SIGNORINI, Giovanni
– Nacque a Firenze il 9 dicembre 1810 da Lorenzo e da Cherubina Piazzini, coniugi di modeste condizioni sociali ed economiche.
Il padre, registrato come vinaio nel 1818, nel 1825 risulta ‘conciatore’, mestiere cui lo stesso Giovanni venne instradato conclusi malamente gli studi accademici (Firenze, Archivio storico dell’Accademia di belle arti [AABAFi], Ruoli degli scolari, 1818, 1825). A otto anni aveva iniziato a frequentare le lezioni di ornato sotto la guida di Luigi Levrier, che ne giudicò mediocre la disposizione all’arte; nel 1823 passò comunque al corso di elementi di disegno, e Giuseppe Bezzuoli, suo maestro, lo definì giovane di talento; in seguito, però, dovette sorgere un motivo di forte attrito fra i due, se nel 1825 Bezzuoli asserì con durezza che l’allievo non aveva «nessuno ingegno», e fargli proseguire gli studi sarebbe stato «un tradire lui e i suoi genitori» (AABAFi, Ruoli degli scolari, 1825). Nonostante ciò, Signorini proseguì nel suo intento di divenire pittore e nel 1839 esordì all’esposizione annuale dell’Accademia con due copie, una Marina da Salvator Rosa e una da Claudio Lorenese (Gazzetta di Firenze, n. 121, 8 ottobre 1839).
A quella data era già sposato da anni con Giustina Santoni, «possidente» – così la definì il figlio Telemaco nel 1892 stilando una sua biografia (Somarè, 1926, p. 277) –, con la quale ebbe tre figli, Egisto, Telemaco e Paolo. L’esercizio di copia dall’antico, che gli era stato d’ausilio per impratichirsi nell’arte, dovette rappresentare anche una fonte di reddito, poiché le richieste dell’artista per ottenere i permessi di copiare nella Galleria Palatina si susseguirono con cadenza regolare dal 1839 al 1859, e riguardarono essenzialmente opere di Rosa: le due Marine, la grande e la piccola, e la Selva dei Filosofi.
Da allora la sua presenza alle esposizioni annuali dell’Accademia fu pressoché costante per tutto il decennio. Nel 1841 prese parte alla mostra con opere d’invenzione: Paese con mulino, Paese con flutti agitati, Marina in calma (Gazzetta di Firenze, n. 120, 7 ottobre 1841). Nel frattempo la sua attenzione andò focalizzandosi, in consonanza con un gusto diffuso durante la Restaurazione, sulle vedute chiaramente identificabili, come attestano i titoli dei quadri presentati all’Accademia nel 1842, dove, oltre a una Marina non meglio definita, figurarono due vedute fiorentine, una dal Monte alle Croci, cioè da S. Miniato al Monte, l’altra dal Pignone, e una del Ponte alla Badia (ibid., n. 123, 13 ottobre 1842).
Se la decisione di dedicarsi alla pittura di paese, e in particolare alla veduta, dipese con ogni probabilità dal generale interesse per quel genere che ne assicurava il facile commercio, e anche dalle difficoltà dell’artista ad affrontare la figura umana data la mancanza di un solido percorso scolastico, è pur vero che padronanza del colore e freschezza d’immaginazione permisero a Signorini di sondare con acume le possibilità narrative della veduta urbana animata. «Bell’effetto» e «fedeltà» al soggetto rappresentato divennero i principali motivi d’apprezzamento dei quadri signoriniani, capaci di suggerire con interezza e vivacità i costumi e la cultura dell’epoca, come metteva in risalto Anton Maria Izunnia, critico sensibile ed estimatore dell’artista (Izunnia, 1843); persino Pietro Estense Selvatico (1843, p. 18) espresse un parere favorevole riguardo alle vedute di Signorini.
Nel 1843 fu la volta di Veduta dell’Arno da sopra il ponte a Rubaconte (oggi alle Grazie), Veduta dell’Arno dal Ponte Vecchio e I fuochi d’artificio dal Ponte alla Carraia, il primo dei quadri dell’artista che rappresentano feste fiorentine, acquistato alla mostra dal granduca Leopoldo II, che a distanza di pochi mesi gli chiese una raffigurazione della disastrosa inondazione del Serchio, il fiume che nasce in Garfagnana e si getta in mare a Migliarino, avvenuta nel gennaio del 1843. Signorini ne dette due versioni che, nella drammatica descrizione del paesaggio bruttato dalla natura, rivelano puntuali riferimenti alla tradizione della pittura di paese secentesca, anche olandese, di cui egli poté avere conoscenza diretta grazie alla frequentazione della villa Demidoff di S. Donato in Polverosa, di cui a quel tempo stava decorando con affreschi raffiguranti Le arti liberali il soffitto del Salotto Verde, detto anche di Greuze (Le meraviglie...,1858, p. 15).
