GIOVANNI VII
Pontefice dal 705 al 707. Fu di famiglia bizantina: secondo le fonti suo padre avrebbe rivestito la carica di curator del palazzo dei duchi bizantini sul Palatino a Roma. Nonostante la breve durata del suo pontificato, G. riuscì a compiere una serie di ambiziosi programmi decorativi dedicati alla Vergine, i più significativi dei quali furono i mosaici della basilica di S. Pietro e gli affreschi di S. Maria Antiqua nel Foro romano. Accidentalmente durante il suo pontificato sono documentate più opere che per la maggior parte degli altri pontefici altomedievali: il materiale conservato a Roma - cioè le decorazioni monumentali e forse un'icona - getta luce sullo stile e sull'iconografia di un periodo per il quale si trovano testimonianze molto scarse altrove; il contenuto di queste immagini inoltre rivela il modo in cui l'arte veniva utilizzata come strumento politico-religioso nel periodo paleobizantino.Le fonti relative a G., soprattutto la sua vita nel Lib. Pont. (I, pp. 385-387), sono scarne, ma riportano informazioni preziose, anche se ambigue, riguardo alla sua posizione rispetto alle questioni teologiche del tempo e contengono notizie sulle principali imprese artistiche del papa. Per le due maggiori, i passi del Lib. Pont. sono corroborati da altre testimonianze: per l'oratorio nella basilica di S. Pietro, decorato con mosaici per i quali "auri et argenti quantitatem multam expendit" (Lib. Pont., I, p. 385), la committenza di G. è documentata da un'iscrizione trascritta e copiata varie volte prima che la cappella venisse distrutta nel sec. 17°; inoltre il Lib. Pont. narra che il pontefice venne sepolto davanti all'altare e tale dato è anch'esso verificabile, poiché si è conservata parte di una lastra di marmo con l'iscrizione sepolcrale (Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte), di cui è certa la provenienza dall'oratorio. Il Lib. Pont. menziona inoltre l'esecuzione di un nuovo ambone in S. Maria Antiqua, come parte dei lavori di abbellimento della chiesa: in effetti un ambone con un'iscrizione bilingue contenente il nome di G. è stato ritrovato negli scavi del 1900-1901 effettuati in questo edificio. Gli affreschi fatti realizzare dal papa in S. Maria Antiqua si possono inoltre identificare con l'aiuto della lacunosa iscrizione di dedica dipinta, in cui è impiegata la formula "Servus Sanctae Dei Genitricis Mariae", usata anche nei mosaici in S. Pietro. La documentazione necessaria per l'identificazione dei monumenti di cui G. fu committente è quindi solida e pertanto essi costituiscono dei punti chiave nell'opera di ricostruzione dell'ambiente artistico a Costantinopoli e a Roma tra la fine del 7° e gli inizi dell'8° secolo.L'opera fatta realizzare da G. in S. Pietro è ricostruibile in parte dai frammenti di mosaico staccati dai muri durante la demolizione della basilica all'inizio del sec. 17° - conservati in diversi luoghi - e in parte dai disegni eseguiti per l'antiquario Giacomo Grimaldi negli anni immediatamente precedenti la distruzione. I disegni e le descrizioni di Grimaldi (Roma, Arch. del Capitolo di S. Pietro, A. 64 ter; BAV, Barb. lat. 2733) forniscono un quadro piuttosto preciso sia dell'insieme della cappella od oratorio sia di una parte dei mosaici, quelli con scene cristologiche, raggruppati attorno alla raffigurazione centrale della Vergine con a fianco il donatore. Questi mosaici si trovavano sul 'muro principale' della cappella, cioè sul muro terminale della navata più a destra entrando nella basilica, a ridosso della controfacciata, nel punto in cui successivamente venne aperta la Porta Santa. Non altrettanto ben documentati sono i mosaici sul muro di sinistra, che recava un ciclo dedicato ai ss. Pietro e Paolo, con la caduta di Simon Mago e il successivo martirio dei due santi. I disegni di Grimaldi sono ricchi di informazioni relative anche ad altri elementi della decorazione dell'oratorio, in particolare all'opus sectile nella parte inferiore delle pareti e ai pilastri di marmo decorati con girali di acanto. I disegni mostrano sei pilastri di questo tipo, tutti conservati nelle Grotte vaticane, di cui cinque sono di buona manifattura romana del 3° secolo. Al momento dello spostamento, questi spolia furono identificati con un'iscrizione come provenienti dall'oratorio del papa. Il sesto pilastro è di origine altomedievale e imita il motivo a tralcio abitato impiegato su quelli antichi; esso fu probabilmente scolpito nel sec. 8° per portare la serie di pilastri