VERGA, Giovanni
– Nacque a Catania il 2 settembre 1840, da Giovanni Battista, proprietario terriero di Vizzini con ascendenze nobiliari e tradizioni liberali (il padre era stato carbonaro e deputato al Parlamento siciliano del 1812), e da Caterina Di Mauro.
La sua formazione scolastica avvenne sui classici sotto la guida di Antonino Abate, autore di carmi, poemi e romanzi d’argomento antitirannico, mentre le prime letture si orientarono sul romanzo storico e d’avventura: in particolare i libri di Alexandre Dumas padre e di James Fenimore Cooper che ne appassionarono l’infanzia e l’adolescenza. Tra il 1856 e il 1857 Lord Byron, Alessandro Manzoni, Francesco Domenico Guerrazzi furono i numi tutelari del suo primo romanzo Amore e patria, ambientato nel periodo della rivoluzione americana (1775-83), dove avventure e amore con spunti gotici si mescolano alla storia vera attentamente studiata e ripercorsa.
Nel 1858, per desiderio del padre, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania, ma la letteratura rimase il vero centro dei suoi interessi, tanto che pubblicò a sue spese il romanzo I carbonari della montagna (1861-62). Le letture proseguirono numerose: Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, i romanzi di Dumas padre, di Eugène Sue e dei romantici francesi, gli scrittori di moda Octave Feuillet, Georges Ohnet, Francesco Dall’Ongaro e Caterina Percoto.
Nel 1860, animato da passione patriottica, entrò nella guardia nazionale; insieme con Nicolò Niceforo, fondò il settimanale politico Roma degli Italiani (1860) con programma favorevole all’annessione della Sicilia all’Italia e nel 1862 l’Indipendente. Nel 1862-63 il romanzo Sulle lagune apparve a puntate nel fiorentino La nuova Europa, diretto da Alberto Mario, che aveva recensito I carbonari della montagna. Nel maggio del 1865 Verga si recò per la prima volta a Firenze, allora capitale del Regno e centro culturale di prestigio, dove pubblicò l’anno successivo Una peccatrice (Firenze 1866), che tuttavia ripudiò in anni più tardi. In realtà il romanzo è di grande interesse per l’applicazione del metodo realista, seppur fortemente ispirato ad Alexandre Dumas fils, e per le strategie narrative che vi si sperimentano.
Nel 1867 fece ritorno in Sicilia. Nel 1869, di nuovo a Firenze, intrecciò importanti relazioni negli ambienti letterari e patriottici animati da intellettuali provenienti da ogni parte del Paese: a casa di Dall’Ongaro conobbe Giovanni Prati, Aleardo Aleardi, Arnaldo Fusinato; Vittorio Imbriani, alcuni scienziati positivisti e l’anarchico Michail Bakunin, nei salotti della signora Swanzberg e della scrittrice tedesca Ludmilla Assing. Frequentò il caffe Doney, ritrovo di intellettuali e di attori, e il caffè Michelangiolo, dove si riunivano i macchiaioli; condusse un’intensa vita mondana, che entra come sfondo nei primi romanzi, e fu affascinato dal mondo del teatro.
Nel corso del 1869 lavorò al romanzo psicologico Storia di una capinera, che comparve a puntate nel 1870 nel giornale milanese di moda La Ricamatrice e l’anno seguente in volume autonomo con la prefazione di Dall’Ongaro in forma di lettera a Percoto. Nello stesso anno si legò a Giselda Fojanesi, che nel 1872 sposò il poeta Mario Rapisardi; la relazione si riaccese poi, tra il 1879 e il 1883, suscitando violente reazioni nel poeta catanese.
Con Storia di una capinera Verga sperimentò il romanzo epistolare, caduto in oblio dopo i fasti settecenteschi: con una premessa giocata sul patetismo del sacrificio di una piccola capinera, vittima del troppo amore infantile, presenta una storia altrettanto patetica di monacazione forzata e di repressione di un contrastato amore adolescente, ispirato, secondo Federico De Roberto (1964, pp. 135-179) da un’esperienza dello stesso scrittore vissuta a Tebidi, dove la famiglia Verga si era rifugiata durante un’epidemia di colera. Il romanzo suscitò l’ammirazione di Dall’Ongaro e di Percoto.
Negli stessi anni Verga si cimentò nel genere teatrale con I nuovi tartufi, inviato senza successo al Concorso drammatico governativo del 1866.
