Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Siciliano come gli altri due rappresentanti del cosiddetto verismo italiano, Luigi Capuana e Federico De Roberto, Giovanni Verga elabora la sua poetica a contatto con le più vivaci correnti culturali italiane ed europee: la letteratura campagnola e la corrente del realismo a Firenze prima, la scapigliatura milanese e il naturalismo francese poi. Ma il suo contributo più profondo alla letteratura è ancora dovuto alla sua terra d’origine, dalla quale Verga fa emergere – elaborata in un’invenzione linguistica di rara potenza – la disperata concezione di una vita di sconfitte, senza futuro di riscatto, una vita di "vinti".
Benché la corrente verista annoveri fra i suoi autori principali scrittori siciliani, Giovanni Verga e Luigi Capuana, sono fondamentali soprattutto le esperienze fuori dal proprio paese e il contatto con i centri italiani culturalmente più vivi, come sono, all’indomani dell’unità d’Italia, Firenze e Milano. Malgrado una vocazione precoce, che porta Verga, nato a Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia di possidenti, ad abbandonare la progettata carriera giuridica a favore del solo impegno letterario, la sua prima produzione presenta tratti ben poco originali, con la ripresa dei romanzi d’avventura francesi (Amore e patria, 1857) ispirato ai Tre moschettieri di Dumas, con l’acceso impegno patriottico (I carbonari della montagna, 1861-1862) o, infine, con il genere del romanzo storico (Sulle lagune, 1863), allora in voga grazie al successo dei Promessi sposi. Va però subito notato un allontanamento dal modello manzoniano verso una più marcata attenzione realistica, già evidente nell’ambientazione contemporanea, che lo avvicina alle esperienze del romanzo francese, da Balzac a Eugène Sue. L’incontro a Firenze, dove Verga trascorre lunghi periodi dal ’65 al ’72, con la letteratura regionalistica e campagnola di Francesco dell’Ongaro e Caterina Percòto e con gli esponenti del tardo romanticismo, Aleardi e Prati, ma soprattutto con il vivace dibattito sul realismo nelle arti figurative portato avanti dai macchiaioli, si riflette immediatamente nella produzione successiva, da Una peccatrice (1866) a Storia di una capinera (edito in rivista 1870), dove, accanto al gusto patetico tipico della poetica tardoromantica, si accentua un più vivo interesse per la rappresentazione sociale.
Il successo del romanzo epistolare Storia di una capinera, pubblicato in volume dall’editore milanese Lampugnani nel 1871, fa da tramite all’ingresso di Verga nell’ambiente milanese, in quegli anni dominato dagli esponenti della cosiddetta scapigliatura, Boito, Praga, Tarchetti, tutti, sebbene in maniera diversa, eredi del romanticismo lombardo, con le sue istanze di polemica sociale e di ricerca del "vero", ma insieme animati da spirito di ribellione e di anticonformismo, che sfocia nell’esaltazione della trasgressione e della bohème e nell’indulgenza verso un intimismo spesso declinato in forme inquiete e psicologicamente torbide, non prive dell’influenza del modello baudelariano (in Praga) o del visionarismo di Nerval (in Tarchetti). A questa fase appartengono i cosiddetti "romanzi mondani" (perchè in contrapposizione a quelli "rusticani" e ambientati in ambienti borghesi e aristocratici), Eva, Eros e Tigre reale: testi incentrati sulle figure femminili e di forte impronta patetica. Più originale appare invece, anche agli occhi dei contemporanei, la novella Nedda, edita in rivista nel ’74, dove l’ambientazione rusticana e un maggior dettaglio descrittivo, cui si accompagna un certo distacco del narratore, paiono già in parte prefigurare la svolta verista degli anni successivi, pur all’interno di un impianto stilistico ancora decisamente tradizionale.