a un numero pari e dovrebbe di conseguenza essere classificato tra i tentativi consapevoli altomedievali di imitare opere classiche (Nordhagen, 1969).Nella raffigurazione centrale, G., caratterizzato dal nimbo quadrato azzurro, compare stante alla sinistra della Vergine, rappresentata come Maria orans o Blacherniótissa, nelle vesti e con la corona di un'imperatrice e resa nella tipologia propria all'Occidente di Maria regina. Al di sotto della raffigurazione correva l'iscrizione "Iohannes indignus episcopus fecit", preceduta da una croce, mentre alla destra della Vergine ve ne era una verticale: "Beatae Dei Genitricis servus". Il busto di G., oggi completamente restaurato (Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte), e la figura intera della Vergine (Firenze, S. Marco) erano tra i frammenti staccati nel 1609 ca.; quest'ultima figura è ancora in gran parte intatta.Oltre al pannello con il donatore, i mosaici sul muro principale comprendevano quattordici scene neotestamentarie, di cui le ultime sei della serie erano riunite tre per ogni pannello. Le scene comprendevano l'Annunciazione, la Visitazione, la Natività con l'annuncio ai pastori, l'Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, il Battesimo, la Guarigione del cieco, la Guarigione dell'indemoniata, la Risurrezione di Lazzaro, l'Entrata a Gerusalemme, l'Ultima Cena, la Crocifissione, la Discesa al limbo e le Pie donne al sepolcro. È stato sottolineato che questo ciclo, nella sua forma condensata, può essere considerato un'anticipazione di quello delle Dodici feste (v. Feste liturgiche) impiegato nelle chiese mediobizantine a croce greca inscritta. Si potrebbe trattare di un ciclo breve sviluppatosi nell'arte bizantina in particolare per le rappresentazioni ex voto di donatori di alto rango. Nell'oratorio inoltre questo ciclo abbreviato è disposto in modo da sottolineare fortemente la prima parte mariologica, con le scene della Natività e dell'Adorazione che occupano ognuna un intero pannello, e con la Natività significativamente posta direttamente al di sopra del pannello con il donatore, in cui è raffigurata Maria regina. Questa disposizione si potrebbe leggere volta a evidenziare l'incarnazione e il ruolo di Maria come Theotókos, un concetto già da tempo fondamentale per l'ortodossia, ma ancora argomento di controversie nel territorio italiano del sec. 8°, per via della lunga sopravvivenza dell'arianesimo. D'altro canto la disposizione delle scene cristologiche potrebbe anche illustrare un sistema di celebrazione della Vergine nel periodo immediatamente precedente all'affermazione del ciclo indipendente dedicato a Maria, costituito da scene tratte dai vangeli apocrifi. Per quanto riguarda l'iconografia delle singole scene, vi sono alcuni elementi importanti, per es. nella Natività il già avvenuto inserimento dell'annuncio ai pastori, una fusione in genere ascritta a tempi posticonoclastici (Nordhagen, 1972). Inoltre la Discesa al limbo (Anastasi), che sarebbe divenuta la scena centrale nell'arte bizantina successiva, compare qui per la prima volta; altri due esempi di questa iconografia, entrambi dell'epoca di G., si trovano a S. Maria Antiqua (Kartsonis, 1986).Dall'oratorio furono salvati tredici frammenti; di questi solo nove si sono conservati, mentre tre sono stati danneggiati dai restauri. La tecnica dei mosaici, visibile nelle parti non restaurate, è molto raffinata: alcuni accorgimenti, quali l'uso di piccolissime tessere di pietra naturale nei volti e nelle parti nude del corpo (per es. la lavanda del Bambino dalla Natività; Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte) e di tessere vitree con foglia d'oro rivolta all'interno per alcuni dettagli dei volti (per es. frammento dell'Adorazione dei Magi; Roma, S. Maria in Cosmedin), indicano che l'opera fu probabilmente eseguita da artigiani bizantini, chiamati da G. per questa e altre iniziative. L'assenza di tessere d'argento, materiale molto usato dai Bizantini, potrebbe indicare la difficoltà di reperire questo particolare materiale in Italia a quella data. Lo stile dei mosaici è del tutto analogo a quello degli affreschi commissionati da G.; la distribuzione delle lumeggiature lineari e puntiformi su volti e mani è un punto di contatto specifico che fa supporre che i frescanti della bottega chiamata a decorare S. Maria Antiqua eseguissero anche lo strato pittorico preparatorio dei mosaici vaticani.I tentativi di identificare le opere di G. in S. Maria Antiqua furono