Ambientatata a Firenze, in quattro atti (rimasta inedita fino al 1980 e pubblicata nello stesso anno dapprima in rivista – in Nuova Antologia, n. 2135, luglio-settembre, pp. 3-49 – e quindi in volume, a cura di C. Musumarra e con prefazione di G. Spadolini sul mondo di Firenze capitale, per Le Monnier), l’opera è già la storia di una caduta delle illusioni, quelle del proprietario terriero Prospero Montalti che aspira a una carriera politica per elevarsi socialmente, incitato da un ‘tartufo’ imbroglione, il dottor Codini; si ritrova a rimpiangere il paese natio in una sorta di anticipazione dell’autentico volto delle città capitali vere o morali o industriali, scintillanti e piene di vita come Verga le descrive (Firenze e, soprattutto, Milano), ma infine realtà difficili segnate dalla continua lotta per emergere, sentine di ipocrisia, di contrasti. La commedia si inserisce nel filone della letteratura parlamentare ch’ebbe fortuna soprattutto con De Roberto e Luigi Pirandello. I modelli sono i francesi della commedia brillante, del teatro sociale, molto seguito a Firenze: in particolare Dumas fils, Émile Augier, Eugène Scribe, Victorien Sardou. Ancora un tentativo teatrale nell’ambito della commedia da salotto fu in questi anni Rose caduche, pure inedita fino alla pubblicazione postuma (Catania 1928): apprezzata molto da Dall’Ongaro, non fu mai rappresentata.
Nel novembre del 1872 Verga si trasferì a Milano. Dopo un primo periodo di difficoltà testimoniato dalle lettere ai familiari, grazie a Tullo Massarani e a Salvatore Farina, fu introdotto nei salotti intellettuali di Clara Maffei, Vittoria Cima, delle marchese Crivelli e Castiglioni, della contessa Paolina Greppi, di Teresa Mannati-Vigoni, entrando in amicizia con gli esponenti della Scapigliatura: Arrigo Boito, Emilio Praga, Felice Cameroni e Luigi Gualdo, anch’egli legato al movimento. Soprattutto con Cameroni, divulgatore e cultore di testi naturalisti (in particolare di Émile Zola), il rapporto si rinsaldò. Al caffè Cova la frequentazione si ampliò con i commediografi Gerolamo Rovetta e Giuseppe Giacosa, e con Eugenio Torelli-Viollier, fondatore nel 1876 del Corriere della sera. La città gli sembrò affascinante e coinvolgente nella sua ‘febbre di fare’ e nel suo attivismo, nonostante le difficoltà: a Luigi Capuana scrisse che a Milano si respirava la «grand’aria» della metropoli moderna e lo persuase a trasferirsi. Questi vi giunse nel 1876, cosicché al caffè Biffi si formò una piccola colonia di siciliani: Verga, il più attivo, diviso tra il lavoro letterario, gli incontri con gli amici e le serate alla Scala. Da Treves pubblicò un nuovo romanzo, Eva (Milano 1873), suscitando qualche scandalo.
Iniziato e ambientato a Firenze, Eva certifica una tappa importante della sua ricerca: il testamento di Enrico Lanti durante l’ultimo incontro con l’amico narratore ne è la prova. Enrico è l’ultimo «ritratto dell’artista da giovane»: il primo è inaugurato da Pietro Brusio (protagonista di Una peccatrice), i successivi sono i protagonisti di Tigre reale.(Milano 1873) e in parte di Eros (Milano 1875) i due romanzi da cui Verga sperava il successo e la consacrazione come narratore. Enrico, tornato in Sicilia, piegato dai fallimenti e dalla malattia, muore, per lasciare spazio al nuovo «artista» o meglio «scienziato del cuore umano». Eva è il vero snodo della narrativa verghiana; l’autore esercita la sua capacità di stratega romanzesco: il pretesto della storia è ancora un incontro, qui durante un veglione con Enrico mascherato che si fa narratore di un fallimento artistico e sentimentale. Non più le suggestioni di Dumas fils, ma le balzachiane Illusions perdues, i Goncourt e i loro programmi.
Il primo racconto, X, pubblicato sempre nel 1873, è la prima prova della nuova scienza del cuore umano: ricavato da sequenze scartate da Eros (come accadde, poi, per Cavalleria rusticana, scritta sulle stesse carte di Padron ’Ntoni), rivela qualche contatto con il racconto nero scapigliato: al centro il mistero della fanciulla mascherata. Sembra l’avvio di una carriera di novelliere.
In realtà X venne considerata un fallimento. Nel gennaio del 1874, tornato a Milano dopo un periodo di permanenza a Catania, Verga attraversò un momento di gravissimo scoraggiamento, tanto da meditare il ritorno in Sicilia e la rinuncia alla carriera letteraria. Ma già nel febbraio la crisi fu superata, proprio grazie alla stesura e al successo di un racconto, o meglio un «bozzetto»: Nedda (febbraio-marzo 1874), scritto negli intervalli di riposo dalle feste del carnevale milanese.
Ritenuta una sciocchezza, un modo di guadagnare qualcosa, Nedda rappresenta invece l’inizio di quell’analisi della realtà, regionale, ma di significato universale, che realizzò la nuova prosa dell’Italia unita; è la tappa decisiva verso una ricerca stilistica straordinaria, dai risultati rivoluzionari per la prosa narrativa italiana, determinata quasi inconsapevolmente dal desiderio di recuperare il mondo siciliano come unico luogo di certezze (la famiglia, la religione, la casa) in una società messa in crisi dal progresso. A influire su queste nuove scelte di Verga sono i testi della letteratura campagnola francese e italiana: Honoré de Balzac, George Sand, Percoto e Ippolito Nievo, con un interesse anche linguistico per opere che non si allineano al canone manzoniano della quarantana, ma si indirizzano verso il regionalismo dei Promessi sposi del 1827.
