SPERANZA, Giovanni
(de’ Vajenti). – Figlio naturale dell’orefice Battista Vajenti e di una serva, Caterina da Zara, nacque a Vicenza intorno al 1470 con il nome di Giovanni Speranza. La notizia dei natali si evince dal testamento del padre, rogato il 26 giugno 1473, nel quale egli destinava le sostanze ai figli, affidati alla tutela del fratello Girolamo (Zorzi, 1916, p. 113). Questo come altri documenti furono pubblicati da Giangiorgio Zorzi agli inizi del XX secolo, dopo una sistematica ricognizione negli archivi notarili vicentini. Il pittore è conosciuto con il solo nome di battesimo perché egli stesso usava firmare le opere senza il patronimico Vajenti, di cui ben presto si perse la memoria.
Il 30 aprile 1489 il fratello Bonaventura, dopo essersi fatto frate, gli affidò la sua porzione di eredità, adeguandosi alle volontà testamentarie del padre (pp. 113 s.). Volendo riscattare quel lascito, il 2 maggio successivo la madre Caterina si rivolse a Matteo Pigafetta per legittimare il figlio. Il giurista vicentino accolse la supplica, convinto dalla «optima indole» del ragazzo, che al tempo non era ancora ventenne (p. 114).
Il 9 dicembre 1488 Speranza si trovava nella «contrata Sancti Laurencii in domo habitationis Bartholomei Montagna», il celebre pittore di cui fu allievo e forse collaboratore per un breve tempo (ibid.). Dopo l’apprendistato dovette mettersi in proprio, se è vero che il 3 novembre 1495 è definito magister in una lite alla quale aveva partecipato come arbitro insieme a Bernardino di Stefano di Alemagna, fratello di un Girolamo con cui divideva l’affitto di una casa (ibid.).
Della fase giovanile, trascorsa tutta nell’orbita di Montagna, non è dato sapere molto: perduto è, per esempio, l’oratorio dei Turchini nella chiesa di S. Corona, risalente al 1498, nel quale il maestro aveva dipinto «trentadue battuti e la Madonna sopra la porta», e Speranza «l’antipetto dell’altare» (Bortolan, 1889, p. 339). La prima opera documentabile del pittore è invece l’Assunta con i ss. Tommaso e Girolamo, realizzata intorno al 1500 per la cappella dei Priorati nella chiesa di S. Bartolomeo (Vicenza, Pinacoteca civica di palazzo Chiericati). Se per Lionello Puppi la tavola dipende dalla lezione di Montagna, secondo Franco Barbieri vi si colgono gli echi del Mantegna agli Eremitani e di Carpaccio, che Speranza aveva forse conosciuto grazie a Girolamo da Vicenza (Barbieri, 1981, p. 38).
Nel 1503 gli fu commessa la pala raffigurante la Madonna col Bambino e i ss. Giorgio, Martino, Antonio abate e Sebastiano per la chiesa di S. Giorgio a Velo d’Astico (Vicenza), dove tuttora si conserva. Questa ancona, firmata «Jo. Sperantie de Vagentibus me pinxit», pur derivando dalle grandi pale montagnesche, è tradotta in un linguaggio più popolare. Intorno alla metà del secondo decennio firmò la Madonna con il Bambino del Museo di belle arti di Budapest, punto di arrivo di un gruppo di Madonne che gli sono state restituite per via stilistica (Puppi, 1963, pp. 392 s.). Scomparsi sono invece due quadretti (firmati) che nel 1841 Antonio Magrini segnalava nelle raccolte Nievo e Piovene Porto Godi di Vicenza, così come la Madonna col Bambino e s. Giovanni con la scritta «Johannes Sperantia fecit 1512», che nel 1826 apparteneva a un rigattiere (Magrini, 1841, pp. 55 s.).
In questi anni Speranza compare in alcuni atti notarili, tra cui il testamento del lapicida Bernardino «q[uondam] Martini», rogato a Vicenza il 3 febbraio 1504 (Zorzi, 1916, pp. 115 s.). Allo stesso modo, il 30 luglio 1512, si investì «magistrum Ioannem Speranciam pictorem egregium» della proprietà di una casa nella contrada di S. Marcello, nei pressi dell’abitazione di Montagna (pp. 116 s.). Puppi situa in questi anni il Beato Isnardo da Chiampo in S. Corona, anche sulla scorta di un’iscrizione apocrifa sul dipinto che lo studioso ritiene derivata dall’originale (Puppi, 1963, p. 381) al contrario di Franco Barbieri (1981) che avvicina questo lavoro alla pala di Velo (p. 58).
La posizione di prestigio raggiunta da Speranza nell’ambiente vicentino è attestata da alcune importanti commissioni, quali la decorazione ad affresco del coro della chiesa di S. Domenico al fianco di Marcello Fogolino, con cui probabilmente si era messo in società dopo il suo rientro a Vicenza nel 1518. Il 6 giugno 1519 «maistro Speranza e maistro Marzelo [Fogolino]» ricevettero così 6 ducati «per compio pagamento de depenzere la jesia [chiesa]» di S. Domenico; mentre il 15 successivo fu registrato, nella stessa sede, il compenso a «maistro Speranza per conzare [restaurare] la pala dela jesia» (Zorzi, 1916, p. 117). Di Speranza rimangono solo le lunette che raffigurano Santi domenicani e l’Incontro tra s. Domenico e s. Francesco, dove, benché dimostri di conoscere Giovanni Bellini, egli si abbandona a una «sorta di addolcimento e illanguidimento di origine centroitaliana» per l’influsso di Francesco Verla, di ritorno nel 1508 da un viaggio a Roma (Puppi, 1963, pp. 398 s.).
