Giovanni Vailati
Giovanni Vailati è, per certi aspetti, una figura anomala nel panorama della filosofia italiana tra Ottocento e Novecento. Matematico, allievo di Giuseppe Peano, aderisce a una forma di pragmatismo sovente caratterizzata come ‘pragmatismo logico’, che si ispira al pensiero del filosofo americano Charles Sanders Peirce. Pensatore asistematico, Vailati è stato assimilato a Socrate per la capacità di dialogare con i principali protagonisti della cultura internazionale. Fautore di una filosofia che si deve sviluppare in stretto rapporto con la scienza, riteneva essenziale che anche le discipline scientifiche dovessero tener conto della storia del pensiero scientifico.
Giovanni Vailati nasce a Crema il 24 aprile 1863 e, dopo avere studiato a Monza e a Lodi presso Istituti dei padri barnabiti, nel 1880 si iscrive alla facoltà di Matematica dell’Università di Torino. Pur laureandosi in ingegneria e matematica, coltiva una straordinaria quantità d’interessi che vanno dalla filosofia alla storia della scienza, dalla psicologia alla pedagogia e all’economia. Nel 1892, su proposta di Giuseppe Peano (1858-1932), diventa assistente di calcolo infinitesimale presso l’Università di Torino e nel 1895 viene nominato assistente di geometria proiettiva e quindi assistente onorario di Vito Volterra (1860-1940). Negli anni 1896-99 tiene tre corsi liberi di storia della meccanica, poi abbandona l’università per entrare nella scuola secondaria. Le ragioni di questa scelta sono probabilmente molteplici: desiderio d’indipendenza, consapevolezza delle difficoltà intrinseche al conseguimento di un posto di ruolo all’università, ma soprattutto la presa di coscienza di possedere un temperamento che mal si adatta ad applicarsi esclusivamente allo studio di un’unica disciplina. Così, sebbene continui a insegnare matematica nei licei (prima a Pinerolo e poi a Siracusa) e negli istituti tecnici (a Bari, a Como e, infine, a Firenze), si applicherà con sempre maggiore intensità a coltivare la filosofia, che diverrà ben presto un interesse totalizzante. Si può dire, infatti, che le sue incursioni in altri settori della cultura (per es., economia e psicologia) hanno tutte l’impronta di una personale riflessione filosofica.
In Sicilia, Vailati conosce Franz Brentano (1838-1917), con il quale, in seguito, si manterrà in rapporto epistolare, mentre a Firenze incontra Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, allora direttori della rivista «Leonardo», ai quali si legherà di sincera amicizia. Inizia a collaborare al «Leonardo», e continua a pubblicare su riviste accademiche dei più svariati settori disciplinari. Il suo trasferimento all’Istituto tecnico Galileo Galilei di Firenze nel 1904 coincide con un incarico presso l’Accademia dei Lincei di Roma per curare l’edizione nazionale delle opere di Evangelista Torricelli. Nell’anno successivo è nominato membro della Commissione Reale per la riforma delle scuole medie e ciò lo impegna a trasferirsi a Roma. Nel 1906, a un convegno di psicologia che si tiene a Monaco di Baviera, conosce Mario Calderoni (1879-1914), con il quale inizia un sodalizio che lo porterà a scrivere insieme i primi due capitoli di un saggio sul pragmatismo rimasto incompiuto (con l’aggiunta postuma di un terzo capitolo portato a termine da Calderoni).
Nel dicembre del 1908, mentre si trova a Firenze, si ammala. Successivamente, si reca a Roma, dove spera di rimettersi, ma la malattia si aggrava e lo porta alla morte, che avviene la sera del 14 maggio 1909.
