CASTIGLIONI, Giovanni Stefano
Di nobile famiglia milanese, nacque nel 1456 circa da Francesco e da Francesca Rossi di San Secondo. Compì presumibilmente studi giuridici e nel 1483 fu ascritto al Collegio dei giurisperiti di Milano. Già qualche anno prima però, nel 1476, egli aveva compiuto una missione diplomatica per incarico del duca Galeazzo Maria Sforza, che, aspirando, nella sua ambizione tanto smodata quanto ingenua, a fregiarsi dell'appellativo di re, lo aveva inviato presso l'imperatore Federico, per impetrarne il titolo. Morto il duca Galeazzo Maria e rientrato a Milano dopo l'esilio il fratello di lui Lodovico Maria, detto il Moro, il C. entrò a far parte, come consigliere, dal 1ºgenn. 1484, del Consiglio di giustizia. L'anno dopo egli sposava Lucia Calco, figlia del primo segretario dello Sforza, dalla quale ebbe nove figli, cinque maschi e quattro femmine.
Nel 1487,tornata Genova sotto la dominazione milanese, il C. compì la sua prima missione diplomatica al servizio di Lodovico il Moro, che, preoccupato di rendere bene accetta alle potenze italiane e straniere la reintegrazione sforzesca nella città ligure, lo inviò presso la Repubblica di Venezia. Due anni più tardi, nel 1490, compì nella medesima città una seconda missione. Ma già nel 1489 egli aveva soggiornato per qualche tempo a Firenze, donde aveva inviato allo Sforza relazioni particolareggiate sugli avvenimenti della città e sugli orientamenti politici di Lorenzo de' Medici.
All'inizio del 1491, quando si compirono le duplici nozze principesche fra il Moro e Beatrice d'Este e fra Ercole d'Este e Anna Sforza, il C. fu uno dei testimoni dell'atto di consegna della dote della giovane Sforza a Sigismondo d'Este, che la ricevette a nome del fratello. Presenziò anche alla ratifica del medesimo atto, fatta da Alfonso in Ferrara il 16 febbraio.
Quando l'8 apr. 1492 morì in Firenze Lorenzo de' Medici, il C. si trovava nella città toscana almeno dal gennaio e le relazioni da lui inviate a Milano in quell'occasione, avvalorano il racconto che il Poliziano fece del luttuoso evento. Subito dopo gli giunsero le sollecitazioni del Moro, affinché prendesse contatti con quelle fazioni antimedicee, che avrebbero garantito una politica antiaragonese della Repubblica. Piero de' Medici, infatti, stava allora allontanandosi dalla tradizionale amicizia con Milano, orientandosi in favore del re di Napoli. Un altro motivo di dissenso sorse nell'agosto fra Lodovico, di cui il C. continuava ad essere il rappresentante in Firenze, e Piero. Il Medici infatti, dopo aver mostrato di aderire alla proposta dello Sforza di inviare ad Alessandro VI, succeduto l'11 agosto ad Innocenzo VIII, gli ambasciatori di tutti gli Stati italiani collegialmente e contemporaneamente per porgergli il tradizionale omaggio, decise di andare ad ossequiare il nuovo pontefice personalmente e singolarmente. Il C., cui il Moro aveva il 13 novembre inviato una lettera di rimostranze nei riguardi del Medici, non poté che descrivere minuziosamente nelle successive relazioni il sontuoso seguito di Piero, che si mise in viaggio da Firenze il 7 dicembre. Pochi mesi più tardi, nell'aprile del 1491, dovette trasmettere le recriminazioni rivolte dal Medici a Lodovico, a causa della lega conclusa da questo con Venezia e con Carlo VIII, che, a suo avviso, accrescendo inopportunamente il prestigio di Venezia, poneva fine all'antica alleanza fra Milano e la Repubblica fiorentina.
