Verga, Giovanni
Giovanni Verga, nato a Catania nel 1840, trascorse alcuni periodi della sua vita, legati a esperienze letterarie diverse, a Firenze, a Milano e poi a Roma, e morì nel 1922. La sua attività letteraria si colloca alla svolta tra naturalismo e decadentismo, come traspare anche dalle scelte di lingua e di stile, ed è caratterizzata dalla presenza simultanea di tematiche mondane e rusticane, affrontate in romanzi, novelle e teatro, con frequenti passaggi da un genere all’altro, fino agli estremi tentativi di sceneggiatura cinematografica (Storia di una capinera, Tigre reale, La lupa, Cavalleria rusticana e Caccia al lupo).
In quest’ottica, la pubblicazione di Nedda nel 1874 segna, più che una conversione letterario-linguistica, il passaggio evolutivo dalla prima fase monocorde della scrittura verghiana a quella successiva, segnata da continue sperimentazioni solo in apparenza contraddittorie. La febbrile ricerca stilistica, connaturata alla volontà positivista di esplorare tutti gli strati sociali, si sarebbe poi materializzata nell’incompiuto ciclo dei Vinti.
A questa instancabile attività narrativa e drammaturgica corrisponde un linguaggio in cui si fondono costantemente grammatica e retorica. Così l’italiano di timbro regionale di Nedda (1874), Vita dei campi (1880), I Malavoglia (1881), Novelle rusticane (1883), Per le vie (1883), Vagabondaggio (1887), Mastro-don Gesualdo (1889) e dei bozzetti (scene popolari) teatrali di Cavalleria rusticana (1884), In portineria (1885) e La lupa (1896) è intriso di valenze simboliche affidate ad allitterazioni, metonimie metafore e sineddochi.
La dominante vena tardo-romantica e intimista è attraversata da guizzi di concretezza espressiva prodotti da lessico e costrutti inaspettatamente realistici, individuabili simmetricamente nella produzione mondana che interseca il più cospicuo corpus verista, dai romanzi (Una peccatrice, 1866; Storia di una capinera, 1871; Eva, 1873; Tigre reale, 1874; Eros, 1875) e dalle commedie (I nuovi tartufi, 1865; Rose caduche, 1869) del periodo fiorentino, ai racconti realisti (Primavera, 1876; Drammi intimi, 1884) e al romanzo piccolo-borghese del periodo milanese (Il marito di Elena, 1882), dalle novelle e dai romanzi decadenti della maturità (I ricordi del capitano D’Arce, 1891; Don Candeloro & ci, 1894; l’incompiuta Duchessa di Leyra) al dramma (poi romanzo) tardo-verista Dal tuo al mio (1903 e 1905), per chiudere col dittico rusticano-mondano dei bozzetti teatrali di Caccia alla volpe e Caccia al lupo (1902) – quest’ultimo con precedenti novellistici (1896) – e con le tardive riedizioni di Vita dei campi (1897) e delle Novelle rusticane (1920). I segreti di tale equilibrio tra lingua e stile vanno riconosciuti nei livelli sintattico e semantico.
La dimensione costitutiva e unificante della lingua di Verga è affidata a una sintassi potentemente mimetica, ora del discorso popolare ora del discorso alto-borghese. In entrambi i casi l’autore affida il racconto a una voce narrante interna, di volta in volta identificabile col narratore popolare – individuale o corale – o con un singolo personaggio vicario del narratore onnisciente. Lo strumento usato per garantire l’impersonalità del narratore (e anche la sua ‘eclissi’ rispetto alla realtà narrata) e, nello stesso tempo, per esprimere le sensazioni e i sentimenti dei personaggi, è il ➔ discorso indiretto libero, che costituisce la principale novità della scrittura verghiana. Con esso Verga salda forma e contenuto e realizza un’osmosi tra piano diegetico e piano mimetico, servendosene per riportare, senza ricorrere al ➔ discorso diretto, le parole dei personaggi, per ‘raccontare’ i loro dialoghi, riferire i monologhi interiori e introdurre nella narrazione la voce del coro o del narratore popolare. In Verga il discorso indiretto libero si caratterizza per la forte vicinanza con il parlato e l’oralità.