Nel corso della sua breve vita, Vailati aveva partecipato a numerosi congressi in Europa, mantenendo rapporti epistolari con alcuni dei principali filosofi e scienziati del tempo e sviluppando una corrispondenza di mole ragguardevole (Epistolario 1891-1909, a cura di G. Lanaro, 1971). Scrisse soltanto saggi e recensioni, che pubblicò soprattutto in riviste e che, nella quasi totalità, furono raccolti in un volume postumo edito a cura di Calderoni, Umberto Ricci e Giovanni Vacca (Scritti, 1911). La stampa fu resa possibile da una sottoscrizione internazionale, alla quale aderirono numerose personalità come Brentano, Pierre Duhem, Federico Enriques, William James, Ernst Mach, Bertrand Russell, oltre a Benedetto Croce e Giovanni Gentile.
Nel periodo che va dalla fine dell’Ottocento agli inizi del Novecento, Vailati si distacca dalla maggior parte dei filosofi suoi contemporanei per alcuni tratti peculiari, primo fra tutti l’uso di un linguaggio terso ed essenziale, che rifugge da qualsiasi orpello retorico. Egli aveva, inoltre, un’idea estremamente moderna del lavoro filosofico, inteso come un’attività di analisi concettuale che attribuisce grande rilievo al linguaggio e che si sviluppa in stretto rapporto con i risultati della ricerca scientifica.
Una delle caratteristiche salienti della proposta filosofica di Vailati consiste nell’intento di valorizzare le «attività costruttrici e anticipatrici dell’intelletto umano rispetto a quelle puramente ricettive e, per così dire, classificatorie» (Scritti, cit., p. 283). Ciò è in accordo con la prospettiva d’ispirazione pragmatista, che egli mutua, in gran parte, dai filosofi americani Ch.S. Peirce (1839-1914) e W. James (1842-1910). Sulla scorta di Peirce, anche Vailati riconduce a George Berkeley (1685-1753) l’idea guida del pragmatismo:
Come è noto, il Berkeley mostrò, o cercò di mostrare, che quando noi diciamo, per esempio, “il tale oggetto esiste” noi non intendiamo dire, né possiamo intendere di dire, in ultima analisi, se non questo: che, se noi, o degli esseri simili a noi, si trovassero in determinate circostanze, essi proverebbero determinate esperienze o sensazioni; in altre parole, che tanto il termine “realtà”, come gli altri analoghi “sostanza”, “materia”, ecc., non indicano che determinate “possibilità di sensazioni” (Scritti filosofici, a cura di G. Lanaro, 1972, p. 331).
In quest’idea di Berkeley, osserva Vailati, a Peirce sembrò di riconoscere l’esemplificazione di un procedimento più generale, caratterizzabile nei termini seguenti:
il solo mezzo di determinare e chiarire il senso di una asserzione consiste nell’indicare quali esperienze particolari si intenda con essa affermare che si produrranno, o si produrrebbero date certe circostanze (p. 331).
Le esperienze in questione non devono essere intese nel senso
di una dipendenza attuale dalle nostre azioni: può trattarsi anche di una dipendenza puramente “virtuale”, atta a diventare attuale solo nel caso che si verifichino certe condizioni, il cui verificarsi potrebbe anche non dipendere dalla nostra volontà (p. 341).
L’adesione al principio metodico richiamato da Peirce implica, secondo Vailati, una revisione del concetto di proprietà. Di solito, quando ci riferiamo agli ‘oggetti’ che incontriamo nella nostra esperienza, li pensiamo come qualcosa di statico, determinato da caratteristiche stabili, che sono chiamate, appunto, proprietà. La parola proprietà, tuttavia, è soltanto un nome per indicare la nostra aspettativa in base alla quale l’oggetto, che diciamo possedere una determinata proprietà, «si comporterà nella tale o tal altra guisa determinata, allorquando sia assoggettato a date manipolazioni (in senso largo)» (Epistolario, cit., p. 331). Così, rappresentarsi le proprietà possedute da un corpo, non equivale a rappresentarsi dei fatti presenti, bensì «dei fatti, che avverranno, o che avverrebbero, se tale corpo venisse posto in tali o tali altre circostanze» (Scritti, cit., p. 578).
