ROVEDA, Giovanni
– Nacque il 4 giugno 1894 a Mortara, in provincia di Pavia, da Francesco, operaio idraulico, e da Rosa Delfino, casalinga.
Ebbe un’infanzia poverissima. Dal padre, di orientamento democratico, ebbe le prime lezioni di politica. Frequentò le scuole sino all’età di tredici anni (arrivando alla seconda tecnica), quindi si trasferì a Torino, dove iniziò a lavorare come operaio litografo. Nel 1909 si iscrisse alla federazione giovanile socialista e negli anni seguenti partecipò attivamente alle dimostrazioni popolari prima contro la guerra di Libia (1911) e poi contro la prima guerra mondiale (1914). Richiamato alle armi nel 1915 come sergente di fanteria, non fu inviato al fronte per il suo orientamento politico.
Dopo la fine del conflitto si impegnò come organizzatore sindacale, divenendo nel 1919 segretario nazionale della Federazione italiana lavoranti in legno (FILIL), fondata nel 1901. Frequentò sin dal suo nascere la redazione di L’ordine nuovo, il settimanale fondato nel maggio 1919 da Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Angelo Tasca, trovandosi in consonanza soprattutto con quest’ultimo. Nel settembre del 1920 Roveda fu tra gli organizzatori dell’occupazione delle fabbriche, entrando negli organismi dirigenti della federazione socialista torinese e aderendo poi al partito comunista dalla fondazione. Nell’aprile di quell’anno divenne segretario della Camera del lavoro cittadina; subito dopo dovette occuparsi della serrata della FIAT e degli attacchi dello squadrismo fascista. Dal luglio 1922 fece parte della delegazione comunista nel consiglio generale della Confederazione generale del lavoro (CGdL). Le stragi operate dalle squadre di Piero Brandimarte tra il 18 e il 22 dicembre 1922 lo costrinsero a trasferirsi a Milano. Riprese la carica di segretario della FILIL, rappresentando i comunisti nella Confederazione. Al convegno della CGdL tenutosi a Milano il 23-25 agosto 1923 intervenne per respingere qualsiasi proposta di collaborazione con il governo fascista, ma – come ebbe poi a contestargli Togliatti – senza avanzare una proposta alternativa concreta. Di lì a poco venne delegato dal Partito comunista d’Italia (PCd’I) a seguire il lavoro sindacale della frazione ‘terzina’ (l’ala sinistra del PSI, così chiamata perché vicina alle posizioni della III Internazionale), in vista della sua fusione con il PCd’I. Alla conferenza nazionale clandestina di Como del PCd’I (18 maggio 1924), con Tasca e Antonio Graziadei firmò il documento programmatico della minoranza di destra. Quando in agosto Gramsci assunse la segreteria del partito, Roveda fu cooptato nel comitato centrale in rappresentanza della ‘destra’ (nei documenti è indicato con lo pseudonimo di ‘Primo’). In questo periodo nacque la figlia Vera, avuta dalla moglie Caterina Rossetto.
Nell’agosto del 1925 fu arrestato a Napoli, ma venne presto rimesso in libertà. Poté quindi partecipare al III Congresso del PCd’I (Lione, 20-26 gennaio 1926), durante il quale si schierò con Gramsci. Nominato membro candidato del comitato centrale, fece anche parte della delegazione del PCd’I al VI Plenum allargato del comitato esecutivo dell’Internazionale comunista (Mosca, 17 febbraio-15 marzo). Rientrato in Italia, riprese l’attività clandestina sino a un nuovo arresto, in novembre. Assegnato inizialmente al confino per cinque anni a Favignana, fu quindi compreso tra gli imputati del ‘processone’ (28 maggio-4 giugno 1928), con i massimi dirigenti del partito: Gramsci, Mauro Scoccimarro, Umberto Terracini e altri. Il tribunale speciale lo condannò a una delle pene massime: venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione.