Parallelamente, in tutta la testualità verghiana la dimensione semantica risulta connotata da un costante andirivieni tra senso letterale e senso figurato, ora sul livello singolarmente lessicale, ora su quello idiomatico o addirittura formulare (Alfieri 1983; Bruni 1999; Motta 2010).
Il carattere radicalmente innovativo della lingua del Verga verista segnò ineluttabilmente il destino critico dei suoi testi: freddezza presso pubblico e critica, con l’illustre eccezione di Croce (1915), accolsero I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, le novelle e il teatro rusticano. Ciò che turbava maggiormente lettori e recensori era soprattutto l’assoluto anticonformismo delle scelte grammaticali e sintattiche di Verga, ma suscitava perplessità anche l’insistita venatura dialettale (siciliana nei testi rusticani e milanese nelle novelle suburbane). Se infatti persino amici ed estimatori biasimavano l’eccessiva arditezza di idiomatismi, pronomi e che di matrice dialettale, altri, come il pubblicista Edoardo Scarfoglio e il sicilianista Alessio di Giovanni, rinfacciavano a Verga la pavida soluzione di un italiano sicilianizzato – ma non abbastanza –, esortandolo a ritradurre in ‘puro’ siciliano i suoi capolavori. In realtà, la genialità della soluzione verghiana consiste nella calibrata immissione nella lingua letteraria di strutture idiomatiche siciliane, che assumono particolare valore sul piano antropologico, con il contrappeso del parlato toscano come garante della italianità e quindi dell’intelligibilità dei testi su un orizzonte nazionale. Tale soluzione si può rapportare all’esperienza personale dello scrittore, passato dalla competenza linguistica giovanile, limitata a dialetto e italiano regionale, a quella adulta arricchita dal toscano e dall’italiano dei parlanti colti frequentati a Firenze e a Milano (Alfieri 1986).
Ne risultava, quindi, una lingua narrativa in cui l’elemento regionale assicurava la coloritura locale, senza tuttavia limitare la comprensibilità del testo sull’orizzonte nazionale: prima di dare accesso alla pagina di una novella, di un romanzo o di un dramma, per ogni parola, nomignolo, indovinello, proverbio o costrutto siciliano, Verga controllava rigorosamente la corrispondenza con il toscano, letterario o parlato, anche a costo di sacrificarne l’autenticità semantica (come nel proverbio I forestieri, frustali, rifacimento di Frusteri frustili «svergogna i forestieri»), oppure ne forniva la traduzione immediata («da pagarsi col violino, a tanto il mese»). Nella sua scrupolosa verifica, Verga affiancava alla propria competenza diretta di parlante e scrivente i vocabolari postmanzoniani (➔ lessicografia): il Rigutini-Fanfani (Vocabolario italiano della lingua parlata, 1875) per il toscano e il Macaluso Storaci (Vocabolario siciliano-italiano e italiano-siciliano, 1875) per il siciliano (Alfieri 1980; Salibra 1994). Ne risultava una ‘etnificazione’ tanto socio-letteraria, rispondente alle istanze estetiche del verismo, quanto socio-politica, rispondente alle istanze civili dell’intellettualità postunitaria. L’etnificazione intenzionale, dovuta a calibrata «posologia» dell’elemento idiomatico nella lingua letteraria, propria del Verga maturo, come già di Alessandro Manzoni (Nencioni 1988; Bruni 1999; Stussi 2005), va tuttavia accuratamente distinta da quella irriflessa, dovuta a interferenze automatiche del dialetto nell’italiano letterario regionale, tipica del primo Verga e dei veristi minori.
