Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Individuato come il “più soddisfacente dei candidati per un pontificato di transizione”, Angelo Roncalli, salito al soglio pontificio con il nome di Giovanni XXIII, rivela subito invece una inaspettata tempra di riformatore. Nel giro di pochi mesi procede alla nomina di nuovi cardinali, modifica i rapporti con la curia, concede maggiore autonomia ai vescovi, convoca il Concilio Ecumenico Vaticano II, richiamando l’episcopato a una responsabilità collegiale nel servizio della Chiesa. Pur con mediazioni e qualche soluzione di compromesso, frutto soprattutto dell’operato del successore Paolo VI, il Concilio (1962-1965) dà il senso di un cambiamento profondo della Chiesa, che attesta il cattolicesimo tra le forze dinamiche della società contemporanea.
Alla fine del pontificato di Pio XII la Chiesa offre di sé una immagine solida, pur se in un quadro complessivamente poco uniforme. Il disastro della seconda guerra mondiale ne ha rinsaldato il ruolo religioso e di magistero rispetto alla massa dei fedeli e la prospettiva di restaurazione cristiana della società, che l’aveva guidata dagli inizi del secolo, è riproposta dal pontefice con rinnovato vigore. Non mancano tuttavia, dal punto di vista del funzionamento delle istituzioni centrali e periferiche, problemi e disfunzioni. Il Vaticano di Pio XII è invecchiato, retto da un ristretto numero di cardinali, non arricchito da nuove nomine; negli ultimi anni gli indubbi caratteri monolitici e ierocratici del governo pacelliano cominciano a essere avvertiti come sgraditi a un episcopato tra le cui fila serpeggia un certo malessere nei confronti dell’accentuazione del potere dal centro. La crisi delle vocazioni e il diffondersi di una progressiva laicizzazione degli stili di vita e dei comportamenti è percepita da alcuni col tono apocalittico di una incipiente “scristianizzazione” delle grandi città e delle masse dei battezzati. Ancora più critica appare poi la situazione dei cattolici nell’Est europeo e del tutto inadeguata la posizione assunta al riguardo da Roma.
È così che, tra incertezze e perplessità di vario tipo, alla vigilia della convocazione del conclave per l’elezione del nuovo pontefice, il criterio che circola per l’individuazione del più quotato appare quello di trovare “il più soddisfacente dei candidati possibili per un pontificato di transizione”.
“Comodo per gli integristi, rassicurante per gli indecisi o i concilianti”, il patriarca di Venezia cardinale Angelo Roncalli è individuato appunto come il candidato di “giusto mezzo”. Nulla lascia intravedere in lui la tempra del riformatore. Innalzato al soglio pontificio col nome di Giovanni XXIII, egli mostra invece sin dall’inizio, e come si avverte già dal discorso pronunciato durante la cerimonia dell’incoronazione, uno stile di governo del tutto inconsueto. Esce spesso per le strade di Roma, ne visita i luoghi sacri e gli ospedali, va incontro alla gente, manifestando così la volontà di presentarsi soprattutto in chiave pastorale e di affermare il primato del carattere sacerdotale su tutti gli altri aspetti del ministero pontificale. Del proprio stile e del proprio modo di realizzare la funzione pastorale fa un modello da proporre all’intero episcopato. Nel giro di pochi mesi poi procede alla nomina di nuovi cardinali, modifica i rapporti con la curia, concede maggiore autonomia ai vescovi, sostituendo al metodo del “comando” di Pio XII una funzione di coordinamento e guida.
Certo perdurano anche elementi di continuità. La cultura e la spiritualità di Giovanni hanno profonde radici nella tradizione, anche se rispetto all’intransigentismo otto-novecentesco è la dimensione pastorale post-tridentina a contare di più. Non muta le disposizioni prese dal Sant’Uffizio nei confronti della vicenda dei preti operai, con grande delusione di una parte dell’opinione pubblica e dei vescovi francesi che sono diffidati dall’inviare preti come operai negli ambienti di lavoro. Forte rimane anche l’impegno antisovietico e anticomunista, connesso con le manifestazioni di solidarietà alla “Chiesa del silenzio”, come si diceva, e le collusioni di alcuni settori delle gerarchie con gli ambienti della destra in Italia. Nel 1960 è il papa stesso a ricordare ai vescovi il valore della scomunica ai comunisti e il divieto di dare il voto ai loro alleati. Ma tali aspetti, addebitati per lo più ai condizionamenti provenienti dalla curia, non annullano il clima di entusiasmo che si crea intorno alla personalità del nuovo pontefice, che nella percezione collettiva e nel clima un po’ pesante degli anni Cinquanta rappresenta una figura nuova, in grado di catalizzare su di sé aspettative e attese di rinnovamento.
