dopo Bezzecca) e si congratulò per l’annessione del Veneto (L’entrata in Venezia: inno al Re).
Nel 1868 Prati pubblicò a Firenze, presso Barbera, il poema Armando, il cui protagonista, affetto da malattia morale, rappresentò uno dei primi esempi di ‘inettitudine’ della letteratura italiana. Fece dono di una traduzione del quinto libro dell’Eneide a Umberto di Savoia il giorno delle nozze con Margherita e proseguì la composizione di carmi latini iniziata nel 1867 con Cynophilis nugae.
A Roma, dove si era trasferito nel 1871, scrisse il carme In morte di Alessandro Manzoni (1873). Nel 1875 uscì a Milano per Guigoni una raccolta in cinque volumi di quasi tutte le sue sillogi (Opere varie) e nel 1876 Psiche (cinquecentocinquantaquattro sonetti) per la padovana Sacchetto. Nello stesso anno ottenne un seggio senatoriale (che aveva chiesto più volte anni prima all’amico Urbano Rattazzi). Nel 1878 infine apparve Iside, sua ultima raccolta poetica, per la Tipografia del Senato. Divenuto funzionario del ministero della Pubblica Istruzione, prese la direzione dell’Istituto superiore di Magistero, fondato dall’allora ministro De Sanctis. Fu socio dell’Accademia della Crusca dal 28 giugno 1881.
Morì a Roma, assistito dalla moglie, dalla figlia e dagli amici Aurelio Costanzo e Oreste Barattieri, il 9 maggio 1884, a seguito del colpo apoplettico che lo aveva paralizzato tre anni prima.
Sepolto a Torino, le sue ceneri furono traslate a Dasindo nel 1923.
Fonti e Bibl.: In gran parte edito, l’epistolario di Giovanni Prati è per lo più conservato presso la Biblioteca comunale di Trento. Ulteriore materiale epistolografico si trova in altri archivi, fra cui il Fondo Henry Prior e il Fondo Luigi Rocca della Biblioteca civica di Torino, il Fondo Martini dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano di Roma, il Fondo Savio del Museo del Risorgimento di Torino, l’Accademia degli Agiati di Rovereto, la Biblioteca civica di Padova, la Biblioteca nazionale Braidense di Milano, la Raccolta Lantosca della Biblioteca Angelica di Roma, l’Accademica dei Concordi di Rovigo.
C. Giordano, G. P., Torino 1907; G. Gabetti, G. P., Milano 1912; A. Zieger, G. P. poeta del Risorgimento, Trento 1982; M.L. Lepscky Mueller, La famiglia di Daniele Manin, Venezia 2005, pp. 26, 55-57, 71-75, 85, 88, 107, 118, 181, 183, 203, 219; «Ti scrivo dal tavolino di Dumas». Lettere edite e inedite di G. P., a cura di M.G. Caruso, Venezia 2012; Camera dei Deputati, Portale storico, http://storia.camera.it/deputato/ giovanni-prati-18140127#nav (3 febbraio 2016); Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale I senatori d’Italia, II, Senatori dell’Italia liberale, sub voce, http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/P_l2?OpenPage (3 febbraio 2016).