Il successo di Nedda convinse Verga a ritentare la strada del narrare breve e nell’autunno del 1874 inviò a Emilio Treves il bozzetto Padron ’Ntoni insieme alle Storie del Castello di Trezza, che con X, La coda del diavolo, Certi argomenti e Primavera, confluirono nel volume intitolato Primavera (Milano 1876).
Questa prima raccolta è composta da racconti assai diversi: due milanesi (X e la novella eponima), due siciliani (La coda del diavolo e le Storie del castello di Trezza) e Certi argomenti, tratto da una sequenza scartata di Tigre reale. X sperimenta la scienza del cuore, Primavera è il banco di prova di un nuovo «indiretto libero», La coda, con la sua premessa metodologica, propone la catena causale degli eventi come oggetto dell’analisi scientifica dei sentimenti, Le storie, nel loro doppio intreccio recuperano la suggestione scapigliata del racconto nero.
Le novità narrative sono quelle annunciate nella premessa alla Coda, con l’idea di farsi psicologo pescando nel «gran cestone della vita» e trovando le relazioni di causa-effetto, e la sperimentazione dei tre tipi di discorso indiretto libero di Primavera (coro, monologo, discorso lirico evocatore). In Nedda prevalgono le ragioni dell’idillio e dei sentimenti primitivi di Vita dei campi, confermati dalla genesi di Jeli il pastore, terza novella scritta dopo Fantasticheria e Rosso Malpelo.
Frattanto, nel 1875, erano usciti i due romanzi da cui Verga si attendeva una grande affermazione, Tigre reale ed Eros, presso l’editore Brigola, dopo il rifiuto di Treves. Sono i cosiddetti romanzi borghesi, di gusto erotico-mondano, che ebbero successo tra il pubblico ottocentesco.
Le letture di Verga si intensificarono: Zola, Gustave Flaubert, Balzac, Guy de Maupassant, Alphonse Daudet, Paul Bourget, Dumas figlio, i Goncourt insieme ad Antonio Fogazzaro, Gabriele D’Annunzio, Giosue Carducci e agli scrittori russi Nilolaj Gogol, Lev N. Tolstoj, Fëdor M. Dostoevskij, Maksim Gor′kij, Ivan S. Turgenev.
Tra il 1876 e il 1878 si delineò la storia dei Malavoglia, documentata dalle difficili trattative con Treves e rallentata anche da momenti di crisi, sia creativa sia personale, per la morte nel 1877 della sorella prediletta Rosa. Ma un anno dopo, il 21 aprile, in una lettera a Salvatore Paola Verdura, Verga dichiarava con entusiasmo il nuovo progetto di La marea, poi Ciclo dei vinti, con l’annuncio della serie: I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La duchessa delle Gargantas, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso.
Gli anni 1878-80 furono cruciali per l’officina dei Malavoglia e di Vita dei campi, in cui Verga metteva a fuoco le strategie strutturali stilistiche e linguistiche per il romanzo, soprattutto attraverso le stesure di Jeli il pastore e L’amante di Gramigna. Nonostante l’entusiasmo iniziale, le difficoltà del nuovo progetto si evidenziarono subito e proprio dalle prime stesure di Vita dei campi: nel novembre del 1879 Verga iniziò a scrivere Jeli il pastore, terza o quarta novella di un volume che aveva promesso a Treves. Nei primi tre abbozzi non riuscì a liberarsi dell’autobiografismo che aveva caratterizzato X e in parte Primavera. Solo nell’ultimo abbozzo la realtà si rivela in agguato per tutti i personaggi-mito; emergono, quasi al di là delle intenzioni dell’autore, i temi sociali non attraverso polemiche enunciazioni ma nelle storie dei personaggi.
La vita miserabile e stentata dei marinai sulla costa (Fantasticheria), una embrionale coscienza di classe (il mutato rapporto tra Jeli e Alfonso, una volta sfumato l’idillio dell’infanzia), le terribili condizioni dei minatori, il lavoro e l’emarginazione minorile (Rosso Malpelo), il brigantaggio come reazione a novità politiche senza vantaggi per i contadini sempre più sfruttati all’interno del latifondo (L’amante di Gramigna), la religione ridotta a superstizione, strumento di potere (Guerra di santi), la violenza dei sentimenti (Cavalleria rusticana, La Lupa): un mondo che, sotto il mito, mostrava il suo volto degradato, peggiore, se possibile, dopo l’Unità. Intanto si perfezionava quello stile particolarissimo che spiazzò il pubblico conservatore soprattutto alla lettura dei Malavoglia. La scelta di Verga era di rendere dialettale la sintassi, usando i nessi irrazionali del parlato, i famosi «che» e le coordinazioni alogiche, che introducono temporali, causali, consecutive in modo a-normale, i continui cambiamenti di soggetto che spostano l’attenzione da un argomento all’altro, il tutto filtrato attraverso il discorso indiretto libero in periodi lunghi, avvolgenti, dall’interpunzione rara e irregolare, pronto a divenire modulo costante del coro malavogliesco.