Iniziata la spedizione di Carlo VIII in Italia, il C. rimase ancora presso il Medici, al quale, poco prima dell'arrivo del re di Francia a Firenze, rivolse ripetutamente e vanamente da parte del Moro esortazioni ad inviare cattivanti ambasciate a Carlo VIII. Ancora il 18 settembre, come riferisce in una sua lettera il C., Piero si rifiutava di credere alla possibilità che il sovrano francese raggiungesse il Regno. Dopo la cacciata di Piero de' Medici da Firenze, il C. continuò a risiedere nella città, testimone del grande ascendente che il Savonarola esercitava sul governo oligarchico. Sul frate egli espresse, nelle lettere inviate a Milano, un giudizio non morale, ma politico, di sfiducia. Il C. rimase a Firenze almeno fino all'agosto del 1495. In seguito, mentre il sovrano francese risaliva l'Italia diretto in patria, si prodigò per indurre i Fiorentini ad entrare nella lega, senza peraltro riuscire a farli desistere dalla loro fedeltà al re di Francia. Individuando soprattutto nell'influenza savonaroliana la causa determinante della stipulazione dell'accordo fra i Fiorentini e Carlo VIII, stigmatizzò l'opera del frate in Firenze, esprimendo l'opinione che il papa avrebbe avuto un gran merito se fosse riuscito a farlo allontanare dalla città.
Non si hanno altre notizie del C. fino al 1499, quando, fuggito il Moro da Milano sotto l'incalzare della nuova spedizione francese, il 2 settembre egli fu nominato dai governatori dello Stato di Milano vicario di Provvisione. Passata la città sotto la dominazione francese, intervenne al giuramento di fedeltà prestato nel castello di Milano al re di Francia, che aveva fatto il suo solenne ingresso nella città il 18 ottobre. Durante l'effimera restaurazione sforzesca (febbraio-marzo 1500), ebbe l'incarico dal duca di Milano di notificare al re dei Romani Massimiliano, insieme con Donato Carcano, il riacquisto della città da parte del Moro. Volte però di nuovo le sorti in favore dei Francesi, dopo la battaglia di Novara e la cattura dello Sforza, il Comune di Milano giudicò opportuno fare atto di sottomissione al re di Francia. Inviò pertanto a Gian Giacomo Trivulzio e a Luigi XII un'ambasceria, composta oltre che dal C. da Antonio Visconti, da Gilberto Borromeo e da Girolamo da Cusano. I nuovi dominatori privarono il C. del feudo di San Donnino, che egli aveva acquistato dal Moro poco prima del disastro, ma lo gratificarono però di quello di Saronno confiscato a Cecilia Gallerani, alla quale egli dovette devolvere una somma a titolo di risarcimento nel 1508 e di nuovo nel 1513. Da Luigi XII il C., che era entrato a far parte del nuovo Senato costituito l'11 nov. 1499, ebbe, insieme con altre personalità, l'incarico di rivedere la seconda parte, autorizzata e disposta dal sovrano il 14 genn. 1502, degli statuti di Milano, la cui prima parte, relativa agli statuti civili, era stata pubblicata nel 1498 per volere di Lodovico il Moro promulgatore della riforma.
Tornato il ducato di Milano, nel 1512, sotto il dominio di uno Sforza, Massimiliano, il C. ottenne di nuovo, il 28 marzo 1513,la carica di senatore. Nel settembre di due anni dopo, mentre il figlio del Moro, esautorato e incapace, stava per perdere il possesso della città, fu inviato con altri tre ambasciatori presso Francesco I, che era accampato alla Boffalora. L'ambasceria era incaricata di offrire al re la città, purché il sovrano si impegnasse a non entrarvi prima che fossero trascorsi otto giorni. I Milanesi ricevettero una risposta sostanzialmente negativa, poiché il re si dichiarò pronto a rimandare degli otto giorni richiesti il suo ingresso nella città, purché essa accogliesse immediatamente Gian Giacomo Trivulzio. Avvenuta la battaglia di Marignano e la resa, il 4 ottobre, del castello di Milano, l'11 dello stesso mese Francesco I fece la sua solenne entrata in Milano da porta Ticinese. Prima che il sovrano passasse le mura i cittadini milanesi gli offrirono simbolicamente la città e il ducato con la presentazione della bacchetta ducale fattagli da Giovan Battista Visconti, delle chiavi della città da Galeazzo Birago e della spada dal Castiglioni. Un anno dopo il C. incontrava di nuovo il monarca. Fu inviata allora infatti un'ambasceria, composta dal C., da Gregorio Panigarola, da Ambrogio da Firenze, da Ludovico da Vimercate e da Tommaso Landriani, che aveva l'incarico di sollecitare dal re l'applicazione di alcune concessioni già fatte ai Milanesi dal governatore francese e di presentare una serie di richieste, che furono dal sovrano per la massima parte accolte.
Nel 1517 il C., che era patrono del collegio omonimo, fondato nel 1437 dal cardinale Branda da Castiglione, acquistò il feudo di Candia in Valtellina. Morì in Milano l'11 genn. 1519.
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