Questa concezione dinamica della realtà implica un riferimento essenziale sia alle aspettative del soggetto conoscente sia alla sua capacità di concepire scenari ideali, capaci di descrivere gli effetti, sotto determinate condizioni, delle proprietà delle ‘cose’ e dei fenomeni considerati. A conferma di ciò, Vailati osserva che anche in fisica, con il nome di legge non s’intende tanto riferirsi a quel che avviene effettivamente, quanto piuttosto a quel che tende ad avvenire, vale a dire a quel che avverrebbe se fossero verificate certe circostanze che raramente o mai sono suscettibili di trovarsi perfettamente realizzate (p. 316).
Vailati interpreta il principio adombrato da Berkeley come una regola da usare per determinare il significato degli enunciati; l’esser vero o falso di un dato enunciato dipende, in primo luogo, dal fatto che esso effettivamente significhi qualcosa oppure no:
Il ricorso all’esperienza è riguardato dai pragmatisti come un mezzo, non soltanto di verificare o provare una teoria, ma anche di determinare o mettere in evidenza quella parte di essa che può essere oggetto di proficua discussione.
La questione di determinare che cosa vogliamo dire quando enunciamo una data proposizione, non solo è una questione affatto distinta da quella di decidere se essa sia vera o falsa; essa è una questione che, in un modo o in un altro, occorre che sia decisa prima che la trattazione dell’altra possa essere anche soltanto iniziata (Scritti filosofici, cit., p. 334).
Le riflessioni sul significato iniziate da Vailati verranno sviluppate, dopo la morte di questi, dall’allievo e amico Calderoni, il quale, tenendo conto degli appunti dello stesso Vailati e delle discussioni che avevano condotto insieme, mostra di avere ben chiaro quali siano le condizioni affinché un termine o una proposizione abbiano un significato:
Ci è molte volte non meno impossibile di precisare che cosa significhi una intera frase, facendo astrazione dall’insieme, o dai vari insiemi di frasi di cui fa parte, che di precisare che cosa significhi una singola parola o termine all’infuori della frase o delle frasi in cui il termine stesso figura.
Prescindendo, infatti, da un piccolissimo numero di parole – per esempio quelle che i grammatici chiamano interiezioni – i vocaboli del nostro linguaggio (nomi, aggettivi, verbi ecc.) non bastano affatto, enunciati isolatamente, ad esprimere uno stato di animo determinato od una determinata opinione di chi li pronuncia; essi non possono servire a tale scopo se non comparendo raggruppati gli uni insieme agli altri in modo da dar luogo ad una frase o proposizione (G. Vailati, Metodo e ricerca, a cura di B. Loré, 1976, p. 73).
Nei riguardi della verità, Vailati rifiuta fermamente l’idea che per un pragmatista sia l’utilità di una proposizione a renderla vera. Egli distingue, in primo luogo, il fatto che una determinata proposizione abbia un significato dal fatto che abbia un significato praticamente importante per noi (per un certo gruppo di persone). Affinché una proposizione abbia un significato praticamente importante, si rende necessario che sia capace di indicare cosa avverrebbe se si verificassero certe condizioni (vale a dire: si richiede che abbia un significato) e che, inoltre: a) sia alla nostra portata la realizzazione di tali condizioni; b) le conseguenze implicite in esse «siano da noi desiderate o temute: che cioè il loro verificarsi, o non verificarsi, sia un fine al quale noi attribuiamo qualche importanza». Se non è questo il caso, «la proposizione potrà bensì avere un significato pratico […] ma non un’importanza pratica» (Scritti, cit., p. 640).