La scrittura di Verga non è il frutto dell’ispirazione estemporanea di un aedo dell’epos popolare, ma è il prodotto di una faticosa conquista e di una travagliata ricerca stilistica compiuta dall’autore sin dai suoi esordi giovanili nei cosiddetti romanzi catanesi (Amore e patria, 1856; I carbonari della montagna, 1862; Sulle lagune, 1862).
In questi testi non sono rari errori ortografici che riflettono la fonetica dialettale (Branciforti 1981), con sonorizzazioni o assordimenti ipercorretti (pentola per pendola), raddoppiamenti o scempiamenti erronei (privileggi, affligenti), forme oscillanti (fibbre / fibre, disaggi / disagio), uso errato dell’apostrofo (un’urto; un’accidente). Alcune di queste sgrammaticature persistono nelle lettere o in altri scritti della maturità (Trifone 2007).
Sul piano lessicale si riscontrano sicilianismi coincidenti con ➔ arcaismi (strascinare); toscanismi di superficie adoperati come traduzione meccanica di un dialettismo, in un contesto con un ci attualizzante: «Egli ci ha più da perdere di noi con cotesta pelle da ciuco [← carni di sceccu] che il diavolo non sa che farne»; aulicismi di maniera (rampogna, ruina), sicilianismi lessicali e sintagmatici («È il malo verso dei campagnoli», da confrontare con fare maldestro, contadini, ma cfr. anche tosc. campagnuoli).
Toscanismi un po’ forzati affiorano anche sul livello morfosintattico («La è briosa»), che mostra anche discordanze verbali, sia nell’uso dei tempi, con affioramenti del passato remoto dialettale («Tu mi avvilisti senza ragione, dunque eri un vile»), sia nell’uso dei modi («Se non l’avrei conseguita [la vendetta], io sarei morta di disperazione»). Si confrontino questi esiti maldestri con la sintassi compatta e levigata de I Malavoglia, che metabolizza perfettamente il ➔ che polivalente:
Un bastimento come non ce n’erano altri, colla corazza, vuol dire come chi dicesse voi altre donne che avete il busto, e questo busto fosse di ferro, che potrebbero spararvi addosso una cannonata senza farvi nulla (Verga 1995: 149)
Anche sul registro idiomatico il sicilianismo carni di sceccu è italianizzato adeguatamente, ma immediatamente legittimato dalla parafrasi, rispetto al primo romanzo giovanile: «Carne d’asino! – borbottava – ecco cosa siamo! Carne da lavoro!» (Verga 1995: 218). Meno immediata la traduzione del lessico domestico, per cui il sicilianismo strattu viene reso dapprima con un termine generico, poi con un calco letterale improprio, e infine con la corretta perifrasi italiana: pomidoro → estratto → conserva di pomidoro (ibid.: 197). Persistono invece le incertezze grafiche, come un piggiati (ibid.: 11) normalizzato forse dal tipografo, o lavatojo, ballatojo, poi modernizzati nella stampa (ibid.: 13 e 29).
Uno scatto in avanti ancora, in direzione della toscanità, si registra con Mastro-don Gesualdo, soggetto alla censura del manzonista Petrocchi, che biasimava con pedanteria la descrizione dell’«alba che cominciava a schiarire» (e non a rosseggiare) e, con più ragione, usi preposizionali di origine dialettale (sala di ballo per da ballo; vestite di casa per da casa).
In ogni caso, Verga dimostra di saper piegare sagacemente il dato morfologico a fini stilistici. Così nella sintassi percettiva del romanzo basta una preposizione apparentemente impropria nei costrutti combinati mettere i piedi / le mani in (per su) per rendere la fisicità carnale dell’amore per le proprietà via via acquistate da Gesualdo (Alfieri 1991: 476). Altrove, Verga adoperava addirittura un costrutto siciliano o comunque meridionale per caratterizzare un popolano milanese nel dramma suburbano In portineria: «No! Non sono di quelli che chiudono gli occhi! Sono un povero diavolo, ma il mio onore non lo voglio toccato!» (Verga 1988: 266).