Tutti i racconti furono pubblicati tra il 1878 e il 1880 in varie riviste, tra cui Il Fanfulla della domenica, dal 1879 diretto da Ferdinando Martini, e la Rivista minima (vi apparve L’amante di Raia, poi Gramigna, con la lettera-premessa a Farina, di estrema importanza per la teoria dell’impersonalità).
La raccolta, pubblicata in volume da Treves nel 1880, ebbe grande successo: nel 1881 fu riedita con l’aggiunta di un racconto scartato nella prima stampa, Il come, il quando ed il perché; altre edizioni si susseguirono. Nel 1892 fu riedita con il titolo Cavalleria rusticana ed altre novelle, in conseguenza del grande successo della versione teatrale di Cavalleria rusticana. Nel 1897, con il titolo Vita dei campi, uscì in un’edizione di lusso con illustrazioni di Arnaldo Ferraguti; i testi, intensamente rivisti da Verga, generarono così una ‘doppia tradizione’ della raccolta nelle ristampe successive, non sempre corrette.
Nel 1881, contemporaneamente alla ristampa di Vita dei campi, uscirono I Malavoglia. L’accoglienza al romanzo non fu la stessa ricevuta dalla raccolta: la freddezza e l’incomprensione della critica (con l’eccezione di Capuana), amareggiarono Verga, ma non lo distolsero dal suo progetto, tanto che cominciò a stendere i primi abbozzi di Mastro-don Gesualdo.
La storia compositiva dei Malavoglia era principiata nel 1874 con il bozzetto di «genere diverso» inviato a Treves. Già l’anno dopo Verga dichiarava all’editore l’intenzione di rifarlo di sana pianta per essere «più breve ed efficace» e per pubblicarlo a puntate nell’Illustrazione italiana. Ma nulla venne fatto, mentre le trattative proseguirono e il bozzetto mutò genere più volte: novella, romanzo e ancora novella, quando – nel febbraio del 1878 – venne proposto a Sidney Sonnino per la Rassegna settimanale di scienze, lettere ed arti, con la previsione che per pubblicarlo sarebbe occorso un gran numero di colonne della rivista (e questo fa pensare a una stesura molto progredita e in forma di romanzo). In realtà ciò di cui Verga disponeva erano due abbozzi, un terzo abbozzo di ottanta carte, ma acefalo (probabilmente perché le prime quaranta carte erano state inviate a Treves), che inizia con la partenza del giovane ’Ntoni per il servizio militare e si conclude con la morte della Longa.
L’autografo presenta la maggior parte dei nuclei tematici dei Malavoglia, ma è ancora un testo di impianto bozzettistico, quasi una malriuscita traduzione narrativa dei manuali di folklore siciliano. Si tratta insomma di vecchie stesure risalenti agli anni 1874-76, di cui Verga doveva liberarsi: finalmente, solo nel giugno del 1878 comunicò a Capuana il «sacrificio incruento» e la scelta della nuova «’ngiuria» (il soprannome), Malavoglia appunto. Al taglio drastico della redazione a bozzetto seguì un lavoro accanito nei due abbozzi successivi, che presentano una prima divisione in capitoli dal terzo al quinto e testimoniano con le fittissime correzioni la difficoltà di superare l’impianto iniziale. Un quinto manoscritto testimonia due fasi di lavoro, una stesura base e un’immediata revisione: si tratta di una fase correttoria densissima soprattutto in alcune sequenze narrative. Le chiacchiere su ’Ntoni soldato, l’affare dei lupini, le conversazioni nel paese tra don Silvestro, don Franco, Piedipapera, compare Cipolla e padron ’Ntoni e poi tra i personaggi femminili, e nelle pagine dedicate al lutto e al funerale di Bastiano. Se l’‘affresco’ ha trovato una sua linea di sviluppo, resta però da definire l’inizio: vi sono dedicati altri due abbozzi, prove ambedue dei problemi che questo comportava. Il primo testimonia un’apertura del romanzo con l’attuale capitolo III, cioè la tempesta, con un incipit convenzionale ma di sicuro effetto: «Era stata una brutta giornata di novembre...»; il secondo modifica e inizia con la sequenza del «consolo» e delle esequie di Bastianazzo, il che obbliga al recupero per analessi degli antefatti rappresentati, messi in scena nell’«affresco». Questa variante fu subito scartata, così come la precedente: vennero aggiunti i due capitoli iniziali.