Nel 1519 fu convocato dai deputati della città di Vicenza per un «desegno della montagna de marcesena [Marcesina]» e per dipingere «un relogium in civitate Vincentiae ab extra» (Bortolan, 1889, p. 168). Il 7 marzo 1520 figura in un atto notarile con i lapicidi Girolamo Pittoni e Giovanni di Giacomo da Porlezza (Zorzi, 1916-1937, II, pp. 67 s.). Da Domenico Bortolan (1889) si apprende che tra il 1520 e il 1522 dipinse le armi dei podestà nel palazzo del Comune (p. 168): notizia confermata da un mandato di pagamento del 1° marzo 1522, dove sono «contadi a Speranza per depenzere le armi del mag.co podestà in sala grande L. 4, 10» (Puppi, 1963, p. 376).
In previsione di un nuovo apparato difensivo per la città (mai realizzato), nel 1526 i rettori di Vicenza chiesero a Francesco fu Simone da Pergine, ingegnere del Comune, al maestro lapicida Giovanni da Pedemuro e a Speranza un «designum civitatis», per il quale l’11 gennaio 1527 fu deliberato il pagamento di 20 ducati ai tre autori (Zorzi, 1916-1937, II, pp. 69, 150).
Nel catalogo di Speranza, risarcito a più riprese da Lionello Puppi (1963, 1967, 1973), pesa sicuramente la scomparsa di molti dei dipinti religiosi descritti da Marco Boschini (1676), come la pala dell’altar maggiore della chiesa di S. Chiara che raffigurava «la B.V. sedente con il Bambino in braccio, con li ss. Francesco e Bernardino, con architetture», il «S. Simonetto bambino, posto in croce dagli ebrei in Trento» ai Carmelitani, e «la B.V. col Bambino, sedente maestosa, alla destra s. Paolo, alla sinistra s. Bovo» nella chiesa di S. Bovo. Della pala con la «B.V. col Bambino, sedente in maestoso trono, da un lato s. Gioseffo, e dall’altro s. Antonio di Padova; e a basso sotto i piedi della B.V. la nascita della stessa in picciolo», già nella chiesa di S. Francesco Nuovo, è stata invece identificata la parte inferiore in un frammento conservato nella Pinacoteca civica di palazzo Chiericati (inv. A 1116; Lucco, 1995).
Nelle opere più tarde emergono, abbastanza evidenti, i segnali di una maturazione stilistica: dopo una prima adesione alla lezione montagnesca, Speranza tentò infatti di svincolarsi dalla tradizione locale per dirigersi verso modelli veneziani e veronesi, sia pure con esiti disuguali. Lo dimostra il fregio con le Storie di santi ed eremiti, affrescato nella chiesa di S. Francesco a Schio circa nel 1521, che è ricco di citazioni ma senza un reale aggiornamento (Barbieri, 1981, p. 60). Nel Cristo benedicente del Walters Art Museum a Baltimora, che trae spunto dalla tavola di Montagna nella Galleria Sabauda di Torino, egli imita invece gli effetti chiaroscurali della scuola veneziana (Puppi, 1963, p. 406).
Con un documento del 26 aprile 1526, nel quale figurano ancora i maestri di Pedemuro, fu chiesto a Speranza di dipingere «sopra la faccia del refectorio la Passione per ducati 10», saldati il successivo 9 giugno (Zorzi, 1916-1937, I, pp. 117 s.). Si tratta dell’ultima opera documentata del pittore: la Crocifissione affrescata nel refettorio del convento di S. Domenico a Vicenza, oggi assai rovinata, dove i ricordi montagneschi si mescolano ad altre suggestioni.
Antonio Magrini riferisce, senza però citare la fonte, del matrimonio del pittore con una tale Elisabetta Castelnovo, che gli portò in dote 500 ducati e da cui ebbe tre figli (Magrini, 1841, p. 55). S’ignora, però, la sua data di morte, che avvenne prima dell’8 gennaio 1532, quando il figlio Giambattista si qualifica come «quondam Ioannis Sperantie de Vajentibus» (Zorzi, 1916-1937, I, p. 118).
Fonti e Bibl.: M. Boschini, I gioieli pittoreschi, virtuoso ornamento della città di Vicenza (1676), a cura di W.H. de Boer, Firenze 2008, passim; A. Magrini, Notizie di fra Giovanni da Schio, Padova 1841, pp. 54-56; D. Bortolan, S. Corona: chiesa e convento dei domenicani in Vicenza, Vicenza 1889, pp. 158, 167-170, 272, 339, 357-359; G. Zorzi, Contributo alla storia dell’arte vicentina nei secoli XV e XVI, I, Venezia 1916, pp. 113-122, 173-177, II, 2, Il preclassicismo e i prepalladiani, 1937, pp. 67-69, 150; L. Puppi, G. S., in Rivista dell’Istituto d’archeologia e storia dell’arte, n.s., XI-XII (1963), pp. 370-419; Id., Album vicentino II, in Arte veneta, XXI (1967), pp. 206-209; Id., Schedula per G. S., ibid., XXVII (1973), pp. 254 s.; F. Barbieri, Pittori di Vicenza 1480-1520, Vicenza 1981, pp. 36-39, 57-60; V. Sgarbi, Restituzioni a Francesco dai Libri, G. S., Liberale da Verona, in Notizie da palazzo Albani, XII (1983), pp. 64-69; E. Rama, G. S., in La pittura nel Veneto. Il Quattrocento, a cura di M. Lucco, II, Milano 1990, p. 767; M. Lucco, Noterelle vicentine per G. S., in Arte veneta, XLVII (1995), pp. 84-87.