Analogo discorso si applica alle proposizioni vere: alcune sono importanti dal punto di vista pratico, mentre altre non lo sono, ma la loro verità non dipende dal loro essere utili. Il fatto che una proposizione vera serva a un dato scopo, «per quanto importante, non basta a renderla vera (né in fatto né in diritto, cioè né in psicologia né in logica) […]» (Epistolario, cit., p. 350). Unica possibile eccezione sono le proposizioni che «esprimono nostre convenzioni sul mondo»:
Per una sola classe di affermazioni mi pare si possa concedere che esse sono vere o false a seconda degli scopi, e queste sono quelle che esprimono delle nostre convenzioni sul modo di rappresentare ciò che [indaghiamo] o vogliamo comunicare agli altri (p. 350).
Riguardo alla parola vero Vailati osserva che tra gli aggettivi che usiamo nel linguaggio comune se ne possono distinguere due tipi: quelli che «indicano certi effetti che un dato oggetto esercita sui nostri sensi (per es. bianco, nero, esplodente)»; e quelli che «indicano certi effetti che un dato oggetto eserciterebbe sui nostri sensi, date determinate condizioni (tali sono, per esempio, “buon conduttore del calore”, “solubile nell’acqua”, “esplosivo”, ecc.)». L’aggettivo ‘vero’, secondo Vailati, appartiene al secondo tipo, non al primo:
Io ritengo cioè che, tanto nel caso dell’aggettivo “vero” applicato ad un’opinione, come nel caso dell’aggettivo “esplosivo” (o “solubile”) applicato ad un corpo, l’unica definizione che possiamo esigere è che ci si indichi qual è il fatto (o l’insieme di fatti) il cui aver luogo è da noi (a ragione o a torto) preveduto o aspettato quando diciamo: “La tale opinione è vera”; “Il tale corpo è esplosivo o “solubile”, etc. […] (p. 366).
Nell’Epistolario, discutendo con Prezzolini, Vailati riconosce il carattere puramente formale (‘privo di contenuto’) della definizione di verità e distingue chiaramente il fatto che una proposizione sia vera, dai metodi impiegati per l’accertamento della sua verità. In una lettera del 22 settembre 1903, per es., replicando a un’osservazione critica del suo corrispondente, scrive:
Se dicendo che il significato che io vorrei attribuire alla “verità” è contraddittorio, intendi dire che da esso non risulta come si dovrebbe fare ad accertarsi se una data opinione è vera sì o no, tu dici cosa che anche a me pare…vera (p. 367).
Quel che conta per Vailati è il come si accerta la verità, quali siano i metodi cui si ricorre per render conto della verità di una data proposizione.
Di conseguenza, la tradizionale definizione ‘statica’ di verità che troviamo in Aristotele, Tommaso e così via, intesa come corrispondenza di una proposizione ai fatti che essa descrive, è accettata senza problemi da Vailati:
È da notare inoltre che, col dire che la verità è un adattamento o una corrispondenza tra le idee (credenze) e i fatti, non si pregiudica affatto la questione dei mezzi coi quali tale adattamento o corrispondenza possono essere ottenuti o accresciuti, né si esclude menomamente che tra tali mezzi possa, o debba, aver posto, oltre all’osservazione e alla contemplazione dei fatti (spontanei o provocati), anche l’esercizio di quelle attività organizzatrici ed elaboratrici dell’esperienza, le quali, pur semplificando, impoverendo, schematizzando artificialmente la realtà, non hanno tuttavia altro fine che quello di rendere possibile la rappresentazione e il possesso più completo di essa (Scritti, cit., p. 578).