Il 25 aprile 1880 Verga, a riprova delle incertezze sull’inizio del romanzo, mandò a Treves i primi capitoli, dichiarandogli l’intenzione di iniziare in medias res: «preferisco tagliar via tutta la prima parte sino a p. 42 e cominciare subito colla pagina 1 dell’altro brano di manoscritto che vi mando. Rinunzio ad una maggior evidenza di paesaggio, di personaggi e di ambiente, ma ci guadagno di efficacia e di interesse. Ad ogni modo vorrei anche il vostro parere perché sono perplesso su ciò». L’«altro brano di manoscritto» potrebbe essere l’ultimo e nono abbozzo che inizia con l’episodio della tempesta e del naufragio, cui segue il capitolo secondo che recupera gli antefatti: questo prima dell’ulteriore rimaneggiamento, che spostò le sequenze del nono manoscritto secondo l’ordinamento dell’autografo definitivo.
Negli anni 1878-79, nel laboratorio malavogliesco, aveva trovato spazio anche per ragioni economiche un altro romanzo, la cui stesura fu penosa tanto da indurre Verga a definirlo «quel cornuto Marito di Elena» e da causare il risentito commento dell’editore, in data 26 giugno 1881: «Il marito di Elena doveva essere un passatempo: finisce invece con l’essere il vostro lavoro dell’81».
La prima idea drammatica, con un inizio processuale per l’omicidio dell’amante di Elena da parte del marito tradito, era stata trasformata in una ricerca sui contrasti della vita sociale in un ambiente di provincia, da far «risaltare delicatamente», ma con tono «mondano, reso leggermente, ironicamente» (così Verga in una lettera a Treves del 9 gennaio 1879). Il romanzo ebbe successo presso quello stesso pubblico che rifiutò I Malavoglia: otto ristampe seguirono alla prima edizione del 1882, fino al 1923, senza revisioni da parte dell’autore. Immediata la traduzione francese, caldeggiata e portata a termine da Édouard Rod e uscita nello stesso anno in rivista.
Nella primavera Verga intraprese un viaggio a Parigi e a Londra. A Parigi incontrò Rod, con lui si recò a trovare Zola a Medan; durante la seconda tappa a Londra scrisse la novella epilogo delle Novelle rusticane, Di là del mare. Londra lo deluse. Ma intanto era iniziata e in gran parte compiuta la stesura delle Novelle rusticane, che uscirono presso l’editore Casanova di Torino nel 1883 con illustrazioni di Alfredo Montalti. Era stato Cameroni, traduttore dal francese e critico teatrale del Sole, a passare all’amico Verga i volumi di Zola, ricevendone, nonostante la stima per «uno dei più grandi artisti», delle vere e proprie recensioni, non subito del tutto positive. Ed era stato Cameroni a metterlo in contatto con Rod, scrittore e adepto del circolo di Medan, che non solo scrisse la migliore recensione ai Malavoglia.(nel Parlement del 4 luglio 1881) e lo fece leggere a Zola, ma che lo tradusse nel 1887, dando l’avvio a un decennio di traduzioni delle opere di Verga in francese, inglese, tedesco, olandese (Carteggio Verga-Rod, a cura di G. Longo, 2004, pp. 54 ss.).
Progettate come un secondo volume di Vita dei campi, le Novelle rusticane presero subito un’altra direzione, verso un’indagine a tutto campo sulla realtà provinciale siciliana. Messi in ombra i personaggi-eroi dalle passioni primitive, i protagonisti appaiono le larve di un mondo rievocato in Di là del mare, mentre il mito della roba che già si era insinuato nei rapporti amorosi di quei protagonisti comincia a mostrare il suo volto dominante. L’idillio con il mondo siciliano si è esaurito: religione, giustizia, politica, economia vengono analizzate a fondo e crudamente attraverso i personaggi di Il reverendo, Il mistero, Cos’è il re, Don Licciu Papa, I galantuomini, La roba, Pane nero, mentre l’equivoco del Risorgimento è chiarito in Libertà, una prova straordinaria, fuori dal canone celebrativo e in contrasto con la contemporanea memorialistica garibaldina. La prospettiva disincantata del naturalismo zoliano ha fatto maturare in Verga la riflessione sulla società siciliana.
Le Novelle rusticane ebbero una nuova edizione completamente riveduta nel 1920 presso le Edizioni della Voce. Giuseppe Prezzolini propose a Verga, nell’ambito delle celebrazioni per gli ottant’anni, una nuova pubblicazione delle novelle: fu l’occasione per lo scrittore di mettere mano ai testi anche per recuperare i diritti che l’editore Casanova non aveva tutelato.
Il decennio produttivo 1880-90 proseguì con Per le vie (Milano 1883), sempre uscito per Treves: nonostante la definizione limitativa che ne diede Cameroni (bozzetti impressionisti alla Giuseppe De Nittis), Per le vie è forse la trasposizione narrativa più riuscita del proletariato milanese, della vita dei bassifondi, che proprio in quegli anni era al centro degli interessi degli intellettuali meneghini legati dapprima al Gazzettino rosa e poi alla Plebe. Sempre negli anni milanesi Verga intrecciò una relazione destinata a durare a lungo con la contessa Paolina Greppi: ci resta un fitto carteggio che documenta l’intensità e le varie fasi del rapporto.