Nel giugno del 1845 le due versioni dell’Inondazione del Serchio, ordinate dal granduca in concomitanza con il dipinto del medesimo soggetto richiesto a Enrico Pollastrini, vennero presentate a Pisa per la Luminara di S. Ranieri, e nell’ottobre all’Accademia di Firenze insieme a La corsa dei barberi al Prato e alla Befana in Mercato Nuovo, anch’esse entrate a far parte delle raccolte granducali. Quell’anno il pittore prese parte anche alla mostra della Società promotrice di belle arti, fondata allora, con tre vedute di Firenze e due versioni dell’Inondazione dell’Arno, avvenuta nel 1844 e causa di seri danni all’artista, che aveva lo studio in piazza S. Croce e l’abitazione in via de’ Pentolini (attuale via de’ Macci).
Al 1846 risale Berlingaccio in piazza Santa Croce, esposto nel settembre all’Accademia e lì acquistato da Leopoldo II per trenta zecchini. Insieme al Palio dei cocchi in Santa Maria Novella del 1844 – il quale, con I fuochi d’artificio dal ponte alla Carraia e la Corsa dei barberi al Prato, costituiva una sorta di trilogia dedicata alle celebrazioni ‘profane’ della festa di s. Giovanni Battista patrono della città –, i quadri che illustrano le feste tradizionali fiorentine ebbero numerose repliche, indicative del favore incontrato presso il pubblico, e dovuto, oltre che alla gradevolezza dei soggetti, alla capacità di evocare il clima di serena domesticità del governo lorenese. Atmosfera che impronta anche Il Lungarno con i lampioni a gas, dipinto del 1846 inteso a celebrare l’utilità di quell’innovativa sistemazione urbana e più volte ripetuto dall’artista. Il quadro, in parte memore delle vedute dell’Arno di Thomas Patch, indica l’attenzione con cui Signorini aggiornava i propri modelli adeguandoli alle espressioni più attuali della veduta urbana, prime fra tutte quelle dei fratelli Giuseppe e Carlo Canella presentate alle mostre fiorentine. Ma, certo, il dipinto più esemplificativo della distesa politica granducale è La festa delle bandiere per l’istituzione della Guardia Civica, 12 settembre 1847, quadro «patriottico» eseguito per Leopoldo II, come ricordava il figlio del pittore, Telemaco (Bietoletti, 2008, p. 237).
Nel frattempo Signorini, e lo attesta la Veduta di Firenze eseguita per un certo Daniel MacCarthy ed esposta all’Accademia nel 1844, insieme a una Veduta della città dal ponte sospeso sotto il poggio di San Miniato (Gazzetta di Firenze, n. 122, 10 ottobre 1844), aveva cominciato a lavorare per una clientela internazionale – soprattutto anglosassone – desiderosa di partire da Firenze con immagini affabili che rammentassero agli acquirenti il soggiorno in Toscana. Erano vedute risolte secondo cadenze differenti da quelle messe a punto per trattare le scene urbane popolate da vivaci macchiette immerse nella vita contemporanea; qui, aggraziate figurine di contadini e pastorelle intenti ora alla vendemmia ora alla mietitura appaiono nel primo piano, quasi una sorta di palcoscenico oltre cui la città si rivela avvolta nella luminosa atmosfera dorata esemplata sui dipinti di Claude Lorrain. Ne è un esempio la Veduta di Firenze dal Monte alle Croci datata 1856, oggi conservata alla Galleria d’arte moderna di palazzo Pitti, e richiesta al pittore da una signora inglese per farne un dono di nozze, come rivela la dedica sul retro (Paolozzi Strozzi, 1989).
Le vicende politiche del 1848-49 e la conseguente delusione nei confronti del governo granducale, adesso giudicato assai meno bonario e tollerante, furono probabilmente il motivo che indusse il pittore a trascurare le esposizioni; da quella data egli non presentò più opere all’Accademia, e solo nel 1852 partecipò alla Promotrice con un Interno di Santa Croce, tema fino allora estraneo al suo repertorio. In compenso, le richieste di copia alla Palatina non subirono flessioni, suggerendo la fertilità del suo commercio artistico, fonte di un benessere economico confermato nel 1854 dall’acquisto di una villa al Girone, sobborgo fiorentino in riva all’Arno.