effettuati, in un primo momento, quasi esclusivamente sulla base di valutazioni stilistiche (Grüneisen, 1911; Wilpert, 1916; Kitzinger, 1936; Tea, 1937). L'approccio più proficuo tuttavia sembra essere lo studio dello stile integrato da osservazioni sulla tecnica di esecuzione e sui materiali; anche la forma delle lettere nelle iscrizioni (tituli) può servire come strumento aggiuntivo per la datazione e attribuzione. Uno studio lungo queste linee costituisce la base delle attuali conoscenze sull'entità e il carattere del progetto decorativo.Nell'insieme, gli affreschi di G. costituiscono una delle più ampie fasi unitarie nella decorazione della chiesa: essi infatti comprendono il presbiterio o coro - raggiungendo in questa parte dell'edificio (muro dell'altare) un'altezza di m. 13 ca. al di sopra del livello di calpestio -, il diaconico (cappella dei Santi medici), come anche le transenne nella navata e la facciata dell'oratorio dei Quaranta martiri, fuori dalla chiesa. Nel resto del complesso il suo intervento, incentrato soprattutto intorno a raffigurazioni di Maria, interessò solo alcune parti isolate. In alcuni punti G. aggiornò l'iconografia della decorazione precedente, quella di Martino I (649-653), facendo ridipingere alcuni pannelli senza cambiarne il soggetto oppure facendoli rinnovare in caso di degrado o forse di distruzione. Questo procedimento fu applicato a un affresco con l'Annunciazione, che egli fece ridipingere, e a una Vergine con il Bambino in una nicchia che si apre verso la navata, quest'ultima probabilmente il punto focale di un culto di antica data. Ancora più degni di nota sono i casi in cui vengono documentati i tentativi di conservare e proteggere alcuni affreschi più antichi che, a quanto pare, erano soggetti a una particolare venerazione. Per es. un'icona a fresco del sec. 7° con S. Anna e Maria bambina, che si trova nel presbiterio, fu risparmiata e inclusa nel nuovo programma decorativo; di particolare importanza è anche un pannello all'ingresso del coro, con una Vergine stante, sempre del sec. 7° (forse accompagnata da un donatore, stante, di qualche rilievo), che nella parte inferiore venne ricoperto da uno strato di intonaco recante i caratteri salienti delle pitture di G.; l'intervento era probabilmente teso a consolidare il pannello e a salvarlo dalla disintegrazione. Come è stato segnalato (Nordhagen, 1968), la prassi di proteggere o ridipingere pannelli a fresco come se fossero icone sacre riflette procedimenti generati dal culto delle immagini e misura l'intensità di questo culto poco prima dell'esplosione dell'iconoclastia.Alcuni dei più spettacolari tra i contributi dei frescanti di S. Maria Antiqua sono due rappresentazioni isolate della Discesa al limbo, che si trovano a fianco e di fronte a pannelli-icona in cui un donatore viene presentato alla Vergine. Vi sono tutti i motivi per credere che in entrambi questi casi il donatore sia da identificare con lo stesso pontefice. Tali esempi di accostamento della scena dell'Anastasi a raffigurazioni del donatore si trovano nei pressi o all'interno di porte che adducono alla chiesa e potrebbero riflettere un'iconografia tradizionalmente impiegata nei portali o narteci dei palazzi bizantini. Questo uso può essere stato introdotto nell'ambiente romano da G. o, prima di lui, da altri membri dell'élite bizantina in Italia. Secondo il Lib. Pont. (I, p. 385) G. stabilì la sua residenza proprio "super eandem ecclesiam": si tratta di un'affermazione criptica che tuttavia viene interpretata come indicazione del fatto che egli aveva preso possesso del palazzo sul Palatino, dove suo padre, il curator, aveva un tempo risieduto. S. Maria Antiqua potrebbe avere dunque svolto le funzioni di chiesa palatina della residenza papale, divenendo così teatro per l'iconografia pertinente a tali complessi. Tale presunto ruolo della chiesa può offrire la chiave di interpretazione anche per altri punti enigmatici della decorazione di G. VII.Per la maggior parte, gli affreschi presentano raffigurazioni abituali nelle chiese, come le scene neotestamentarie affollate sui muri laterali del presbiterio o quelle veterotestamentarie sulle transenne; potrebbe inoltre essere esistita una concordanza tra i due cicli. Nel presbiterio tuttavia, al di sopra dell'abside - forse decorata da G. con una Vergine stante o assisa in trono tra santi o angeli -, sull'arco trionfale di grandi dimensioni campeggia una composizione per la quale è impossibile trovare paralleli