Milano, «la città più città d’Italia» è il vero oggetto dei racconti; la nuova tematica era stata dichiarata in Di là del mare, dove il tema della città è rappresentato dal ricordo di Londra, «immensa città nebbiosa e triste», a contrasto con i ricordi siciliani e dei personaggi ormai scomparsi dei paesi etnei ed è il confronto tra due dimensioni tanto lontane a rendere più forte il ricordo e la necessità della scrittura per fissare la memorie di vite e luoghi marginali, quasi dimenticati. Ma c’è anche la denuncia sociale, espressa nel racconto In piazza della Scala attraverso il personaggio del vetturino; in Camerati è ripreso il discorso critico sul Risorgimento e la polemica antimilitarista, sullo sfondo della terza ingloriosa guerra d’indipendenza (già fatale nei Malavoglia per Luca disperso nella battaglia di Lissa): a Custoza ne è protagonista il disorientamento di Malerba, contadino meridionale, che non capisce la guerra, ma si destreggia bene nella battaglia. Di grande interesse è anche la sperimentazione linguistica sui modi della parlata milanese, anche qui realizzati sulla sintassi più che sul lessico, anche se non mancano dialettismi espliciti e una grande capacità di mimesi.
In questi anni la stesura del Mastro-don Gesualdo.si concretizzò attraverso sette abbozzi: furono poi eliminati ma recuperati in parte per costruire la prima redazione delle novelle Vagabondaggio e Mondo piccino.
La sperimentazione verghiana proseguì con Drammi intimi (Roma 1884), novelle di diversa tematica e ambientazione: tre aristocratico-borghesi e psicologiche, per impostare la ricerca sui comportamenti delle classi alte, e tre popolari: mentre le prime furono recuperate e riviste in I ricordi del capitano d’Arce, le altre non verranno più riprese, nonostante la qualità almeno della Chiave d’oro (oggetto di una acuta analisi di Leonardo Sciascia, che puntò sulle sottili allusioni al fenomeno mafia) e di Tentazione!, cronaca di una violenza carnale nelle campagne lombarde che destò notevole scalpore.
Verga meditava intanto il ritorno al teatro, in una linea teorica condivisa da Capuana e mediata dalla lettura del Naturalisme au théâtre di Zola (1881). Divenne così l’occasione per riprendere il tentativo già avviato negli anni Sessanta: sollecitato da Capuana e da Giacosa, ridusse una delle novelle già di impostazione teatrale, Cavalleria rusticana, perfetta quanto a unità di tempo e di azione (anche Zola ne teorizzò la necessità per la pièce naturalista).
Il dramma fu letto in anteprima a Treves, Boito, Gualdo, Torelli-Viollier e solo quest’ultimo lo giudicò positivamente. Il successo fu invece sensazionale alla prima andata in scena presso il teatro Carignano di Torino il 14 gennaio 1884, con Eleonora Duse nella parte di Santuzza: le azioni del triangolo della novella dettate da moventi economici si trasformano in un potente dramma dell’amour passion psicologico-borghese, che ebbe successo anche in Francia. Cavalleria, tradotta da Paul Solanges, fu messa in scena a Parigi nel 1888 da André Antoine nel teatro dei Menus-Plaisirs.
Spinto dall’esito eccellente Verga si accinse alla riduzione teatrale del Canarino del n. 15, una delle novelle di Per le vie, ma il ‘dramma intimo’ dei quartieri popolari milanesi fu accolto freddamente al teatro Manzoni di Milano il 16 maggio 1885. L’insuccesso, i problemi posti dal secondo romanzo del Ciclo dei vinti insieme con alcune preoccupazioni economiche e familiari, che lo tormentarono fino a tutto il 1889, furono causa di una grave crisi psicologica, che si risolse con la ripresa del Mastro-don Gesualdo. Tra il 1886 e il 1887 passò lunghi periodi a Roma, lavorando a una nuova raccolta, Vagabondaggio (Firenze 1887), che come Vita dei campi per I Malavoglia, consentì, attraverso nuove sperimentazioni tematiche e stilistiche, il passaggio al romanzo. Tra il 1887 e il 1888 Verga iniziò a pensare alla pubblicazione: nell’estate del 1888 tornò in Sicilia dove rimase, tranne brevi viaggi a Roma, fino al novembre del 1890, alternando alla residenza a Catania soggiorni estivi a Vizzini: qui riprese il romanzo che sarebbe dovuto uscire dall’editore Casanova e, avendo ormai pronti i capitoli iniziali, optò per una prima uscita a puntate nella Nuova Antologia.
Iniziò così un biennio di intenso lavoro sul Mastro, dapprima per mantenere l’impegno con la rivista, poi per la radicale revisione che Verga volle fare per la pubblicazione in volume presso Treves (Milano 1889): impostò un nuovo manoscritto, ma continuò a correggere sulle bozze in colonna, cambiando strategia narrativa per interi capitoli (soprattutto quelli centrali della terza parte), mentre addirittura sulle bozze impaginate scrisse le battute conclusive del romanzo, con i cinici commenti dei servitori accanto al letto di morte del protagonista.