La concezione tradizionale è dunque compatibile con una visione meramente strumentale delle teorie scientifiche, vale a dire con l’idea che le teorie scientifiche non siano tanto descrizioni adeguate, fissate una volta per tutte, della realtà quale si offre nell’esperienza, quanto piuttosto il risultato di attività «organizzatrici ed elaboratrici», che ci fanno intervenire sulla realtà medesima, modificandola. Nelle scienze deduttive, quel che conta è il nesso, e quindi la verità della dipendenza, di determinate conclusioni da premesse date. E la verità di tale dipendenza «è compatibile tanto con la verità come con la falsità delle premesse o delle conclusioni, e sussiste da qualunque punto la si consideri». Nel caso delle scienze non deduttive, è l’accordo o il disaccordo con il ‘dato’ (presente o futuro) della coscienza a costituire la verità o falsità delle nostre affermazioni: «è la conformità di queste a ciò che effettivamente la nostra coscienza ci presenta (o ci presenterà) che costituisce quella qualità che noi intendiamo attribuire loro, quando diciamo che esse sono vere» (Epistolario, cit., p. 353). Ciò spiega, secondo Vailati, in che senso si possa parlare (impropriamente) di relatività della verità: a esser relativa non è la verità, bensì la diversa utilità delle proposizioni che vengono riconosciute vere. A proposito del relativismo, Vailati osserva:
La parola “relativismo” non mi pare abbastanza espressiva delle caratteristiche di esso, tra cui la principale è quella di considerare le teorie come dei mezzi (per il raggiungimento di dati fini, non escluso quello della “previsione” pura e semplice) (p. 233).
Le verità nascono e muoiono (cioè sono rilevate, enunciate, ricordate, trasmesse) secondo l’importanza e l’interesse che presentano per dati scopi individuali e collettivi. In questo senso, vi sono verità che sono riconosciute come utili fino a un certo momento storico e che poi cessano di esserlo. Poiché la verità, sia nel caso deduttivo sia in quello di scienze non deduttive, ha sempre un carattere contestuale, relativamente ai metodi e alle tecniche per accertarla, è evidente che, all’interno di un determinato contesto, una particolare proposizione, se vera, non può diventare falsa. A cambiare sono i contesti di riferimento; e i ‘contesti’ vengono determinati in base alla loro utilità ed efficacia pratica:
gli scienziati, infine, fanno come i bugiardi con le loro invenzioni: gettano via le teorie che non servono più, e ne adottano altre appena si accorgono che sono migliori […]. Ricordare a uno scienziato una vecchia teoria è come ricordare ad un bugiardo una sua vecchia menzogna: lo si fa arrossire (Scritti filosofici, cit., p. 294).
Nonostante Vailati osservi esplicitamente che non è necessario «che s’introduca il più piccolo cambiamento nella definizione tradizionale di verità», ritiene, tuttavia, che in luogo di parlare di «corrispondenza o di adattamento delle idee ai fatti» sia più opportuno parlare di corrispondenza delle credenze ai fatti, intendendo così che ci si riferisca non soltanto a fatti anteriori o coesistenti con le credenze in questione ma anche, e soprattutto, a fatti futuri, preveduti o anticipati da esse (Scritti, cit., p. 578). La sostituzione del termine ‘idea’ con ‘credenza’ mette ulteriormente in luce il tentativo, da parte di Vailati, di dare un’immagine attiva della conoscenza: avere una credenza significa avere un’aspettativa, assumere un atteggiamento ‘aperto verso il mondo’, non limitarsi a farsene una rappresentazione, a possederne un’immagine inerte. Al tempo stesso, egli sottolinea fermamente che la verità è indipendente dal fatto che qualcuno la creda:
Dico che la verità d’una data proposizione sussiste anche se nessuno vi crede, quando la proposizione è tale che, se fosse creduta da qualcuno, ingenererebbe in lui delle aspettative che non sarebbero deluse (Epistolario, cit., p. 359).
Vailati ritiene infine che, entro certi limiti, siamo noi stessi a creare la verità alla quale crediamo:
più spesso di quanto pensiamo, la presenza delle nostre convinzioni è tra le circostanze che contribuiscono a determinare il fatto di cui esse affermano l’esistenza. Tutte le nostre azioni volontarie, infatti, sono prodotte dalla nostra previsione delle loro desiderabili conseguenze o dal fatto di poter essere impedite dalla nostra previsione che tra tali conseguenze ve ne siano alcune che ci dispiacciono sufficientemente (Scritti, cit., p. 579).