Recluso nel carcere di Portolongone (isola d’Elba), il 7 settembre 1929 rifiutò di associarsi alla domanda di grazia che era stata presentata dalla madre. Subì una serie di trasferimenti in varie carceri: a Volterra (febbraio 1931), a Finale Ligure (maggio 1932), a Finalborgo, infine a Castelfranco Emilia, dove diresse il ‘collettivo’ comunista. Fu scarcerato il 1° marzo 1937, grazie a un riconteggio della pena a seguito di amnistie e condoni, ma già il 14 aprile, per «mancanza di segni di ravvedimento», fu assegnato per due anni al confino, prima a Ponza e poi a Ventotene. In settembre, per iniziativa del direttore della colonia penale, fu arrestato per «offesa all’onore di S.E. il capo del governo» e, con altri confinati, denunciato al tribunale speciale. Prosciolto per non luogo a procedere in novembre, fu tradotto nuovamente a Ventotene, con un prolungamento del confino sino al febbraio del 1944 per «cattiva condotta».
Nel luglio del 1939 – poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale – sull’isola giunsero molti antifascisti precedentemente confinati a Ponza, e Roveda poté ritrovare vecchi compagni di partito – come Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Pietro Secchia, Giuseppe Longo – ma anche conoscere militanti comunisti più giovani e personaggi di spicco dell’antifascismo di altra provenienza politica, come Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Sandro Pertini. Per soccorrere la famiglia con parte della ‘mazzetta’ (il sussidio giornaliero istituito nel 1926 dal governo per i confinati), si costrinse a un rigido regime alimentare, perdendo circa quaranta chili.
Nel febbraio del 1943, ottenuta una licenza per assistere la moglie malata, sfuggì alla vigilanza poliziesca e passò in clandestinità nella zona di Biella grazie all’aiuto di Umberto Massola, rientrato in Italia per riorganizzare il partito comunista. Per complicità nella fuga, la moglie fu per qualche tempo arrestata (Bruno Buozzi, che Roveda aveva incrociato casualmente alla questura di Torino, dove entrambi erano costretti a recarsi per gli obblighi della libertà vigilata, testimoniò che Caterina era all’oscuro dei piani di fuga del marito, favorendone il rilascio). In marzo Roveda riuscì a raggiungere Milano, dove – con Antonio Roasio, Celeste Negarville e Massola – lavorò all’organizzazione degli scioperi milanesi di quel mese.
Il giorno successivo alla caduta del regime fascista, il 26 luglio 1943, Roveda fu il primo a parlare alla folla raccoltasi in piazza Duomo a Milano; nel suo discoro espose tra l’altro i dodici punti che il Partito comunista italiano (PCI) – nuova denominazione del PCd’I dal 15 maggio – proponevano agli altri partiti per costituire un fronte nazionale d’azione. Il 1° agosto inviò un Promemoria al comandante della piazza di Milano, generale Vittorio Ruggero (firmandosi «Renato»), auspicando che come commissari straordinari dei sindacati fascisti fossero chiamati «due vecchi organizzatori della tradizionale CGL», se stesso e Ludovico D’Aragona (Secchia, 1973, pp. 70 s.). Il 4 agosto dalle colonne dell’Unità, firmandosi «segretario della Camera del lavoro di Torino», inviò un saluto agli operai della sua città, nel quale, con Giorgio Amendola (per il PCI) e Giuseppe Romita e Olindo Vernocchi (per il PSI), rinnovava a nome della direzione comunista il patto di unità d’azione tra i due partiti.
Intanto a Roma, il 1° agosto Buozzi accoglieva la proposta di Leopoldo Piccardi, ministro delle Corporazioni nel primo governo Badoglio, di commissariare i sindacati fascisti, ma solo se tra i commissari vi fossero stati anche dei comunisti. L’8 agosto il governo Badoglio nominò Roveda vicecommissario dei lavoratori dell’industria, ad affiancare, con il democristiano Gioacchino Quarello, il socialista Buozzi. In un’intervista al Corriere della sera, il 10 agosto, Roveda dichiarò che prima di accettare l’incarico avrebbe voluto «conoscere il parere del governo [...] anche sulle questioni di politica generale».