precedenti o successivi all'8° secolo. La parte sinistra è andata distrutta, ma quella di destra, per lo più intatta, serve da chiave per la lettura; un disegno del sec. 18°, che ritrae l'intera composizione, attesta che essa era di impianto assiale. La raffigurazione è composta da diversi temi che formano un'unica grande immagine, il cui centro è costituito da Cristo crocifisso su un Golgota particolarmente alto e di forma conica. Ai fianchi di Cristo sono raffigurati Maria e s. Giovanni Evangelista, al di sopra serafini in volo e su entrambi i lati schiere di arcangeli adoranti. Al di sotto corre un'ampia fascia con un'iscrizione a lettere bianche su fondo rosso intenso, probabilmente a imitazione delle pagine di un codex purpureus. Le parole nella parte destra dell'iscrizione formano una 'catena' costituita per lo più da citazioni di testi messianici dell'Antico Testamento. Al di sotto un folto gruppo di figure - probabilmente da identificare con i beati di tutte le nazioni dell'Apocalisse - si raduna per adorare la Croce.L'immagine rappresenta probabilmente una particolare versione dell'Agnello sulla montagna adorato dai beati, tema che ricorre ripetutamente nell'Apocalisse (per es. 7, 4-17); in questo unico caso tuttavia l'Agnello è stato sostituito dal Crocifisso, una commistione iconografica probabilmente destinata a celebrare e diffondere il decreto del secondo concilio Trullano (692), che abolì l'agnello come simbolo del Salvatore (Nordhagen, 1968). Il valore transitorio dell'immagine come manifesto di politica ecclesiastica ad hoc può spiegare l'assenza di confronti. Essa contiene inoltre alcune anomalie iconografiche che riguardano il tipo del Crocifisso. Si può dimostrare che in questa raffigurazione Cristo non indossava il lungo colobium scuro, comune alle versioni preiconoclaste della scena: il petto e le spalle nude indicano inequivocabilmente che portava il perizoma, un elemento che secondo gli studiosi appare acquisito solo con l'arte carolingia. In questo senso il Cristo crocifisso è sostanzialmente diverso anche dalla rappresentazione visibile nei mosaici dell'oratorio di G., dove è documentato il colobium. Inoltre, anche la testa e il volto differiscono dalle raffigurazioni abituali e mostrano una massa di capelli ricciuti e barba molto corta; questo tipo corrisponde a una particolare iconografia che proprio ai tempi di G. assurse a immagine ufficiale bizantina del Cristo, promulgata dall'imperatore Giustiniano II (685-695; 705-711) e impressa sulle monete del suo secondo regno. Entrambi questi elementi - la nuova tipologia di testa di Cristo, come la sua raffigurazione con il perizoma - erano probabilmente componenti fissate all'interno di questa scena ibrida. Vi sono tutti i motivi per ritenere che i responsabili dell'estensione del programma iconografico, tradotto fedelmente da G. come culmine dell'intera decorazione, dovettero essere bizantini. Un'immagine di papa Martino I - che morì martire in esilio nel 653 -, dotato di aureola e con l'epiteto di "Sanctus Martinus Papa Romanus", venne inclusa tra i santi papi in una delle zone inferiori. La scelta di introdurre questa immagine può essere stata uno stratagemma di G. per controbilanciare il messaggio della raffigurazione maggiore, anche se tuttavia essa dovette apparire probabilmente troppo discreta per soddisfare l'ambiente romano; la caratterizzazione, priva di precedenti, di G. nel Lib. Pont. (I, p. 386), come "humana fragilitate timidus", probabilmente riecheggia casi come questo. Se, come è stato proposto (Breckenridge, 1972), l'associazione di questi elementi eterodossi fosse tesa a suggellare un possibile compromesso tra papa e imperatore e fosse intesa come un'espressione di benevolenza da entrambe le parti, l'epiteto nel Lib. Pont. rifletterebbe l'opinione corrente a Roma riguardo a tali soluzioni di compromesso.Nel ciclo cristologico del presbiterio molte delle scene mostrano una redazione che anticipa quella di tipi posticonoclasti e tardobizantini. Tali 'prototipi' sono Cristo adorato dai suoi apostoli in proskýnesis, Pietro e Giovanni al sepolcro e l'Apparizione al lago di Tiberiade con Pietro che nuota. L'affollamento di figure, visibile sia sull'arco trionfale sia nella cappella dei Santi medici, si ricollega ugualmente al sistema di assiepare i santi impiegato nelle chiese mediobizantine. Nell'insieme, l'arte di G. dimostra che le tradizioni iconografiche nell'Oriente restarono immutate nonostante lo iato provocato