Proprio sulla valutazione di Nedda fanno perno le maggiori divergenze interpretative dei critici relativamente ai rapporti di Verga con la poetica naturalistica, che aveva allora in Francia il suo massimo esponente in Zola: se infatti molti insistono sull’importanza fondamentale svolta su Verga dalla conoscenza di Zola nell’apertura alle nuove tematiche della poetica verista, e ritengono quindi la novella ancora pienamente all’interno della prima fase campagnola e tardoromantica, per altri non esiste una così forte spaccatura fra i romanzi mondani, Nedda e la produzione successiva, tappe di una progressiva chiarificazione della personale poetica di Verga, fin dall’inizio votata a una scelta di realismo. In quest’ultima lettura (inaugurata da Karl Vossler e promossa in particolare da Pirandello) vengono perciò sottolineate, più che le tangenze, le divergenze rispetto al naturalismo francese, da cui il verismo verghiano si differenzia per la diversa ambientazione (rusticana rispetto a quella cittadina dei romanzi naturalisti) e il fondamentale fatalismo e pessimismo, di contro alla forte carica positivistica e progressista della produzione di Zola. L’incontro con il naturalismo costituirebbe allora non un’illuminazione, ma una sorta di fortuita conferma, utile più che altro (in particolare nella lettura di Giacomo Debenedetti) a rafforzarlo su una strada già imboccata per una sorta di istinto naturale. Si tratta tuttavia di posizioni conciliabili, che non vanno a loro volta dissociate dalla valutazione del diverso retroterra culturale italiano e francese; ed è d’altronde indubbio che le due poetiche presentino elementi comuni per alcuni tratti salienti (la ricerca di una precisa ambientazione storica e sociale e soprattutto l’impersonalità della narrazione) e che l’evoluzione verghiana si accompagni alla fortuna italiana di Zola a Milano (particolarmente promossa da Felice Cameroni, che ne recensisce i romanzi a partire dal 1873 e ne promuove dal 1876 le traduzioni italiane) e al forte riconoscimento riservato allo scrittore francese dalla critica militante coeva, da Francesco De Sanctis a Francesco Capuana, che dedica fra l’altro a Zola il suo primo romanzo, Giacinta. Di fatto risale al ’78 il primo progetto dei Malavoglia, inseriti in un ciclo, La marea (altrimenti ribattezzato dallo stesso Verga, "il ciclo dei vinti"), che avrebbe dovuto, secondo una fondamentale lettera scritta all’amico Salvatore Paolo Verdura, articolarsi in cinque testi (Padron ‘Ntoni, Mastro Don Gesualdo, La duchessa delle Gargantas [poi di Leyra], L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso) in una sorta di grande affresco "della lotta per la vita" in ogni classe, dalla più infima, dove si configura come lotta per la sopravvivenza, ai più alti gradi della scala sociale. Se di questo progetto vengono di fatto realizzati soltanto i primi due romanzi (della Duchessa di Leyra è stato scritto un solo capitolo), appartengono agli stessi anni le prime novelle, pubblicate in rivista dal ’79, che andranno a costituire la raccolta Vita dei campi, edita a Milano nel 1880 e vero e proprio manifesto della nuova poetica verista, esplicitamente enunciata nella lettera-prefazione al racconto L’amante di Gramigna, dove l’autore rivendica la necessità di una completa adesione della narrazione alla realtà, tale che “la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile […] e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé”. Salutata come una rivelazione da Capuana, la raccolta contiene alcune delle novelle più note di Verga e un’anticipazione dei temi della sua produzione successiva, a partire dalla tenuta stessa della raccolta che si presenta come coerente raffigurazone di un ciclo di scene di vita contadina, da Fantasticheria, che funge da introduzione offrendo una prima esemplificazione del quadro sociale di sfondo (che sarà poi quello dei Malavoglia), a Rosso Malpelo, La lupa, Jeli il pastore e Cavalleria Rusticana, che concentrano il focus dell’azione su singoli personaggi e dinamiche psicologiche profondamente radicate all’interno di una realtà sociale definita.