Un’ulteriore conseguenza dell’impiego del termine credenza (o opinione), invece del più filosoficamente blasonato idea, nel definire la verità, è quella di suggerire una prospettiva fondamentalmente ‘soggettiva’ al problema della conoscenza. Nella vita quotidiana, come nell’indagine della natura, gli esseri umani si trovano a gestire un insieme di credenze suscettibili di essere cambiate in qualsiasi momento, di fronte al tribunale dell’esperienza. In tal senso, Vailati rifugge dall’idea kantiana dell’esistenza di concetti e principi a priori della conoscenza validi in ogni tempo e in ogni situazione storica.
Vailati ha sempre mostrato, nei confronti di Immanuel Kant e del kantismo (assai diffuso all’epoca, non solo tra i filosofi ma anche tra gli scienziati), un’aperta ostilità. A suo giudizio, Kant avrebbe scambiato, per es., come «condizioni universali e permanenti di ogni attività mentale quelle che non sono che limitazioni, o costruzioni, o artifici di rappresentazione, proprii a un determinato stadio di cultura» (Scritti, cit., p. 635). La stessa ‘legge di causalità’ non sarebbe altro, in accordo con il modello proposto da David Hume, che il risultato del fissarsi di un’abitudine. Anche in questo caso, quel che Vailati contesta a Kant è l’avere insistito sulla mera certezza e apriorità della nozione di causa, più che sulla sua «fecondità» e capacità di produrre conoscenza (p. 255). Secondo Vailati
La “legge di causalità” non è semplicemente l’espressione di una convinzione salda, o di una generica credenza, all’esistenza di cause per tutto ciò che avviene e alla regolarità di andamento di fenomeni naturali; essa è anche, o anzi soprattutto, la enunciazione di un modo di procedere che a noi è utile e spesso necessario seguire nell’avanzarci dal noto verso l’ignoto. […] Essa cioè è importante, non in quanto asserisce che di ogni avvenimento o fatto esista una causa, ma in quanto ci spinge a cercarla e ci indica come una buona via per trovarla, nel caso che esista, il cominciare a supporre che essa debba esistere e il regolare le nostre indagini sopra questa supposizione (p. 254).
Con la «legge di causalità», in altre parole, noi non formuliamo un dogma ma caratterizziamo un metodo di ricerca; un metodo che, semplificando, si potrebbe riassumere dicendo che, «per accrescere la nostra conoscenza delle leggi naturali, è necessario supporre che leggi fisse dominino anche là dove noi non siamo ancora riusciti a scorgerle […]» (pp. 254-55). La legge di causalità assume in questo modo i connotati di un ideale regolativo della ricerca, somigliando più a un’idea nel senso kantiano (come quella di mondo) che non a un concetto appartenente alle condizioni a priori dell’esperienza. Di nuovo, quel che interessa a Vailati è l’aspetto dinamico, ‘esposto verso il futuro’ dell’indagine scientifica della natura. Nel caso specifico della legge di causalità, la sua importanza deve essere ricercata più nella sua fecondità che nella sua certezza.
Rifacendosi all’empirismo classico, prekantiano, Vailati vede nell’attribuzione di necessità a schemi mentali o a leggi fisiche un prodotto dell’abitudine:
la maggior parte delle nostre pretese “necessità mentali” (analogamente a molte delle nostre necessità fisiche) non sono che un prodotto dell’abitudine e […] in tale qualità, non provano quindi altro che la presenza costante nella nostra esperienza passata di dati caratteri o aggruppamenti costanti atti a farle sorgere (Epistolario, cit., p. 374).