È qui il punto d’arrivo di tante analisi psicologiche della malattia e di una serie di drammatiche agonie: la presa di distanza è perfettamente naturalistica e antiromantica, in perfetto accordo con la redazione definitiva che elimina pagine e pagine di effusioni patetiche di Isabella nonché di riflessioni di Gesualdo sul rapporto con l’aristocratica e gelida consorte, quasi come un succube ‘marito di Elena’. La struttura del romanzo cambia rispetto ai Malavoglia: non più una sequenza di capitoli, ma quattro parti che definiscono la vicenda umana di Gesualdo, protagonista assoluto e padrone anche degli stilemi più innovativi della scrittura verghiana: eliminato il coro di paese, l’indiretto libero è il mezzo dei soliloqui e dei pensieri del personaggio, mentre il dialogo e la descrizione dei luoghi, degli ambienti e delle figure che Gesualdo domina, sono gli statuti stilistici che si alternano con sapienza estrema. Il romanzo ebbe ottima accoglienza da parte della critica, ma fu forse un po’ offuscato dall’incredibile pubblicità intorno al Piacere di D’Annunzio, uscito nello stesso anno e dallo stesso editore.
Nel 1889 al lavoro sul Mastro si unì la scrittura delle novelle poi confluite nei Ricordi del capitano d’Arce, uscite in volume da Treves (Milano 1891): i primi sette racconti, inediti, svolgono il cosiddetto ‘romanzo di Ginevra’, dal nome dell’eroina, la seduttrice aristocratica, al centro di un’indagine sui rapporti di amicizia e di amore nell’alta società, che ora è quella napoletana degli ufficiali di marina, che anticipa la complessa realtà palermitana della Duchessa di Leyra. Di là dall’esercizio su descrizioni, dialoghi, analisi dei rapporti più sottili e sfuggenti delle alte sfere, nei Ricordi è da notare la ripresa dell’antico e canonico modello di racconto a infilzamento, per cui da un titolo all’altro si ripresenta lo stesso personaggio a legare i vari pezzi (Ginevra), insieme con due personaggi maschili fissi: il capitano d’Arce, narratore in prima persona sull’onda del ricordo, e Casalengo, l’amante fedele alla sua donna fatale fino alla canonica morte di lei.
Nel 1889 Verga incontrò la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo, alla quale rimase legato per il resto della vita.
Il 17 maggio 1890 al teatro Costanzi di Roma andò in scena l’opera Cavalleria rusticana con musica di Pietro Mascagni: ne nacque una lunga vertenza giudiziaria con il musicista e l’editore Sonzogno per i diritti d’autore, che si concluse favorevolmente per Verga nel 1893, con un risarcimento di 140.000 lire.
Nel 1890 lo scrittore, sull’onda del buon esito del Mastro, si accinse a continuare il Ciclo dei vinti con La duchessa di Leyra e L’onorevole Scipioni, ma non portò a termine nessuno dei due romanzi: del primo restano poche sequenze iniziali, del secondo soltanto qualche spunto in alcune lettere all’amico Capuana.
Nel 1893 Verga fece ritorno a Catania per risiedervi stabilmente, tranne saltuari viaggi a Milano e a Roma. Nello stesso anno iniziarono trattative con Giacomo Puccini per una nuova versione lirica di Cavalleria su libretto di De Roberto, un progetto destinato a non realizzarsi. Nell’Illustrazione italiana, rivista prestigiosa di casa Treves, uscirono, illustrati da Arnaldo Ferraguti, Jeli il pastore, Fantasticheria (con il titolo Fantasticherie) e Nedda: nell’occasione Verga inserì numerose correzioni, dando così inizio alla revisione che portò all’edizione illustrata del 1897.
Nel 1894 pubblicò, sempre per Treves, l’ultima raccolta, Don Candeloro e C., dodici racconti disposti a blocchi tematici: cinque racconti teatrali, due storici, tre conventuali, uno di amore e gelosia, più un racconto epilogo. Nel loro insieme sono una dichiarazione di fallimento del verismo, ma nella loro straordinaria qualità aprono la strada alle teorizzazioni pirandelliane. L’anno seguente, durante un altro soggiorno a Roma, incontrò Zola e Capuana.
Proseguì intanto la messa in scena dei suoi drammi: nel 1896 La Lupa ebbe a Torino un discreto successo, a Milano furono messi in scena La caccia al lupo, nel 1901, e La caccia alla volpe, nel 1903, e quindi Dal tuo al mio. Da quest’ultimo dramma Verga trasse il romanzo omonimo, pubblicato nel 1905 nella Nuova Antologia e poi da Treves (Milano 1906).
La nuova opera esprime le posizioni fortemente conservatrici di Verga, che, pur dopo aver assistito ai moti dei fasci siciliani e poi alla repressione delle rivolte milanesi a opera del generale Fiorenzo Bava-Beccaris, e pur riuscendo a rappresentare i problemi sociali della nuova Italia, non cambiò le sue convinzioni nel delineare il protagonista Luciano che, divenuto proprietario delle zolfare con il matrimonio, da sindacalista quale era si trasforma in violento difensore dei diritti di proprietà, perché il meccanismo è ancora quello del Mastro-don Gesualdo, una contesa tra egoismi.