I Malavoglia
Primo tassello del ciclo dei vinti sono appunto i Malavoglia , cui Verga comincia a lavorare nel ’78, inizialmente nella forma di "un bozzetto marinaresco" (Padron ‘Ntoni), che evolve però presto in un lavoro ben più ampio (pubblicato da Treves nell’81). La carica innovativa di questa epopea rustica mostra immediatamente l’alta qualità di gestione strutturale cui Verga è giunto e la capacità di legare i singoli bozzetti dei racconti in un quadro più potente e vasto, dove la narrazione è affidata tutta alla capacità mimetica dello stile. Ambientata nell’Italia postunitaria, dunque pressoché contemporanea, ma in una Sicilia arretrata e ancora legata a ritmi di vita e mentalità arcaiche, la saga famigliare dei Malavoglia ripercorre 15 anni circa di vicende di una famiglia di pescatori, seguendone la progressiva decadenza, a partire dall’episodio iniziale che segna in maniera drammatica lo sviluppo del romanzo: la partenza di ‘Ntoni, nipote del capostipite Padron ‘Ntoni, per il servizio militare, primo elemento di squilibrio del nucleo familiare che verrà ulteriormente dissestato dalla morte di Bastianazzo nel naufragio della barca di famiglia, significativamente chiamata La Provvidenza, fino alla sua totale dissoluzione.
Giovanni Verga
I Malavoglia, Cap. I
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla.
Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ’Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso - un pugno che sembrava fatto di legno di noce - Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro.
Diceva pure: - Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.
E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto "soffiati il naso" tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto "pigliatela". Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ’Ntoni il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, "che aveva più giudizio del grande" ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata "Sant’Agata" perché stava sempre al telaio, e si suol dire "donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio"; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. - Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione.
Padron ’Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi: "Perché il motto degli antichi mai mentì": - "Senza pilota barca non cammina" - "Per far da papa bisogna saper far da sagrestano" - oppure - "Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai" - "Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron ’Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria.
Padron ’Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: "Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole" perché "chi comanda ha da dar conto".
Giovanni Verga, I Malavoglia, a cura di S. Guglielmino, Milano, Principato, 1985
Questo scenario di tragica fatalità che travolgerà tutti i personaggi in una luttuosa serie di disgrazie, sacrifici, caduta nel peccato e nella vergogna, tocca perciò tanto un aspetto sociale quanto esistenziale e, pur nell’adesione e compassione verso il destino ineluttabile che traspare dietro l’apparente oggettività del narratore, non offre nessun reale indizio di fiducia nella possibilità di una diversa giustizia, rispetto alla quale traspare solo la nostalgia, che si rivela nel tono lirico di molte pagine, per una realtà di pratiche e rapporti ormai irrimediabilmente perduti perché legati a una società arcaica. Povera dal punto di vista degli avvenimenti, la storia insiste su un confine ristretto, puntellato di luoghi fissi (la farmacia, la casa del nespolo, l’osteria, il sagrato), isolato fra il mare e la sciara, in cui la vicenda sembra svolgersi in una tempo monotono e ripetitivo, scandito dai ritmi delle stagioni e del lavoro. Proprio questa mancanza di dinamicità e il senso di continua ripetizione e ritorno forniscono il tono chiave del romanzo, che si presenta come una forma di epica moderna, retaggio ed espressione, al pari di quella arcaica, di una cultura profonda e condivisa, di cui l’autore si limita a registrare gli avvenimenti, tutti peraltro dotati, al di là della loro specificità immediata, di profondi valori simbolici. A questa potente carica epico-mitica contribuisce principalmente la tecnica narrativa, che del principio dell’impersonalità rappresenta una originale e altissima interpretazione. Annullata la presenza dell’autore, che rinuncia, secondo i principi comuni al naturalismo, tanto all’onniscienza caratteristica del romanzo, quanto al ruolo di commentatore esterno, la narrazione risulta totalmente affidata al discorso diretto e soprattutto al cosiddetto "indiretto libero" (erlebte Rede), ossia alla riproduzione fuori dalla diretta citazione (eliminate quindi le didascalie introduttive e adottando la terza persona) dell’immediatezza del parlato, col risultato di un perenne filtraggio attraverso una voce collettiva, un vero e proprio coro tragico, la cui dimensione insieme popolare e mitica è ulteriormente rafforzata dal ricorso a proverbi e locuzioni folcloriche, equivalenti alla formularità epica. Diversamente dall’oggettività del naturalismo, dove la registrazione tende alla secchezza del documento, in Verga nella riproduzione "dall’alto" di un’attitudine di ricerca scientifica e positiva la voce "neutra" si riempie delle forme, e con esse inevitabilmente dei contenuti, della mentalità, dei miti, della cultura, dei suoi protagonisti.
