GIOVANNI
Cancelliere e notaio di Berengario I, fu vescovo di Cremona forse a partire dal 915. Originario di Verona nella seconda metà del secolo IX, la sua vicenda biografica risulta inscindibilmente intrecciata alla carriera politica di Berengario. La prima attestazione documentaria che lo riguarda, in data 1° ag. 905, è una generosa donazione in suo favore da parte del re - gli vennero ceduti infatti tre ariali (cioè poste di mulino) sull'Adige e due servi con la loro madre (I diplomi di Berengario I, n. 58) - da mettere probabilmente in relazione con l'episodio conclusivo del conflitto tra lo stesso Berengario e Ludovico di Provenza.
Proprio nell'estate del 905 quest'ultimo tentò per la seconda volta l'impresa italiana, impadronendosi di Verona. Berengario, costretto in un primo momento a ripiegare a nord, alla fine di luglio riconquistò la città, catturò Ludovico e lo fece accecare. La relativa facilità della riscossa berengariana, così come è narrata da Liutprando di Cremona nell'Antapodosis e soprattutto da uno scrittore contemporaneo ai fatti, l'autore dei Gesta Berengarii imperatoris, è senza dubbio da attribuire all'aiuto che il re ricevette da alcuni veronesi rimastigli fedeli.
G. doveva far parte di questo gruppo, che fu subito largamente ricompensato da Berengario; così accadde anche a un tal Fontegio Amezo, a un diacono Audo e a un prete Odelberto, intestatari dei diplomi emessi tra il 31 luglio e il 2 agosto (ibid., nn. 56-72). Meno di due anni dopo, nel marzo del 907, G. donò i tre ariali ricevuti da Berengario al monastero veronese di S. Maria in Organo e ne fu ricompensato ricevendo in enfiteusi, da parte di Austreberto, abate del predetto monastero, tre colonie in Valpolicella (aprile 908). Nello stesso periodo l'intraprendente diacono iniziò la sua carriera come funzionario di corte. È nominato come cancellarius per la prima volta il 24 apr. 908 (ibid., n. 66) - per l'ultima il 3 ott. 922 (ibid., n. 138) -, e risulta apporre la recognitio in veste di notarius in cinque diplomi del 911 (ibid., nn. 75-79), in due del 912 (ibid., nn. 83, 86), in uno del 913 (ibid., n. 92).
Sembra, insomma, che nel caso di G. i due titoli di cancelliere e notaio siano intercambiabili e non indichino due cariche distinte, tali che dall'una si venga promossi all'altra. La recognitio, poi, non presuppone necessariamente la presenza fisica del riconoscitore all'atto, per cui i numerosi diplomi che vedono G. come controfirmatario non possono disegnare la mappa degli spostamenti dell'alto funzionario al seguito del suo re. Diversamente, e cioè come segno della sua presenza a fianco di Berengario, occorre interpretare la segnalazione, nei documenti, di G. come interveniente ("Iohannes clericus interfui"): in due placiti, tenutisi nel novembre del 910 a Cremona, che costituiscono, inoltre, gli ultimi indizi documentari dell'esistenza in vita del vescovo Lando, predecessore di G. nella sede cremonese (ibid., nn. 73-74).
Come per altri suoi colleghi, la carriera cancelleresca servì a G. per percorrere il cursus honorum ecclesiastico e per ottenere l'episcopato cremonese. Nella recognitio di un documento datato 1° febbr. 915 G. associò per la prima volta al titolo di cancellarius quello di episcopus (ibid., n. 95). Ma in altri diplomi, successivi a questa data, compare unicamente il titolo di cancellarius (ibid., nn. 96-97, 99-100, 108), mentre solo a partire dal 25 maggio 916 (ibid., n. 110), e da allora con regolarità, G. si sottoscrisse come vescovo e cancelliere (ibid., nn. 111, 113-116, 118-119, 124-130, 132, 134-138). Pertanto, a proposito della nomina a vescovo di Cremona, sono ammissibili due ipotesi: che essa sia avvenuta tra il 25 maggio 913 (data dell'ultima donazione berengariana a G. in veste di semplice clericus) e il 1° febbr. 915, e che quindi G., già vescovo, abbia solo più tardi usato con continuità il titolo; oppure che il titolo episcopale nella recognitio del documento del 1° febbr. 915, pervenutoci solo in una copia del XVI secolo, sia un'interpolazione del copista e che, dunque, occorra posticipare la nomina al 916.