Il suo impegno di vescovo di Roma e pastore della Chiesa universale si traduce immediatamente nella celebrazione di un sinodo diocesano per Roma e di un concilio ecumenico di cui è annunciata la convocazione il 25 gennaio 1959, ad appena tre mesi dalla sua elezione. Per quanto della convocazione di un concilio si discutesse da tempo – ma non a caso, forse, il progetto si era poi arenato proprio durante il pontificato Pacelli – la convocazione del Vaticano II è frutto di un atto di responsabilità personale del pontefice. È in tal senso che si è detto che “Giovanni XXIII è il Concilio e il Concilio è Giovanni XXIII. Consapevole dell’impasse in cui si trova la Chiesa, sospesa tra crisi di autorità e crisi di credibilità, Giovanni intende richiamare l’episcopato e i vertici della curia a una consapevolezza nuova e soprattutto a una responsabilità collegiale senza partire da un programma organico precostituito.
Nella fase preparatoria viene chiesto ai vescovi e ai superiori degli ordini religiosi di presentare alla Santa Sede i propri vota, senza questionari o schemi predefiniti. Nel giro di quattro mesi risponde il 77 percento dei presuli incardinati nelle diverse diocesi del mondo. Emerge da quei vota un episcopato percorso da perplessità e un forte senso di disagio, a volte perfino di estraneità dalla società civile, che in molti casi reclama maggiore autorità e più forte disciplina e che, a seconda della provenienza geopolitica e socioeconomica, volta a volta chiede una maggiore internazionalizzazione della curia (Francia, Nord America e Canada soprattutto), la semplificazione dei riti e l’adozione delle lingue nazionali nella liturgia (molti i vescovi polacchi, jugoslavi e italiani), uno snellimento delle procedure curiali, maggiori poteri per i vescovi e più spazio per le conferenze episcopali, un catechismo unico per tutta la Chiesa e/o un catechismo sulla dottrina sociale e gli errori del comunismo, la salvaguardia della integrità dottrinale (quest’ultimo punto è sollevato soprattutto dai cardinali romani). Si tratta di esigenze e considerazioni a volte discordanti tra loro, più spesso compresenti, che non è facile raggruppare in posizioni organiche e coerenti. Nell’allocuzione Gaudet mater ecclesia (1962) con cui si apre il Vaticano II, Giovanni XXIII ne delinea solo alcuni orientamenti generali, esortando i padri conciliari a portare impegno e senso di responsabilità nella riflessione che su tali problematiche dovrà scaturire dall’assise. Forte è soprattutto il richiamo a superare quella nostalgia passatista, che aveva stigmatizzato i tempi moderni come sede solo di mali ed errori.
Con la partecipazione di 2778 persone (sette patriarchi, 80 cardinali, 1619 arcivescovi e vescovi residenziali, 975 vescovi titolari, 97 superiori generali, di cui solo il 33 percento proveniente dall’Europa), che non si conoscono tra loro e soprattutto non sono abituate a discutere insieme dei problemi della Chiesa, senza una agenda dei lavori ben delineata in grado di aggregare ed equilibrare le diverse componenti, la dinamica dell’assise conciliare si presenta subito complessa. La presenza attenta e discreta del papa tende a favorire la libertà dei padri, a far uscire il vescovo medio dagli orizzonti ristretti della riflessione individuale o settoriale dei problemi. Ma intanto questioni come i rapporti tra Roma e i vescovi, la collegialità o le conferenze episcopali cominciano a suscitare accesi dibattiti tra le tesi tradizionaliste dei cardinali romani legati all’eredità di Pio XII, come Ottaviani, Ruffini, Pizzardo e la maggioranza riformatrice del Concilio, che si avvale della consulenza di prestigiosi teologi, molti dei quali esponenti di quella nouvelle théologie precedentemente condannata dalla Santa Sede e che ora trova invece l’approvazione del papa.
Le nuove esigenze della Chiesa, espresse dai gruppi che fanno capo ai cardinali Liénart e Alfrink, al segretario per l’Unione dei Cristiani Augustin Bea e al patriarca Maximos IV si appuntano soprattutto attorno alle critiche alla congregazione del Sant’Uffizio e all’esigenza di un’apertura alle altre Chiese cristiane. Il loro impegno e il personale carisma del papa, nel contesto favorevole dell’inizio del disgelo e della distensione nelle relazioni tra URSS e Occidente, inaugurano anche una nuova fase nei rapporti della Santa Sede con Mosca con buon esito per la causa dei cattolici dell’Est.
Giovanni XXIII muore il 3 giugno 1963, lasciando il concilio aperto e un enorme lavoro avviato. Il candidato dei cardinali che si riconoscono nello schieramento riformista maggioritario diventa in breve Giovanni Battista Montini, divenuto papa con il nome di Paolo VI (dal 1963 al 1978), forte di un chiaro impegno conciliare e di una grande esperienza negli affari del governo centrale della Chiesa. Personalmente convinto della primazia del ruolo pontificio, ma desideroso anche di ottenere sui documenti finali un consenso quanto più ampio possibile, egli conduce i lavori del Concilio con indirizzo più risoluto rispetto al suo predecessore, assumendosi progressivamente molte responsabilità nella conduzione dell’assise, mediando e moderando la maggioranza riformatrice e recuperando al contempo parte dei settori tradizionalisti. Non ci si può sottrarre infatti all’impressione che su molte importanti questioni, anche a causa delle pressioni contemporaneamente esercitate dai mass media, si arrivi alla fine a soluzioni di compromesso. Ne sono esempi la costituzione Lumen gentium, che integra la monarchia papale con la collegialità episcopale come forma ordinaria di governo della Chiesa, e la Gaudium et spes che inaugura un cauto disimpegno dalle compromissioni coi poteri politici, incrinando le posizioni degli intransigenti da sempre sostenitori della necessità che l’istituzione ecclesiastica assuma il ruolo di guida della società.