Dopo il 1907 Verga rallentò l’attività letteraria e si dedicò alla cura delle proprie terre, e all’educazione dei nipoti, dopo la morte del fratello Pietro; continuò però a lavorare alla Duchessa di Leyra, di cui venne pubblicato postumo un solo capitolo a cura di De Roberto (in La Lettura, 1922, giugno, pp. 401-413).
Gli anni Dieci lo videro sceneggiatore per il cinema in prima persona, e con la collaborazione di De Roberto: i testi scelti sono Cavalleria rusticana, La Lupa, Storia di una capinera, Caccia al lupo e Caccia alla volpe. L’ultima novella, Una capanna e il tuo cuore, fu scritta nel 1919 e uscì postuma nell’Illustrazione italiana il 12 febbraio 1922. Nell’ottobre del 1920 fu nominato senatore: per gli ottant’anni si tennero celebrazioni a Roma al teatro Valle (fu presente Benedetto Croce) e a Catania con discorso ufficiale di Pirandello. Ancora nel 1920 (ma con data editoriale 1919), a Napoli presso Ricciardi, uscì la monografia di Luigi Russo, Giovanni Verga. Lo scrittore continuò a tenersi lontano dalla vita politica attiva. Legato alla formazione risorgimentale, fu amareggiato dalla sconfitta di Adua e dalla caduta di Francesco Crispi, disapprovò la politica di Giovanni Giolitti in favore dello sviluppo industriale del Nord e a danno dell’agricoltura meridionale, ma fu contrario al separatismo siciliano; da esponente della Destra liberale e nazionalista, condivise la politica coloniale e fu favorevole all’intervento italiano nella Grande Guerra.
Colpito da trombosi cerebrale, assistito dall’amico De Roberto, morì il 27 gennaio 1922 a Catania nella casa natale di via Sant’Anna.
Opere. Per l’Edizione nazionale delle Opere di Giovanni Verga sono da ricordare, rispettivamente, i volumi: Vita dei campi, a cura di C. Riccardi, Firenze 1987; Mastro-don Gesualdo 1888, ed. critica a cura di C. Riccardi, Firenze 1993 e Mastro-don Gesualdo, ed. critica a cura di C. Riccardi, Firenze 1993; I Malavoglia, ed. critica a cura di Ferruccio Cecco, Novara 2014; Novelle rusticane, ed. critica a cura di G. Forni, Novara 2016; Vagabondaggio, a cura di M. Durante, Novara 2018; Il marito di Elena, a cura di F. Puliafito, Novara 2019. Si ricordino, inoltre: Mastro-don Gesualdo, a cura di G. Mazzacurati, Torino 1992, e il volume Teatro, a cura di G. Oliva, Milano 1987. Fra i carteggi si vedano almeno: G. Verga, Lettere a Luigi Capuana, a cura di G. Raya, Firenze 1975; G. Verga, Lettere sparse, a cura di G. Finocchiaro Chimirri, Roma 1979; G. Raya, Carteggio Verga-Capuana, Roma 1984; Carteggio Verga-Rod, a cura di G. Longo, Catania 2004.
Fonti e Bibl.: L. Russo, G. V., Napoli 1919 (e successive edizioni); F. De Roberto, Casa V. e altri saggi verghiani, a cura di C. Musumarra, Firenze 1964; R. Luperini, Pessimismo e verismo in G. V., Padova 1968; Id., Tre tesi su V., Firenze 1968 (poi Torino 2009); L. Capuana, V. e D’Annunzio, a cura di M. Pomilio, Bologna 1972; G. Debenedetti, V. e il naturalismo, Milano 1976; R. Luperini, V. e le strutture narrative del realismo. Saggio su “Rosso Malpelo”, Padova 1976 (poi Torino 2009); N. Borsellino, Storia di V., Bari 1982; V. Masiello, I miti e la storia, Napoli 1984; G. Mazzacurati, G. V., Napoli 1984; G. Alfieri, Il motto degli antichi, Catania 1985; Biblioteca di G. V. Catalogo, a cura di S.S. Nigro, Catania 1985; M. Muscariello, Le passioni della scrittura. Studio sul primo V., Napoli 1989; R. Melis, La bella stagione del V., Catania 1990; G. Debenedetti, V. e il naturalismo. Tra la Sicilia, Milano e l’Europa, Milano 1995; N. Genovese - S. Gesù, V. e il cinema. Con una sceneggiatura verghiana inedita di «Cavalleria rusticana», Catania 1996; G. Mazzacurati, Stagioni dell’Apocalisse, Torino 1998; R. Luperini, V. moderno, Roma-Bari 2005; D. Marchese, La poetica del paesaggio nelle «Novelle rusticane», Catania 2009; D. Motta, La lingua fusa, Catania 2011; G. Alfieri, V., Roma 2016; R. Luperini, G. V. Saggi (1976-2018), Roma 2019.