Numerose sono le donazioni di Berengario in favore di G., dopo la prima già ricordata, da interpretare - non diversamente da quella - come ricompense della sua mai intermessa fedeltà. Già prima che egli fosse nominato vescovo, nel maggio del 913, gli fu regalato un appezzamento di terra a Verona, tra l'arena e la riva sinistra del fiume, comprendente anche alcuni resti del teatro romano (ibid., n. 89). Il 1° sett. 916 a lui, in quanto vescovo, furono risarciti i danni, evidentemente ingentissimi, arrecati alla Chiesa di Cremona dalle incursioni degli Ungari: Berengario imperatore gli concesse tutti i diritti del Fisco nel comitato di Brescia e nella corte di Sospiro, le immunità per 5 miglia attorno alla città e il mercato di San Nazzaro sul Po; gli confermò i diritti di pesca, di macinatura e di transito da Vulpariolo all'Adda e infine prese sotto il suo mundio tutti i castelli del vescovato (ibid., n. 112). La donazione ebbe una tale risonanza che la si trova ricordata, associata al nome di G., nella Chronica duecentesca di Sicardo: "Huius Beringarii cancellarius nomine Iohannes Cremonae fuit episcopus, qui comitatum extra civitatem per V miliaria impetravit".
Il 18 dic. 917 o 918, Berengario donò al suo "fidelissimus cancellarius" un prato del comitato di Verona (ibid., n. 120) e ancora, il 26 dic. 918, una terra spettante alla curtis di Sospiro (ibid., n. 121). Nell'anno successivo i due documenti che riguardano il vescovo di Cremona lo vedono impegnato, nell'agosto, in uno scambio di terre con il prete Ambrogio, missus imperiale, in Carminiano (Codex diplomaticus Langobardiae, n. CCCCLXXXIV) e nel novembre a presiedere, questa volta lui in veste di missus di Berengario, un placito in Bonate Superiore che diede ragione al vescovo di Bergamo Adalberto di una lite con una tal Odelcharda, colpevole di avergli usurpato un podere con vite (Iplaciti, p. 488 n. 130).
Questi donativi dovettero fare di G. un uomo molto ricco. Dal testamento che egli dettò nell'agosto del 922 apprendiamo che aveva numerose proprietà, in città e nel territorio veronese, lasciate per lo più in eredità ai nipoti Audeberto e Gauso e in parte donate, in sostentamento dei poveri, a un oratorio, dedicato a s. Siro, da lui stesso fondato e trasformato alla sua morte in xenodochio.
G. sopravvisse a Berengario. È nominato, infatti, per l'ultima volta, il 27 sett. 924, in un diploma con cui il re Rodolfo II prese sotto la sua protezione la Chiesa di Cremona e le confermò tutti i diritti concessi dal suo predecessore.
Benché di recente l'ipotesi sia stata fortemente messa in discussione (soprattutto dal Brunhölzl), per lungo tempo si è congetturato che G. potesse essere l'autore dei già citati Gesta Berengarii imperatoris. Si tratta di un poema in 1090 esametri, con un breve prologo in distici, composto negli anni di impero di Berengario (tra il dicembre del 915 e il 7 apr. 924) per esaltarne cortigianamente le gesta. Rivestiti di paludamenti classici e con un sofisticato intreccio di citazioni letterali e adattamenti da Virgilio, Stazio, Ilias Latina, Prudenzio, Sedulio, Boezio, Giovenale, poeti latini del periodo carolingio, ecc., vi sono narrati gli avvenimenti del periodo che va dall'887 al 915. Le numerose glosse tramandate insieme col testo possono essere giudicate di due specie: esplicative, da attribuire con ogni probabilità all'autore del panegirico, ed erudite, forse opera di un suo contemporaneo. Ogni tentativo di riconoscere in un personaggio noto il poeta dei Gesta, in mancanza di prove oggettive (l'unico testimone manoscritto, ora alla Bibl. nazionale Marciana di Venezia, Cod. lat., cl. XII, 45, è un apografo del sec. XI, sprovvisto di ogni indizio in proposito), non può realizzarsi che attraverso l'indagine analitica del testo. Parlano a favore dell'identificazione con il veronese G., funzionario di corte e vescovo di Cremona, la devozione nei confronti di Berengario, il triplice riferimento a Verona (I, 148; IV, 20 ss. e soprattutto IV, 35 ss.) e il fatto che il poeta parli di se stesso come di un ecclesiastico (nel prologo vv. 31 s.: "Christe, poli convexa pio qui numine torques, / da, queat ut famulus farier apta tuus"). Al contrario, la sua vasta cultura classica, il tenore delle glosse che gli si attribuiscono e, soprattutto, gli ultimi versi (IV, 203-205), che incitano alcuni discepoli ("iuvenes") a meglio celebrare le imprese berengariane, inducono a ritenere che si tratti piuttosto di un non altrimenti noto maestro di scuola.
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