SORANZO, Giovanni
– Figlio di Vettore di Giovanni Soranzo, del ramo di S. Angelo, e di Bianca de’ Bugni, nacque a Venezia nel 1408.
Costituì a Rialto, a partire dal 1456, un nuovo banco Soranzo, che probabilmente ebbe l’obbligo di sottostare alle nuove norme stabilite dal governo della Repubblica di Venezia in occasione del fallimento del banco dei Soranzo ‘dal Banco’ (v. la voce in questo Dizionario). La prima attestazione relativa al nuovo banco finora rinvenuta riguarda un prestito di 1000 ducati allo Stato nel gennaio del 1456.
Giovanni Soranzo di Vettore non va dunque confuso – come è accaduto in sede storiografica – con Giovanni di Cristoforo Soranzo, fratello di Benedetto, fallito e fuggito insieme a lui nel 1455, e poi rientrato in città nel 1458. Ma anche questo ramo aveva piena consapevolezza di appartenere all’unica grande stirpe; nell’inventario del 1417 del padre del fondatore del banco nuovo, Vettore di Giovanni Soranzo di S. Angelo, troviamo otto cuscini «cum arma de cha’ Superantio» (Archivio di Stato di Venezia, Procuratori di S. Marco, misti, b. 160).
La madre di Giovanni era figlia di Pino e nipote di Giovanni de’ Bugni, immigrato da Cremona e il più ricco non nobile secondo l’estimo veneziano del 1379. Fu costei, insieme al figlio maggiore Pietro a presentare Giovanni alla prova di età per la Balla d’oro, nel 1426; Vettore era già morto.
Da giovane, Giovanni di Vettore fu coinvolto in «una seta bruta e dexonesta» (così il cronista Antonio Morosini, Il codice Morosini, 2010, p. 1663) di venticinque giovani nobili che avevano ideato un sistema per farsi eleggere in seno al Maggior Consiglio a uffici e reggimenti interessanti. I Dieci ne ebbero sentore nel gennaio del 1433 e aprirono un processo affiancati da una zonta e un collegio per la tortura; i cinque ritenuti maggiori responsabili del complotto ebbero pene pesanti (un bando a vita e quattro bandi di cinque anni con esclusione perpetua dai pubblici uffici); gli altri venti, tra cui Giovanni di Vettore Soranzo («qui se presentavit»), furono condannati a un anno di bando e a dieci di esclusione da consigli e uffici (Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci, miste, reg. 11, cc. 58r-63r). In seguito, la severità della sentenza fu riconosciuta e nel 1436 i venti ebbero ridotta l’esclusione alle cariche a soli sei anni. Con ogni probabilità questa vicenda rese più difficile a Giovanni e ai suoi figli accedere agli uffici negli anni seguenti, e anche per questo la partecipazione alla vita politica fu scarsa (Marino Sanudo, nelle Vite dei dogi, I, p. 118, lo etichetta già «dal bancho», anticipando i tempi di due decenni).
A partire dal 1455, il nuovo banco Soranzo si affiancò agli altri attivi a Rialto nel prestare soldi allo Stato, amministrando il debito pubblico fluttuante, continuando il costume seguito dal banco Soranzo della prima metà del secolo. Giovanni di Vettore era di casa nei corridori del potere, muovendosi tra i Camerlenghi, l’ufficio del Sal, il Collegio delle biave e i procuratori di S. Marco, forse più ancora di quanto aveva fatto Benedetto – il responsabile del fallimento del banco ‘primo’ – nel decennio precedente; il suo ruolo negli anni Sessanta fu cruciale per il funzionamento quotidiano della finanza pubblica, e i suoi figli continuarono, «moti charitate patrie» di prestare a necessità, «cum exemplo parentis sui» (Mueller, 1997, pp. 437-442).
Oltre al palazzo de’ Bugni sul campo San Polo, questo Giovanni «a Banco» (così cominciò a essere appellato nelle fonti, a partire dai primi del 1456) aveva ereditato da sua madre una tenuta, fundum, nel Cremonese, dalla quale intendeva portare il fructus a Venezia per via fluviale, lungo il Po.
Il 4 ottobre 1456 il doge Francesco Foscari mandò un breve al marchese Ludovico Gonzaga (allora non ancora diventato protettore del bancarottiere Benedetto), chiedendogli di permettere a Giovanni di far passare i prodotti della sua tenuta cremonese attraverso i territori di Mantova senza dover pagare dazi o gabelle.