È fuor di dubbio comunque che il Concilio che si chiude l’8 dicembre 1965, con una cerimonia solenne celebrata nella piazza della basilica di San Pietro e trasmessa da tutte le radio e televisioni del mondo, faccia emergere una immagine diversa della Chiesa, che attesta il cattolicesimo tra le forze dinamiche della società contemporanea. L’affermazione del valore del dialogo con le religioni non cristiane, l’impegno rivolto a una rinnovata azione evangelizzatrice tra gli uomini e alla difesa della pace, non più a partire dalla concezione tradizionale della “guerra giusta” bensì dalla prospettiva della “costruzione” della pace e della convivenza tra gli uomini, la condanna della tortura e dei crimini contro l’umanità danno, infatti, effettivamente il senso di una svolta epocale. Punti salienti ne sono, sul piano pastorale, l’accentuazione del valore comunitario della celebrazione liturgica garantito dall’uso delle lingue nazionali; i decreti sul rinnovamento della formazione sacerdotale; il riconoscimento del ruolo dell’apostolato del laicato e del nesso inscindibile tra l’istituzione e la vita religiosa dei fedeli; l’introduzione del criterio della “catechesi permanente”. Così come risulta fondamentale per ciò che concerne più in generale la proiezione della Chiesa nel mondo, l’assunzione di responsabilità nei riguardi dell’antisemitismo cattolico.
Certo non tutti gli elementi che dai tempi della condanna del modernismo avevano opposto la Chiesa al mondo moderno trovano ora una effettiva via di risoluzione. Si pensi alla posizione intransigente della Chiesa rispetto al problema del celibato ecclesiastico (l’enciclica Sacerdotalis coelibatus del 1967 respinge ogni modifica della tradizione in materia), o della regolamentazione delle nascite (l’enciclica Humanae vitae del 1968 ribadisce la concezione della intrinseca immoralità della contraccezione artificiale e l’argomento sarà ripreso successivamente, pure in tempi di esplosione demografica e di diffusione del virus HIV), o ancora alla condanna del consumismo e alla politica di proliferazione delle canonizzazioni assunte poi durante il pontificato di Karol Wojtyla. Pur tra le tante novità di rilievo avviate dalla svolta conciliare, la lotta alla secolarizzazione sembra cioè essere ancora una opzione di fondo del magistero ecclesiastico.
Sul fronte interno poi della organizzazione della Chiesa, altri problemi restano aperti circa la ricezione stessa dei risultati del Concilio. Sostenendo la natura eminentemente pastorale del Vaticano II, che implicherebbe l’idea che le sue delibere non ricoprano carattere dogmatico ma di semplice orientamento generale, un gruppo integrista capeggiato da monsignor Lefebvre si è spinto a dar vita negli anni Ottanta a una Chiesa scismatica tradizionalista, che conserva l’uso del latino e della liturgia post-tridentina, e che conosce una certa diffusione in varie parti del mondo.
Per altri versi in America Latina, dove in connessione con l’espansione demografica la diffusione del cattolicesimo assume i caratteri di dimensione di massa, venendosi così a trovare invischiato con tutti i problemi propri dei Paesi in via di sviluppo, l’episcopato è molto più impegnato con le grandi questioni della giustizia e della equità sociale che sulle tematiche della riforma strutturale della Chiesa, con sviluppi anche originali che costituiscono un indubbio arricchimento rispetto allo stesso Vaticano II. Fenomeni analoghi si verificano anche in Africa e in Asia, grazie anche alle significative connessioni ivi presenti tra l’espansione missionaria del cristianesimo e la promozione dei diritti umani.
Nato per iniziativa di un papa, ma avente nell’episcopato il suo vero artefice, il Concilio Vaticano II ha traghettato la Chiesa verso il cattolicesimo del terzo millennio, mettendola in condizione di rispondere alle nuove istanze di evangelizzazione poste dalle società di massa, restando nel solco della tradizione. L’apertura verso le chiese non cristiane e le altre culture, la promozione delle chiese locali, l’assunzione della pastoralità come elemento unificante di tutte le dimensioni presenti nel rapporto tra Chiesa e società, ne costituiscono gli elementi di forza che le hanno consentito di superare i rischi di una eccessiva frammentazione o di un angusto e insanabile divorzio con la modernità.