Le raccolte di novelle che seguono, le Novelle rusticane e Per le vie (edite entrambe nel 1883), non si discostano in linea di massima dall’impostazione di Vita dei campi e dei Malavoglia, presentandosi anch’esse come spaccato a tutto tondo di una civiltà indagata a ogni livello della sua scala sociale. Si potrebbe anzi affermare che i racconti costituiscono il vero completamento del ciclo dei vinti progettato per i romanzi e rimasto incompiuto. Di fatto, però, in entrambe le raccolte è evidente un accentuarsi del pessimismo verghiano, che, mentre registra gli spietati meccanismi economici che regolano i rapporti fra gli uomini, dall’altro non contrappone più a essi alcuna idealità, seppure soltanto nostalgica: i protagonisti non sono in lotta con la società, ma in perfetta sintonia con essa e i conflitti sono dovuti soltanto allo scontro tra i rispettivi interessi. Accanto al "filtraggio corale" del romanzo, pure presente in numerose novelle, compare qui una tecnica più asciutta, più vicina al modello naturalistico (espliciti richiami zoliani si ritrovano soprattutto nei racconti di Per le vie, di ambientazione cittadina), che assume a tratti caratteri anche amaramente sarcastici, in una diagnosi spietata e corrosiva che toccherà le sue punte più alte nelle novelle di Don Candeloro & C.i, cui non è certo estranea la delusione, viva soprattutto nelll’Italia meridionale, verso il clima politico post-unitario e l’illusorietà dei miti progressisti risorgimentali.
Di questa dimensione totalizzante e divorante della legge economica è testimone la seconda e ultima opera del ciclo dei vinti, il Mastro Don Gesualdo, pubblicato per la prima volta nel 1888 sulla "Nuova Antologia" e quindi, in una redazione fortemente rielaborata, in volume dell’anno seguente. Ambientato nella pianura catanese, il romanzo è interamente costruito intorno alla figura di Don Gesualdo e alla sua ossessiva lotta per la conquista della ricchezza, la "roba", a cui il protagonista sacrifica ogni altra dimensione privata e affettiva, finendo per morire solo e abbandonato.
Giovanni Verga
Mastro Don Gesualdo, Cap. I
Mastro don Gesualdo il quale si era slanciato furibondo su per la scaletta della cucina, tornò indietro accecato dal fumo, pallido come un morto, cogli occhi fuori dell’orbita, mezzo soffocato:
– Santo e santissimo!... Non si può da questa parte!... Sono rovinato!
Gli altri vociavano tutti in una volta, ciascuno dicendo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù le tegole! – Appoggiate la scala al fumaiuolo! – Mastro Nunzio, in piedi sul tetto della sua casa, si dimenava al pari di un ossesso.
Don Luca, il sagrestano, era corso davvero ad attaccarsi alle campane. La gente in piazza, fitta come le mosche. Dalcorridoio riuscì a farsi udire comare Speranza, che era rauca dal gridare strappando i vestiti di dosso alla gente per farsilargo, colle unghie sfoderate come una gatta e la schiuma alla bocca: – Dalla scala ch’è laggiù, in fondo al corridoio! –Tutti corsero da quella parte, lasciando don Diego che seguitava a chiamare dietro l’uscio della sorella: – Bianca! Bianca!... – Udivasi un tramestìo dietro quell’uscio; un correre all’impazzata quasi di gente che ha persa la testa. Poi il rumore di una seggiola rovesciata. Nanni l’Orbo tornò a gridare in fondo al corridoio: – Eccolo! eccolo! – E si udì lo scoppio del pistolone di Pelagatti, come una cannonata.
– La Giustizia! Ecco qua gli sbirri! – vociò dal cortile Santo Motta.
Allora si aprì l’uscio all’improvviso, e apparve donna Bianca, discinta, pallida come una morta, annaspando colle mani convulse, senza profferire parola, fissando sul fratello gli occhi pazzi di terrore e d’angoscia. Ad un tratto si piegò sulle ginocchia, aggrappandosi allo stipite, balbettando:
– Ammazzatemi, don Diego!... Ammazzatemi pure!... ma non lasciate entrare nessuno qui!...