Sul versante strettamente morfologico Verga si dimostra equidistante tra grammatica tradizionale e tendenze innovative postmanzoniane. Così opta quasi sempre per le preposizioni sintetiche di tipo premanzoniano: per es., in Vita dei campi sono attestate 23 occorrenze di pel contro 6 di per il e 11 di pei contro 4 di per i (Motta 2010).
Emblematico poi l’uso dell’imperfetto analogico in -o, automatico nella lingua familiare, ma intenzionale e ponderato nella prosa letteraria, come dimostrano le occorrenze allitteranti dell’imperfetto etimologico in -a in Vita dei campi, che anticipano quelle dei Malavoglia e del Mastro (Motta 2010).
Lo stesso vale per l’alternanza che cosa / cosa / che, egli-esso / lui, che / il quale, gli / le, in cui la forma marcata non risulta quella colloquiale scelta da Manzoni, ma la variante dotta assunta per creare effetti di ritmazione sintattica o, nei casi più banali, per evitare ripetizioni cacofoniche o ambigue. Nella Lupa, per es., spiccano il pronome soggetto essa – che riecheggia il dialettale idda – e l’alternanza nel dativo singolare tra il maschile gli usato per il femminile (che sembra sottendere il dialettale ci) e la forma grammaticalmente corretta le, usata probabilmente per disambiguare il contesto:
– La vuoi mia figlia Maricchia? gli domandò la gnà Pina. – Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? Rispose Nanni – Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le dò la mia casa (Verga 1987: 85)
Simmetrico in Cavalleria rusticana l’uso seriale di egli in riferimento al protagonista maschile, di contro a un’unica occorrenza di lui in un contesto altamente connotato:
Compare Alfio: Egli andava correndo, come avesse fretta, e non si accorse di me. […]
Santuzza: No, non si sbaglia compar Alfio. Era lui, Turiddu (Cavalleria rusticana, in Verga 1988: 214-215)
In entrambe le battute il pronome sottostante è iddu; nel secondo caso, però, il ricorso a lui non è marcato sul piano morfosintattico data la posizione postverbale, ma sottolinea sul piano stilistico – con l’allitterazione vocalica i/u e la rima evocata nell’enunciato dialettale soggiacente (era iddu / Turiddu) – la lapidarietà dell’inequivocabile accusa di Santuzza (Alfieri 2007).
La cartina di tornasole per misurare il carattere effettivamente dirompente e la varietà stilistica e normativa della lingua verghiana a tutti i livelli è la lingua dei Promessi sposi (➔ Manzoni). Un confronto basato su convincenti accostamenti testuali si deve a Bruni (1999) e Testa (1997), che hanno dimostrato che molti tratti morfosintattici presenti sia in Verga sia in Manzoni sono radicati nel parlato popolare italiano (primi fra tutti il che polivalente e il ci attualizzante); inoltre hanno messo in luce la consistente presenza di connettivi e costrutti aulicheggianti nella sintassi dei Malavoglia e del Mastro-don Gesualdo di contro all’univoca tendenza modernizzante di Manzoni. Se nei Promessi sposi prevalgono come congiunzioni finali e causali per e siccome, in Verga si oscilla: onde e giacché / poiché si alternano con per, perché e il dialettaleggiante come; simmetricamente, ai manzoniani subito e poi possono corrispondere tosto, poscia e poi. Così, sul piano lessicale, ai colloquialismi toscani alzarsi, dire e sentire corrispondono i più formali o settentrionali levarsi, ribattere o rimbeccare e udire. Più complessa l’alternanza prendere / pigliare, risolta da Manzoni a favore del neutro prendere e da Verga a vantaggio di pigliare, marcato regionalmente sia come siciliano che come settentrionale, e non a caso infatti ricorrente nei testi rusticani ma anche nelle novelle Per le vie e nel dramma In portineria.