dall'iconoclastia. Si può sostenere tuttavia che G., con l'esibizione della sua illimitata venerazione per la Vergine Maria e lo zelo nell'esaltarla attraverso le raffigurazioni, utilizzò l'iconografia bizantina anche per fini politici: grazie alle sue molte raffigurazioni come donatore, in cui appare al fianco di Maria, e alla ricorrente formula 'servo della Vergine' con la sua eco di uso imperiale, egli creò abilmente uno strumento che poteva dimostrare la fedeltà a Maria e non all'imperatore.La grande icona a encausto di S. Maria in Trastevere a Roma, riemersa quarant'anni fa sotto strati di pittura successiva, raffigurante Maria regina assisa in trono e un papa donatore inginocchiato, dovrebbe anch'essa essere vista in questa prospettiva e potrebbe quindi costituire un esempio delle immagini recanti la propria effigie che G., secondo il Lib. Pont. (I, p. 385), avrebbe posto in molte chiese romane. L'iscrizione sulla cornice collega l'icona all'arte di G., come anche la tipologia della Vergine, che può essere puntualmente paragonata a quella dei mosaici dell'oratorio (Bertelli, 1961). È una delle rare icone che includono il donatore e come tale permette di cogliere un altro aspetto del cerimoniale di corte contemporaneo e della sua rappresentazione.Nella letteratura critica, la discussione sullo stile di G. non è un capitolo chiuso: si sa così poco dell'arte bizantina dell'Alto Medioevo che le sue linee generali di sviluppo si possono fondare solo su supposizioni. Kitzinger (1955) è stato il primo ad ascrivere questo stile a un nuovo influsso di ellenismo bizantino in Italia intorno al 700, un'ondata di influenze le cui caratteristiche - contorni più forti insieme a una estrema pittoricità - differivano notevolmente dalla corrente giunta a Roma nella prima metà del sec. 7°; anche se la sua tesi è generalmente accettata, non vi è ancora un consenso assoluto su come e in quali circostanze questo stile si dovette sviluppare. Le affinità con elementi stilistici come quelli che emergono negli affreschi in S. Maria foris portas a Castelseprio (v.) sono stati notati da molti studiosi, come anche aspetti che anticipano le forme della miniatura della c.d. rinascenza macedone del sec. 10° (Morey, 1952; Schapiro, 1952; Lazarev, 1956-1957; Nordhagen, 1988). Se una parte della critica vorrebbe ascrivere queste caratteristiche a una corrente di ellenismo perenne che riemerse ripetutamente in ambito bizantino, d'altro canto le incisive sigle delle lumeggiature nel modellato di teste e panneggi degli affreschi di G. - motivi che si possono classificare come versioni lievemente stereotipate di configurazioni simili nella pittura murale classica - sembrano essere apparse per la prima volta nell'arte intorno al 700. Il clima o contesto in cui si sviluppò questo sistema ellenistico di modellare le figure deve quindi essere ricercato nella situazione artistica della capitale bizantina nel periodo immediatamente precedente all'inizio dell'iconoclastia, con le relative crisi militari e spirituali e con un coinvolgimento passionale nel ruolo e nella funzione delle immagini, che raggiunse un'intensità mai superata nella storia della cultura bizantina. Le composizioni di G., con il loro significato che poteva essere apprezzato a molti livelli di lettura, rimangono una delle principali chiavi di accesso a questi processi.I caratteri epigrafici delle lettere negli affreschi di G. sono eleganti e regolari, con tratti e coronamenti terminali magistralmente dipinti e con le parti curve o rotonde di alcune lettere eseguite con pennellate virtuosistiche; questa scrittura, giudicata tra i migliori prodotti del periodo altomedievale, probabilmente ha il suo retroterra nell'ambiente imperiale (Cavallo, 1988). Le iscrizioni su pietra di G., cioè la sua epigrafe tombale da S. Pietro e quella sull'ambone in S. Maria Antiqua, non sono meno notevoli nel modo in cui copiano lo stile delle iscrizioni monumentali bizantine. A differenza della maggior parte del materiale epigrafico occidentale del periodo, esse sono scolpite con le lettere modellate plasticamente (rilievo positivo). Anche queste iscrizioni dunque sono parte dell'imponente apparato che G. costruì intorno alla sua persona e al suo ufficio. Tuttavia, poiché si conosce così poco dei papi precedenti e successivi, non si è in grado di dire se il programma di G. fosse eccezionale e originale o parte di qualche strategia papale di più lunga durata.
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