Contro Kant, Vailati difende, come metodo di ricerca, lo historical plain method proposto dall’amato John Locke:
In tutte le direzioni, dalla psichiatria allo studio delle società animali, dalla storia delle scienze a quella delle religioni, dalla filologia e dalla semantica alla filosofia del diritto, i metodi che si son manifestati più fecondi ed efficaci sono quelli basati sulla comparazione, sul confronto, sulla ricerca delle analogie, delle connessioni genealogiche e storiche (Scritti, cit., p. 634).
Analogamente, in ambito morale, Vailati sente più affine un atteggiamento ‘consequenzialista’, ispirato a John Stuart Mill, che non il rigorismo kantiano:
[…] dire, con Kant che un dato modo di comportarsi è morale quando è tale da poter essere esteso a norma universale per tutti gli uomini conviventi in una data società, non differisce affatto dal dire che, per giudicare se una azione è morale o no, ciò a cui conviene badare sono le conseguenze alle quali porterebbe il fatto che altre azioni simili venissero ripetute dai singoli componenti la società stessa. È quindi solo apparentemente che Kant riesce a scartare dal suo sistema di morale la considerazione dei fini, o della tendenza delle azioni a produrre determinati risultati (pp. 636-37).
Vailati, tuttavia, non approva completamente l’approccio utilitarista e, tra i fini, egli ritiene di dar maggior rilievo a quelli connessi alla stabilità e conservazione della convivenza sociale, invece che a quelli che riguardano i vantaggi e le soddisfazioni individuali dei singoli consociati.
Tra i molteplici interessi culturali di Vailati, quello per l’economia teorica e le scienze sociali in generale ha un ruolo importante. Buon conoscitore dei classici del pensiero economico (i fisiocratici, Adam Smith, David Ricardo), Vailati si schiera decisamente a favore della teoria ‘marginalista’, che aveva preso ad affermarsi nella seconda metà dell’Ottocento. Egli saluta come un progresso l’introduzione, nell’analisi economica, del concetto di ‘utilità marginale’:
Si potrebbe dire, a questo riguardo, che l’introduzione del concetto di “utilità marginale” rappresenta nella trattazione delle teorie economiche un progresso d’indole analoga a quello rappresentato in meccanica dal concetto matematico di “accelerazione” (Scritti, cit., p. 412).
Un aspetto sul quale Vailati insiste è che non bisogna farsi fuorviare dall’espressione utilità marginale: di per sé, dal punto di vista della teoria economica che su di essa si fonda, non si tratta di valutare utilità o piaceri (un equivoco all’epoca piuttosto diffuso) «ma di porre a confronto l’attitudine che una differente quantità di diverse merci può avere a determinare le scelte da parte di un dato individuo o di date classi di individui» (p. 412).
Del marxismo, Vailati critica perciò, prima di tutto, la teoria del valore-lavoro, l’idea che nella società capitalistica il valore di scambio delle merci sia determinato dalla quantità di lavoro umano in esse incorporato. Nella teoria dell’utilità marginale egli vede, in contrapposizione alla concezione di Karl Marx, un potente strumento unificante; e non è da escludere che Vailati abbia spinto Calderoni a estendere il concetto di utilità marginale all’ambito della stessa morale.
Se cerchiamo un elemento unitario nelle critiche che Vailati rivolge al marxismo, questo risiede nel rimprovero di unilateralità. Il marxismo, secondo Vailati, riconduce la spiegazione dei fenomeni sociali a un’unica causa: l’economia; e indica nel solo conflitto di classe la vera causa dei mutamenti nella costituzione della società (p. 43). Il progresso, inoltre, è inteso dai marxisti unicamente come sviluppo delle forze produttive e non anche come progresso morale e spirituale. A proposito della concezione materialistica della storia, Vailati afferma:
Questa si fa da molti consistere nel riguardare le condizioni economiche come i soli fattori efficaci dello sviluppo e delle trasformazioni sociali, e nel qualificare tutte le altre manifestazioni della vita collettiva, e in particolare le più elevate, come semplici superstrutture o riflessi ideologici di quelle, prive per se stesse di qualunque efficacia o impulso direttivo (Scritti filosofici, cit., p. 179).