Ma il dato più caratteristico ed esclusivo della scrittura di Verga è la retorica sommersa in una lingua in apparenza povera sintatticamente e semanticamente, per cui basta una scelta terminologica o morfologica per sollecitare un’evocazione dell’ethnos. Così in Cavalleria rusticana, sia nella versione novellistica che nella riduzione scenica, la perifrasi vi adorna la casa, con cui Santuzza denuncia a compare Alfio l’adulterio di Lola (Verga 1987: 79; Verga 1988: 222), adombra il siciliano azzizzari a casa che Macaluso Storaci traduceva appunto con «adornare, rassettare con diligenza». Come si vede, Verga prediligeva la variante toscana apparentemente più aulica ma stilisticamente più pregnante perché allusiva, con rima in absentia, a corna, parola chiave della tragedia rusticana (Alfieri 2007).
Ma il segreto della straordinaria lingua dei Malavoglia sta soprattutto nel costante alternarsi di senso letterale e senso figurato, dalle microstrutture lessicali alle più appariscenti strutture formulari. In particolare i ➔ proverbi sono adattati meticolosamente e finemente al contesto, con modifiche lessicali che non intaccano il valore contenutistico ma anzi ne rafforzano il tenore simbolico.
Verga, Giovanni (1987), Vita dei campi, edizione critica a cura di C. Riccardi, in Id., Edizione nazionale delle opere, Firenze, Le Monnier, vol. 14º (1a ed. 1880).
Verga, Giovanni (1988), Teatro, a cura di G. Oliva, Milano, Garzanti.
Verga, Giovanni (1995), I Malavoglia, edizione critica a cura di F. Cecco, Milano, Il Polifilo (1a ed. 1881).
Alfieri, Gabriella (1980), Innesti fraseologici siciliani nei Malavoglia, «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani», 14, pp. 221-295.
Alfieri, Gabriella (1983), Lettera e figura nella scrittura de I Malavoglia, Firenze, Accademia della Crusca.
Alfieri, Gabriella (1986), L’«Italiano nuovo». Centralismo e marginalità linguistici nell’Italia unificata, Firenze, Accademia della Crusca.
Alfieri, Gabriella (1991), Le “mezze tinte dei mezzi sentimenti” nel «Mastro-don Gesualdo», in Il centenario del Mastro-don Gesualdo. Atti del Congresso internazionale di studi (Catania, 15-18 marzo 1989), Catania, Fondazione Verga, pp. 433-552.
Alfieri, Gabriella (2007), La Sora e la Comare: “scene popolari” verghiane tra Vizzini e Milano, in Il Teatro Verista. Atti del Congresso (Catania, 24-26 novembre 2004), Catania, Fondazione Verga, 2 voll., vol. 1°, pp. 71-156.
Branciforti, Francesco (1981), Alla conquista della lingua letteraria, in I romanzi catanesi di Giovanni Verga. Atti del I convegno di studi (Catania, 23-24 novembre 1979), Catania, Fondazione Verga, pp. 261-308.
Bruni, Francesco (1999), Prosa e narrativa dell’Ottocento. Sette studi, Firenze, Cesati.
Croce, Benedetto (1915), Giovanni Verga, in La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, 6 voll., vol. 3°, pp. 5-30.
Motta, Daria (2010), La “lingua fusa”. La prosa di Vita dei campi dal parlato dialettale allo scritto-narrato, Catania, Bonanno.
Nencioni, Giovanni (1988), La lingua dei Malavoglia e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Napoli, Morano.
Salibra, Luciana (1994), Il toscanismo nel Mastro-don Gesualdo, Firenze, Olschki.
Stussi, Alfredo (2005), Plurilinguismo passivo nei narratori siciliani tra Otto e Novecento? in Id., Storia linguistica e storia letteraria, Bologna, il Mulino, pp. 289-314.
Testa, Enrico (1997), Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Torino, Einaudi.
Trifone, Pietro (2007), Le sgrammaticature di Verga, in Id., Malalingua. L’italiano scorretto da Dante ad oggi, Bologna, il Mulino, pp. 95-109.