Come banchiere Giovanni cercò altri modi per far soldi, mettendosi a prestare su pegno, in concorrenza con gli ebrei che formalmente prestavano a Mestre (lo Stato cercava di controllare questo mercato, limitandolo a piccole somme, fissando un tetto di 10 ducati per singolo pegno). Nel 1460, il banchiere tentò un colpo più grosso, mettendosi in combutta con due mercanti lucchesi per prestare 30.000 ducati al re di Sicilia, avendo come pegno un suo collare. Metà del denaro sarebbe stato messo a disposizione da Giovanni sulla base di un contratto fittizio: agenti del re avrebbero potuto reclamare il gioiello per 35.000 ducati in sedici mesi. Un affare del genere non era solo privato: incrociava gli affari di Stato e le autorità veneziane intervennero. Dopo aver avuto sentore dell’accordo ai primi di giugno, il Senato ordinò l’arresto dei tre; Giovanni si presentò volontariamente, ma chiese, per ragioni di salute e di età, di essere messo nella torricella del carcere, privilegio che gli fu concesso. Gli avogadori istruirono il processo portato davanti al Senato stesso. Il finto contratto fu annullato, il pegno depositato nella Procuratia di S. Marco e i tre furono multati per 1600 ducati, di cui la metà dovuta dal banchiere, il tutto pagabile ai provveditori alle Biave.
Nel maggio del 1468, al momento di fare testamento, Giovanni dovette sentire l’avvicinarsi di qualche problema serio con il banco e voleva anticipare questa eventualità. In modo del tutto eccezionale, egli nominò, tra i suoi esecutori, quattro procuratori di S. Marco (tra cui il futuro doge Nicolò Tron e Nicolò di Giovanni Soranzo, un membro del clan ma di un ramo distante), oltre ai tre procuratori de citra, non ex offitio ma «tamquam patres meos collendissimos»; e qualora non avessero potuto per legge servire come esecutori, che fossero consiliatores dei commissari. Tra questi ultimi, vi erano la moglie Lucia Paruta e i quattro loro figli: Pietro, Francesco, Benedetto e – quando sarebbe giunto all’età di 18 anni – il suo favorito Vettore (nato nel 1454). Nominò inoltre fra gli esecutori Vettore di Nicolò di Gabriele, cugino di Benedetto del banco vecchio (Archivio di Stato di Venezia, Notarile, testamenti, b. 1240, n. 203).
Questi e gli altri commissari dovevano innanzi tutto chiedere il consiglio del doge Cristoforo Moro per tutta l’amministrazione dell’asse ereditario, ma specialmente «utrum filii mei debeant tenere banchum de scripta vel non», cioè se continuare l’attività del banco o liquidarlo. La morte del titolare avvenne il 31 maggio 1468, tre giorni dopo il testamento. Gli esecutori dovevano rimettere i debiti di vari nipoti e decidere come distribuire ben 1000 ducati l’anno per dieci anni in elemosine.
La prima decisione fu di continuare l’operazione bancaria sotto l’amministrazione dei figli del banchiere appena deceduto. Sorse successivamente una questione di grande rilievo con la famiglia dell’esecutore Vettore di Nicolò Soranzo (v. la voce Soranzo, Vittore in questo Dizionario) e con i suoi sette figli; da essa si evince che i legami tra Giovanni Soranzo e i lontani parenti, proprietari e gestori del banco fallito, erano vivi e concreti, e che comune era il senso di appartenenza alla stirpe Soranzo.
Negli anni precedenti infatti Vettore di Nicolò e famiglia si erano serviti del banco di Giovanni di Vettore, quindi anche di quello dei figli, per prestiti gratuiti per un totale di 35.000 ducati, oltre allo scoperto sempre concesso; la famiglia debitrice promise solennemente di ripagare tutto in quattro rate annuali a partire dall’anno successivo. Si trattava di un vero regalo, all’interno del clan: come fa scrivere Vettore, i prestiti erano elargiti «ai mie bixogni [...], gratis et amore et in segno de l’amor che sempre se s’auto tra nui». Siamo di fronte al collegamento di casata tra i due rami Soranzo ‘dal Bancho’, vecchio e nuovo: il padre di Vettore, Nicolò, era membro della fraterna di Cristoforo di Gabriele e lo stesso Vettore fu etichettato «dal bancho» (al momento della Balla d’oro e di nuovo nel testamento della zia acquisita, Elena, vedova di Giorgio di Gabriele, nel 1462), e non è escluso che avesse dovuto contribuire a saldare conti del banco fallito (Archivio di Stato di Venezia, Notarile, testamenti, b. 1149, c. 140 rv). Giovanni di Vettore, del banco nuovo, non c’entrava, legalmente o economicamente, con il banco fallito, eppure ci teneva ad aiutare i membri della casata; per la stessa ragione, presumibilmente, aveva deciso di aprire un banco nuovo a Rialto nel 1455: per salvare l’onore della casata.