Contro i sostenitori di siffatta teoria, Vailati osserva che, comunque, ammettere l’influenza preponderante dei rapporti economici «nella formazione e nello sviluppo delle singole specie di attività cui dà luogo la convivenza umana, non implica che queste ultime non possano alla lor volta agire come cause modificatrici della struttura e della vita stessa economica delle società in cui si manifestano» (p. 89). Anche in questo caso, però, occorre usare con grande cautela la parola causa: più che di un rapporto di causa ed effetto, si tratta di un rapporto di mutua dipendenza.
Sensibile all’importanza del linguaggio e al ruolo delle definizioni in filosofia e nelle argomentazioni in genere, Vailati denuncia anche, in certe tesi fondamentali della concezione marxista, una sostanziale ambiguità tra momento descrittivo e momento normativo, che sovente risultano sovrapposti e confusi. Così, a proposito della frase di Marx: «Due merci sono di egual valore quando la loro produzione esige uno stesso numero di ore normali di lavoro», Vailati osserva che
[…] è intesa qualche volta come una definizione del valore di scambio, tal altra volta come un’asserzione relativa alle circostanze dalle quali la ragione di scambio di due merci dipende, tal altra volta, infine, come l’affermazione d’un criterio che dovrebbe essere adottato per determinare le proporzioni in cui le merci si devono scambiare, in una società nella quale ciascun membro abbia diritto al “prodotto integrale” del suo lavoro (pp. 136-37).
Il punto di maggior distanza di Vailati, rispetto alle posizioni del marxismo, risiede nel ruolo attribuito all’individuo e alle scelte individuali nella storia e nella società. Sebbene fosse ostile alla concezione di un homo oeconomicus incentrato esclusivamente su se stesso e sui propri bisogni egoistici, Vailati vede nell’individuo, nelle sue aspettative e credenze, il centro da cui muovere per svolgere le proprie riflessioni in qualsiasi settore dell’attività umana. Isolato nel suo tempo e poi pressoché dimenticato, Vailati sarà comunque, nel secondo dopoguerra, proprio per questo aspetto peculiare del suo pensiero, una fonte d’ispirazione per Bruno De Finetti (1906-1985), ormai riconosciuto unanimemente come uno dei pensatori e scienziati italiani più influenti del Novecento (Parrini 2004; Parrini 2011).
Scritti, a cura di M. Calderoni, U. Ricci, G. Vacca, Firenze-Leipzig 1911.
Il metodo della filosofia, a cura di F. Rossi-Landi, Bari 1957.
Epistolario 1891-1909, a cura di G. Lanaro, introduzione di M. Dal Pra, con un “Ricordo di Giovanni Vailati” di L. Einaudi, Torino 1971.
Scritti filosofici, a cura di G. Lanaro, Napoli 1972.
Metodo e ricerca, prefazione di M. Calderoni, nuova ed. a cura di B. Loré, Lanciano 1976.
«Rivista critica di storia della filosofia», 1963, 18, fasc. 3 dedicato a Vailati, pp. 275-523.
G. Lolli, Le forme della logica: Giovanni Vailati, in Id., Le ragioni fisiche e le dimostrazioni matematiche, Bologna 1985, pp. 107-32.
I mondi di carta di Giovanni Vailati, a cura di M. De Zan, Milano 2000.
P. Parrini, Dal pragmatismo logico di Vailati al probabilismo radicale di de Finetti, in Filosofia e scienza nell’Italia del Novecento. Figure, correnti, battaglie, Milano 2004, pp. 33-55.
P. Parrini, Pragmatisme logique et probabilisme radical dans la philosophie italienne du XXe siècle, «Revue de synthèse», 2011, 132, pp. 191-211.