Fin dalla metà degli anni Quaranta, la raggiunta notorietà e le apprezzate doti pittoriche avevano permesso a Signorini di tenere una scuola; fra i suoi allievi furono il paesista Emilio Donnini, un non meglio identificato Fantosini, autore di dipinti in stile macchiaiolo, e Lorenzo Gelati. Nel 1853 il veronese Vincenzo Cabianca giunse a Firenze per prendere lezioni dall’artista, che a quella data aveva come allievo anche il figlio Telemaco, al quale, dopo la morte del primogenito Egisto, alunno promettente di Enrico Pollastrini, aveva imposto di divenire pittore.
Fu con Telemaco che nel 1858 Giovanni intraprese un viaggio nell’Italia settentrionale, visitando Torino, il lago Maggiore, Milano, Brescia, il lago di Garda, Venezia.
Nel giugno del 1860, portata a termine un’ultima copia della Gran Marina di Salvator Rosa, si trasferì a Viareggio con la moglie e il figlio minore per trascorrervi l’estate, e là ricevette, fra le altre, la visita di Lorenzo Gelati (Lettere inedite ..., 1975, p. 110 nota 1).
Ammalatosi gravemente, smise di lavorare e morì a Firenze, a soli cinquantaquattro anni, l’8 agosto 1862 (Archivio di Stato di Firenze, Stato Civile della Toscana, Stato civile della Restaurazione (1861-1865), Morti, ad vocem).
Fonti e Bibl.: Firenze, Archivio storico dell’Accademia di belle arti [AABAFi], Ruoli degli scolari dell’Accademia di belle arti, anni 1816-1818, 1822-1824, 1825-1827; AABAFi, filza 37 C, 1848, inserto 154; Firenze, Archivio delle Gallerie Fiorentine, Conservazioni, filza VIII, 1839-1840, f. 30; filza XI, 1846-1848, ff. 17, 51; filza XII, 1849-1850, f. 37; filza XIII, 1851-1852, ff. 35, 65; filza XIV, 1853-1854, ff. 31, 60; filza XV, 1855-1856, ff. 33, 83; filza XVI, 1857-1858, ff. 34, 70; filza XVII,1859-1860, f. 45.
A.M. Izunnia, Sopra l’esposizione di oggetti pittorici e di statuaria alla fiorentina Accademia di Belle Arti, in Giornale del commercio, VI (1843), 41, pp. 162 s.; P.E. Selvatico, Dell’arte moderna a Firenze, Milano 1843, p. 18; Le meraviglie di San Donato, Firenze 1858, p. 15; E. Somarè, Signorini, Milano 1926; B.M. Bacci, L’Ottocento dei Macchiaioli e Diego Martelli, Firenze 1969, pp. 31, 33; Cultura neoclassica e romantica nella Toscana granducale. Sfortuna dell’Accademia (catal.), a cura di S. Pinto, Firenze 1972, pp. 223 s.; M. Pittaluga, Note sul pittore fiorentino G. S., in Antichità Viva, XII (1973), 6, pp. 19-28; Lettere inedite dei Macchiaioli, a cura di P. Dini, Firenze 1975, pp. 109 s.; S. Bietoletti, G. S. vedutista della Firenze granducale, in Bollettino d’Arte, s. 6, LII (1988), pp. 91-98; B. Paolozzi Strozzi, Scheda n. 13 in Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, Ottocento e Novecento. Acquisizioni 1974-1989, Firenze 1989, p. 42; C. Grisanti, in Firenze e la sua immagine. Cinque secoli di vedutismo (catal., Firenze), a cura di M. Chiarini - A. Marabottini, Venezia 1994, pp. 196-203, 293 s.; A.P. Torresi, Neo-medicei. Pittori, restauratori e copisti dell’Ottocento in Toscana, Ferrara 1996, pp. 194 s.; F. Dini, Telemaco Signorini, l’uomo e l’artista, in Telemaco Signorini, una retrospettiva (catal.), Firenze 1997, pp. 207 s.; S. Bietoletti, Il quadro di genere come avvio alla moderna pittura di storia in Toscana, in La pittura di storia in Italia, 1785-1870. Ricerche, quesiti, proposte. Atti delle Giornate di studio... Roma 2008, a cura di G. Capitelli - C. Mazzarelli, Cinisello Balsamo 2008, pp. 237-245; Ead., G. S., pittore del granduca, e la fortuna delle vedute di Firenze nel collezionismo internazionale, in Telemaco Signorini e la pittura in Europa (catal., Padova 2009-2010), a cura di G. Matteucci et al., Venezia 2009, pp. 60-65.