Verga, Giovanni
Il maestro del verismo
Un’amara visione del mondo ispira le opere di Giovanni Verga, il maggiore esponente del verismo, un movimento letterario nato nella seconda metà del 19° secolo. Con la propria rappresentazione della realtà, lo scrittore mostra, nelle novelle e nei romanzi, come il mito del progresso sia destinato a rivelarsi un’illusione. Lo stile e il linguaggio di Verga hanno rinnovato la narrativa italiana
Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840 in una famiglia di proprietari terrieri. Già prima del 1860, anno in cui appoggia la campagna di Garibaldi in Sicilia, inizia a scrivere romanzi. A venticinque anni si trasferisce a Firenze, allora capitale, e poi a Milano, dove conosce intellettuali e letterati; qui si avvicina alla scapigliatura, movimento letterario d’avanguardia che si era diffuso nell’Italia settentrionale nella seconda metà del 19° secolo. Tra il 1871 e il 1874, con i primi romanzi (Eva e Tigre reale) e le prime novelle (Nedda), si afferma come autore di successo, esprimendo la preferenza per temi legati ai diversi ambienti sociali del nostro paese e il gusto per una scrittura asciutta e comunicativa. In alcune lettere agli amici, Verga dichiara di ammirare i romanzieri francesi contemporanei che nelle loro opere raffigurano la realtà in maniera impersonale, quasi come se la fotografassero. Egli si riferiva ai naturalisti (naturalismo), dei quali il maggior rappresentante era Émile Zola. Tuttavia, tra il 1878 e il 1881, elabora un progetto che si allontana dalle esperienze precedenti; egli vuole osservare attentamente il mondo circostante, capire i desideri degli uomini, ascoltare come essi parlano e successivamente trasferire nei romanzi la propria interpretazione, la propria visione della società contemporanea.
Nel 1881 pubblica I Malavoglia, in cui narra le sfortunate vicende di una famiglia di pescatori di Aci Trezza, paese in provincia di Catania. È il primo libro di un ciclo intitolato I vinti, che prevedeva la stesura di cinque romanzi: in essi Verga voleva rappresentare l’avidità degli uomini, la loro voglia di migliorare socialmente ed economicamente, la loro battaglia per conquistare quella che l’autore chiama la «roba». È una brama incessante che accomuna tutti, poveri e ricchi. Solamente due dei libri immaginati, però, vengono portati a compimento.
I Malavoglia, soprannome della famiglia Toscano, in poco tempo vedono affondare la loro barca, fonte di guadagno e di sussistenza, e sono costretti, per pagare i debiti, alla vendita della «casa del nespolo». A questi episodi iniziali Verga ne fa seguire altri, tristissimi, che raffigurano lo scontro crudele tra i desideri umani e la loro mancata realizzazione. I Malavoglia, però, portano sulla scena anche il panorama storico di una società meridionale che alla fine del 19° secolo, avverte gli echi del progresso europeo e tuttavia si rivela impreparata a esserne partecipe.
In questa opera Verga perfeziona la tecnica narrativa sperimentata precedentemente, caratterizzata dall’uso del discorso indiretto libero, che permette di inserire nel racconto le voci e i punti di vista dei personaggi. In questo modo è la famiglia dei Malavoglia e sono gli abitanti di Aci Trezza a prestare all’autore le loro parole semplici e la loro grammatica elementare.
Nel secondo romanzo del ciclo dei Vinti, pubblicato nel 1889, Verga dimostra come sia impossibile, in una società priva di autentici valori morali, prevedere un miglioramento delle condizioni umane.
Ambientato nella provincia siciliana durante il Risorgimento, Mastro-don Gesualdo è l’opera in cui il progetto di rappresentare l’avidità degli uomini appare più felicemente risolto.
Il manovale Gesualdo, spinto solamente da un’ambizione smodata, dopo aver accumulato un consistente patrimonio col duro lavoro, riesce a sposare una ;nobile decaduta. Ma Gesualdo, nonostante sia diventato un uomo ricco – infatti nel corso del romanzo il suo appellativo cambia da mastro in don –, agli occhi del mondo rimarrà sempre un popolano e come tale verrà trattato sino alla fine dei suoi giorni.
Rispetto allo stile corale dei Malavoglia, in questa opera ci troviamo guidati da un narratore che con distacco raffigura luoghi e paesaggi lividi e desolati, premonitori della miseria umana che i personaggi del Mastro-don Gesualdo rappresentano.
Nel 1893 Verga torna definitivamente a Catania dove continua l’attività di scrittore fino alla morte, avvenuta nel 1922.