La questione dei commissari suscitò un acceso dibattito nei partiti antifascisti, e all’interno del PCI si profilò un ‘caso Roveda’. Infatti, ignari del fatto che la decisione di far accettare l’incarico a propri militanti era stata presa dalla direzione del partito (il ‘centro interno’), il 13 agosto i confinati di Ventotene scrissero una lettera a Roveda in cui esprimevano le loro perplessità; e Lettere di Spartaco (la principale tra le riviste clandestine pubblicate dai comunisti italiani residenti in Francia) arrivò a minacciare Roveda di espulsione dal partito «con infamia» (n. 47, 8 agosto 1943, pp. 15 s.). L’Unità clandestina di Milano il 12 agosto chiarì che l’incarico era limitato alle questioni sindacali «e non [doveva] significare adesione alla politica del governo», come i commissari avrebbero specificato in un loro documento pochi giorni dopo.
Poiché Pietro Badoglio non manteneva l’impegno a liberare i prigionieri e i confinati antifascisti, Roveda arrivò a minacciare, il 17 o il 18 agosto, uno sciopero generale. Nei centri industriali del Nord, e in particolare a Torino e Milano, però, gli operai, esasperati anche dagli intensi bombardamenti aerei effettuati dagli Alleati il giorno 16, scesero spontaneamente in sciopero, chiedendo la liberazione dei detenuti politici, l’allontanamento dei fascisti e dell’esercito dalle fabbriche e misure concrete per far cessare la guerra. Per far rientrare lo sciopero, Piccardi, Buozzi e Roveda si recarono al Nord, prima a Torino e poi a Milano. Il 29 agosto, tornato a Roma, Roveda (che utilizzava in quel periodo lo pseudonimo di ‘Nino’) partecipò alla riunione della direzione del partito, che – come avrebbe ricordato Amendola (cfr. Spriano, 1973, p. 355) – approvò le iniziative prese, «anche quelle dell’accettazione della nomina dei Commissari». Il 2 settembre fu tra i firmatari dell’accordo per il riconoscimento ufficiale delle commissioni interne (noto come Buozzi-Mazzini).
Roveda avviò con Buozzi e con il democristiano Achille Grandi le trattative per la costituzione di una confederazione sindacale unitaria, che continuarono anche sotto l’occupazione tedesca seguita all’armistizio dell’8 settembre tra il governo Badoglio e gli Alleati. Nelle intenzioni del PCI, Roveda avrebbe dovuto divenire il «capo della costituenda Confederazione generale del lavoro» (cfr. L. Longo, I Centri dirigenti del PCI nella resistenza, Roma 1973, p. 248), scartando l’ipotesi di indicarlo come ministro del Lavoro in un futuro governo di coalizione. Tra la fine di novembre e i primi di dicembre Roveda stilò un ampio Promemoria (firmandolo di nuovo «Renato») per definire la posizione dei comunisti nella discussione con socialisti e democristiani, sviluppando gli argomenti a sostegno della libertà di associazione sindacale e contro l’obbligatorietà auspicata dai socialisti. Tuttavia, il convegno sindacale che il 29 gennaio 1944 si tenne a Bari – all’insaputa delle trattative che si stavano svolgendo a Roma e in assenza degli interessati – confermò Buozzi alla testa della neonata Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), indicando Roveda e Grandi come vicesegretari. Dopo l’arresto di Roveda (si veda oltre), fu Giuseppe Di Vittorio a seguire per i comunisti le trattative che il 9 giugno 1944 portarono alla firma del ‘patto di Roma’ e alla costituzione della CGIL.