Quello che accadde poi, dietro quell’uscio che don Diego aveva chiuso di nuovo spingendo nella cameretta la sorella, nessuno lo seppe mai. Si udì soltanto la voce di lui, una voce d’angoscia disperata, che balbettava: – Voi?... Voi qui?... Accorrevano il signor Capitano, l’Avvocato fiscale, tutta la Giustizia. Don Liccio Papa, il caposbirro, gridando da lontano, brandendo la sciaboletta sguainata: – Aspetta! aspetta! Ferma! ferma! – E il signor Capitano dietro di lui, trafelato come don Liccio, cacciando avanti il bastone: – Largo! largo! Date passo alla Giustizia! – L’Avvocato fiscale ordinò di buttare a terra l’uscio. – Don Diego! Donna Bianca! Aprite! Cosa vi è successo? S’affacciò don Diego, invecchiato di dieci anni in un minuto, allibito, stralunato, con una visione spaventosa in fondo alle pupille grige, con un sudore freddo sulla fronte, la voce strozzata da un dolore immenso:
– Nulla!... Mia sorella!... Lo spavento!... Non entrate nessuno!...
Pelagatti inferocito contro Nanni l’Orbo: – Bel lavoro mi faceva fare!... Un altro po’ ammazzavo compare Santo!... – Il Capitano gli fece lui pure una bella lavata di capo: – Con le armi da fuoco!... Che scherzate?... Siete una bestia! – Signor Capitano, credevo che fosse il ladro, laggiù al buio... L’ho visto con questi occhi! – Zitto! zitto, ubbriacone! – gli diede sulla voce l’Avvocato fiscale. – Piuttosto andiamo a vedere il fuoco.
Giovanni Verga, Mastro Don Gesualdo, a cura di C. Simioni, Milano, Mondadori, 1973
Dal punto di vista ideologico il Mastro porta quindi a estrema tensione la visione pessimistica delle raccolte più mature e la presa d’atto della dissoluzione di quell’ultimo guscio protettivo (l’ideale dell’"ostrica" che domina i Malavoglia, enunciato esplicitamente già in Fantasticheria come “il tenace attaccamento [della] povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia che si riverbera sul mestiere, sulla casa, sui sassi che la circondano”) che nelle prime opere costituiva il controcanto idillico. Alla stesso diagramma risponde l’impostazione stilistica che, come nelle novelle, tende da un lato a una maggior oggettività documentaria dall’altro a un incremento della dimensione ironica, e che ha fatto parlare molti critici di "involuzione" rispetto alle soluzioni più sperimentali dei Malavoglia. D’altra parte, altri hanno sottolineato (in particolare Romano Luperini) come la costruzione narrativa del secondo romanzo, nella sua frammentarietà, nell’alternanza di spaccati di una società più varia e di una umanità più articolata, presenti tratti di maggior modernità e distacco dall’impianto ancora strutturalmente di base ottocentesca dei Malavoglia, offrendo un modello narrativo che traduce con perfetta aderenza il senso di alienazione indotto dalle nuove forme del capitalismo borghese. In questa direzione va anche l’adozione di un registro stilistico più variegato, polifonico, strumentale e a più voci, che isola le singole partiture e che alla forma "regressiva", di annullamento nella coralità, sostituisce l’intreccio di più punti di vista, esposti attraverso la regia, occultata ma leggibile nello sguardo ironico e sarcastico di fondo, del narratore analista.
Dopo il Mastro la vena creativa verghiana sembra esaurirsi progressivamente; dopo la pubblicazione di Don Candeloro & C.i, nel ’93, Verga ritorna in Sicilia dove resterà fino alla morte, nel ’22. Abbandonato il progetto di portare a termine il ciclo dei vinti, la sua produzione si limita alla scrittura teatrale, con la riduzione dei suoi racconti e la pubblicazione del dramma Dal tuo al mio (1903), cui si accompagna una netta involuzione dal punto di vista stilistico, che porta nel ‘97 alla riedizione di Vita dei campi. In questa seconda redazione, infatti, a fianco di alcuni interventi di tipo strutturale, operano due direttrici fondamentali: da un lato, dal punto di vista lessicale, all’eliminazione di termini arcaici e toscaneggianti si contrappone una massiccia espunzione di vocaboli popolari, sostituiti da un lessico letterario, dall’altro, soprattutto sul piano sintattico, viene attuata una forte normalizzazione che va a colpire proprio l’aspetto più innovativo della produzione rusticana.