Il banco Soranzo nuovo fu amministrato dal primogenito del fu Giovanni, Pietro, e – quando giunse alla maturità prevista – da Vettore. La famiglia riuscì a intessere rapporti ad alti livelli.
Pietro, in seconde nozze, sposò nel 1467 Clara, figlia di Francesco Michiel e di Paola dal Verme, che portava in dote vaste terre nel veronese; il secondogenito Francesco sposò la nipote del doge Francesco Foscari; il terzo, Benedetto (v. la voce in questo Dizionario) divenne arcivescovo di Nicosia, con l’aiuto di Pietro.
Sembra che l’attività del banco abbia proceduto tranquillamente per un certo periodo, ma nel 1485, Pietro scrisse al fratello a Cipro che da otto anni gli affari avevano preso una brutta piega; chiese pertanto all’ecclesiastico di rientrare a Venezia per un’inevitabile divisione del patrimonio familiare. Se il loro padre si era stabilito a Rialto con molta discrezione, i suoi figli Pietro e Vettore poterono celebrare ‘a trombe e piffari’, il 21 aprile 1491, la liquidazione del banco, essendo riusciti a saldare tutti i conti.
In questo modo, i Soranzo del secondo ramo, continuatori del banco più longevo della storia di Venezia, riuscirono a scampare, giusto in tempo, la peggiore crisi bancaria della storia di Venezia, il panico del 1499-1500, che avrebbe rovinato le famiglie dei maggiori banchieri rimasti sulla piazza.
L’avvedutezza della decisione del 1491 di saldare il banco si manifestò negli anni a venire, tra le altre cose, con l’acquisto da parte di Jacopo, figlio di Francesco Soranzo dal Banco, del titolo di procuratore di San Marco nel 1522; di lui ci resta un celebre ritratto eseguito nel 1550 da Jacopo Tintoretto (opera conservata a Venezia, nelle Gallerie dell’Accademia).
Questo ramo continuò a restare lontano dalle cariche pubbliche, forse sempre a causa della ‘setta’ del 1433 (vedi supra), tuttavia, benché privi di un cursus honorum politico, i figli di Vettore di Giovanni furono ugualmente integrati all’apice della società patrizia veneziana. Alla festosa liquidazione del banco, nato per salvare la reputazione della stirpe, sarebbero presto seguite altre feste, nelle quali giocava un ruolo cruciale la famiglia Corner, legata, specie in linea femminile, ad ambedue i rami ‘dal banco’ dei Soranzo da più di un secolo, a partire dalla società commerciale tra Gabriele Soranzo, fondatore del primo banco, e Francesco Corner, figlio del doge Marco, nel tardo Trecento. Un legame di affari congiunto a uno di parentela: questo stesso Francesco, infatti, sposò Cristina di Remigio Soranzo e fu nonno di Fiordelisa d’Andrea Corner, che sarebbe stata data poi in sposa a Benedetto Soranzo (di Cristoforo di Gabriele), il cui banco fallì nel 1455 (v. la voce Soranzo dal Banco in questo Dizionario). Di un ramo laterale dei Corner era Isabella, sposa di Nicolò, pronipote di Gabriele. Nel ramo Soranzo di cui trattiamo qui, a fine secolo si registrò persino un doppio matrimonio, a distanza di un anno l’uno dall’altro: due fratelli con due cugine. Nel 1496 Giovanni «fo di ser Vetor fo dal banco» (M. Sanudo, I diarii, I, col. 384) sposò la figlia dell’uomo più ricco di Venezia, Caterina di Giorgio Corner, cavaliere e fratello di Caterina, regina di Cipro; nel 1497 l’altro figlio di Vettore, Alvise, sposò Lucia, figlia di Paolo Capello, cavaliere e procuratore di S. Marco, del fu Vettore Capello (anch’egli detto dal banco in quanto già socio, con i suoi fratelli, del banco di Tomà Lippomano almeno negli anni 1480-85), e di Elisabetta Corner, sorella della regina di Cipro e quindi zia di Caterina (di Giorgio Corner). Questi due matrimoni si inserivano in una stretta trama di parentele: la Fiordelisa già moglie di Benedetto Soranzo era cugina di secondo grado di Marco Corner, padre della regina di Cipro.