Nel frattempo, nella Roma occupata dai nazisti Roveda aveva trovato rifugio presso il pontificio seminario lombardo in piazza S. Maria Maggiore; ma nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 1943 vi fece irruzione la ‘banda Koch’ (un reparto speciale della polizia politica capeggiato da Pietro Koch), che lo arrestò insieme ad altre sei persone. Ritenuto uno dei più pericolosi sovversivi italiani, fu imprigionato nel carcere romano di Regina Coeli, poi trasferito a Firenze, quindi a Padova e infine, il 6 gennaio 1944, a Verona, nel carcere degli Scalzi, dove erano detenuti i membri del Gran Consiglio del fascismo che il 25 luglio 1943 avevano votato contro Benito Mussolini. Il 17 luglio 1944 un’unità dei Gruppi di azione patriottica (GAP) penetrò nel carcere con i mitra spianati, proprio mentre Roveda era a colloquio con la moglie; nella sparatoria che ne seguì morirono due partigiani e lo stesso Roveda rimase gravemente ferito. Trasferito clandestinamente a Milano, fu reintegrato nella direzione provvisoria del PCI per l’alta Italia. «Verso la metà di settembre 1944» – avrebbe ricordato in Vigilia d’insurrezione a Torino (uno dei suoi rari articoli autobiografici), apparso sul mensile del PCI Rinascita nel novembre del 1945 – rientrò a Torino, ma a causa dei postumi della ferita e della sua notorietà in città dovette vivere in una «clausura assoluta». Non mancava però di intervenire autorevolmente sui problemi sindacali aperti, come il rapporto tra camere del lavoro e federazioni di categoria, l’organizzazione dei lavoratori agricoli e così via.
Alla liberazione di Torino, il 28 aprile 1945, su designazione della sezione piemontese del Comitato di liberazione nazionale (CLN), Roveda assunse la carica di sindaco, che mantenne per un anno e mezzo, sino alle elezioni comunali del 10 novembre 1946. Durante il suo incarico dovette affrontare problemi enormi e urgenti (approvvigionamento alimentare e idrico, assistenza, ricostruzione degli edifici, viabilità ecc.) con risorse scarse e una pressoché inesistente autonomia finanziaria. Per rivendicare una maggiore autonomia dei Comuni, Roveda organizzò il Congresso dei sindaci delle città capoluogo di regione (Roma, 4-5 gennaio 1946), ma il 20 luglio la direzione del PCI decise che Roveda tornasse al lavoro sindacale.
Nominato membro della Consulta nazionale (vicepresidente della commissione Industria e commercio), il 2 giugno 1946 Roveda fu eletto all’Assemblea costituente. Nella prima e nella seconda legislatura (dal 1948 al 1958) sarebbe stato eletto nelle liste del PCI al Senato. Il V Congresso del PCI (Roma, 29 dicembre 1945-6 gennaio 1946) lo elesse nel comitato centrale e lo riconfermò in direzione, organismi di cui avrebbe fatto parte sino al 1956. Successivamente fu membro della commissione centrale di controllo, di cui fu anche vicepresidente.
Lasciata la carica di sindaco, dopo un passaggio formale alla testa della Camera del lavoro di Torino venne eletto segretario della Federazione italiana operai metalmeccanici (FIOM) al IX Congresso nazionale (Torino, 5-9 dicembre 1946). Dopo la pesante sconfitta subita dalla FIOM alle elezioni per la commissione interna della FIAT il 29 marzo 1955 – passò dal 63,2% al 36,7% dei consensi –, nella sua riunione del 12-13 giugno il comitato centrale di questo sindacato elesse come segretario Agostino Novella. Chiamato a pagare per responsabilità politiche che erano dell’intera confederazione, Roveda si ritenne escluso anche dal direttivo della CGIL; per qualche tempo tornò a Torino, e il 25 settembre si rivolse al partito per chiedere di essere «utilizzato dalla Federazione torinese del Partito». Togliatti lo rassicurò con risposta del 6 ottobre, confermando che il suo ruolo restava quello di dirigente sindacale e, nel 1956, Roveda divenne presidente dell’lstituto nazionale confederale di assistenza (INCA) della CGIL – carica che mantenne sino al 1960 – e dell’Unione internazionale dei metallurgici, aderente alla Federazione sindacale mondiale.
Morì il 18 novembre 1962 a Torino per una flebite causata dalla pallottola che l’aveva colpito durante l’evasione dal carcere di Verona e che non gli avevano mai potuto estrarre.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, ad nomen; archivi del PCI e archivio della CGIL nei fondi degli organismi di cui Roveda fu membro.
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