I due rami Soranzo dal Banco condivisero anche un rapporto speciale con i Gonzaga di Mantova, di cui si ha testimonianza almeno dal 1428 (lettera di Maffio di Gabriele Soranzo a Gianfrancesco Gonzaga). Alle nozze di Giovanni Soranzo, le cui «feste et pasti fonno sontuosissime» (M. Sanudo, I diarii, a cura di F. Stefani, 1879, I, col. 384), volle presenziare Francesco Gonzaga, capitano generale dell’esercito di Venezia e consorte di Isabella d’Este, il quale aveva fatto il suo solenne ingresso in città via Chioggia il giorno prima (il 21 novembre) della cerimonia. Inoltre, ai primi dello stesso 1496, fu Paolo Cappello, in qualità di ambasciatore e allora in procinto di diventare suocero di Alvise Soranzo, ad accompagnare Francesco Gonzaga e l’esercito veneziano verso Napoli.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, Carteggio estero, b. 1420, pergamena 6 e b. 1431 c. 25; Archivio di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, VII, b. 23, sp. rami ‘G’ e ‘L’; Avogaria di comun, Balla d’oro, reg. 162-I, c. 161v; Notarile, testamenti, b. 1235, n.127, b. 1240, n. 203; Senato Terra, reg. 5, c. 185; Collegio, Notatorio, reg. 10, c. 16v; Consiglio dei dieci, Miste, reg. 11, cc. 58r-63r, 147v; Procuratori di San Marco, Misti, b. 160, commisseria di Vettore di Giovanni (testamento del 1417); Rulers of Venice, banca dati a cura di B.G. Kohl - A. Mozzato - M. O’Connell, http://rulersofvenice.org/ (16 ottobre 2018); D. Malipiero, Annali veneti dall’anno 1457 al 1500, a cura di F. Longo - A. Sagredo, in Archivio storico italiano, 1843, vol. 7, p. 694; M. Sanudo, I diarii, a cura di F. Stefani, I, Venezia 1879, col. 384; Id., Le vite dei dogi, 1423-1474, a cura di A. Caracciolo Aricò, I-II, Venezia 1999-2004, ad ind.; Id., Le vite dei dogi, 1474-1494, a cura di A. Caracciolo Aricò, I-II, Roma-Padova 2001, ad ind.; A. Morosini, Il codice Morosini, a cura di A. Nanetti, I-IV, Spoleto 2010, ad ind. fino al 1426, dopo di che ad policem fino al 1433.
E. Lattes, La libertà delle banche a Venezia dal secolo XIII al XVII, Milano 1869; F. Ferrara, Gli antichi banchi di Venezia, in Nuova antologia, XVI (1871), pp. 177-213; Id., Documenti per servire alla storia de’ banchi veneziani, in Archivio veneto, 1871, vol. 1, pp. 106-153; A. Ventura, Cappello, Paolo, in Dizionario biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 808-812; R.C. Mueller, Sull’establishment bancario veneziano. Il banchiere davanti a Dio (secoli XIV-XV), in Mercanti e vita economica nella Repubblica veneta (secoli XIII-XVIII), a cura di G. Borelli, I, Verona 1985, pp. 45-103 (ora anche in www.rmoa.unina.it/1000/1/ RM-Mueller-Banchieri.pdf, 16 ottobre 2018); Id., The Venetian money market: banks, panics and the public debt, 1200-1500, Baltimore, 1997 (in partic. pp. 200-211, 230, 435-442, 571-573, 645 s., con qualche errore negli alberi genealogici, e le fonti ivi citate); J.-Ch. Rössler, I palazzi veneziani: storia, architettura, restauri. Il Trecento e il Quattrocento, Venezia 2010, pp. 92, 103, n. 4; Id., Giorgione a Ca’ Soranzo: nota a margine della mostra di Castelfranco, in Arte veneta, 2011, n. 67, pp. 155-157.